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giovedì 10 dicembre 2009
Misteri del cinema italiano. La bella gente
Misteri del cinema italiano. C'è un film, opera seconda di Ivano De Matteo. Si chiama La bella gente. Vince il festival di Annecy, partecipa all'ultimo festival di Torino, viene apprezzato in lungo e in largo per il mondo. E soprattutto non è neanche un "piccolo" film, perché vanta nel cast attori di primo piano come Antonio Catania, Monica Guerritore, Elio Germano, Iaia Forte. Eppure. Eppure non ha una distribuzione. Il che significa che per vederlo in sala (o in dvd) dovremo aspettare. Cosa poi è lecito chiederselo, vista la miopia di un sistema che - come la buona borghesia - si basa su ipocrisie e tendenze fasulle.
La bella gente è la storia di Alfredo e Susanna. Alfredo è un architetto, Susanna una psicologa. Persone borghesi e progressiste, cinquantenni dall’aria giovanile, dalla battuta pronta e lo sguardo intelligente. Vivono a Roma ma trascorrono i fine settimana e parte dell’estate nella loro casa di campagna all’interno di una tenuta privata. Un giorno Susanna, andando in paese, resta colpita da una giovanissima prostituta che viene umiliata e picchiata da un uomo sulla stradina che porta verso una strada statale. Decide di salvare quella ragazza. Quel gesto le cambierà per sempre la vita. E sconvolgerà gli equilibri della sua famiglia.
Prodotto da X Film, presentato al Torino Film Festival e vincitore del Gran Premio del Festival del cinema italiano di Annecy, La bella gente è l’opera seconda di Ivano De Matteo, un passato tra laboratori teatrali, cortometraggi, documentari e importanti ruoli da attore. Scritto da Valentina Ferlan, girato in 4 settimane con un budget esiguo (450.000 Euro) e interpretato da un cast eccezionale (Monica Guerritore, Antonio Catania, Elio Germano, Iaia Forte, Giorgio Gobbi, Victoria Larchenko, Myriam Catania), il film di De Matteo è un’opera capace di sconvolgere e turbare. Dietro la semplice linearità del soggetto, scorre una «progressione psicologica da thriller», una ferocia nel tratteggiare personaggi così “normali” da risultare anormali. Una riflessione acuta, tagliente e spietata sulla solidarietà, sull’indifferenza, sull’(in)esistenza delle divisioni e delle classi sociali.
L’ipocrisia regna sovrana in alcuni ambienti borghesi, come afferma lo stesso De Matteo: «L’ipocrisia è come il colesterolo, c’è quella buona e quella cattiva. C’è l’ipocrisia che serve per andare avanti, per non risultare magari offensivi, e quella cattiva, quella perbenista». I protagonisti del suo film valicano questo labile confine: credono di avere una certa personalità, certi ideali, certi progetti di vita. Naufragano invece nel disordine e nel caos non appena l’imprevisto si presenta. Deviazioni che conducono ad essere altro da sé e producono un individualismo esacerbato, portato alle estreme conseguenze nell’amaro finale.
Senza concessioni di sorta alla retorica o al didascalismo, De Matteo non punta il dito. Indica piuttosto una direzione, (de)componendo un affresco dell’attuale società italiana, tra false apparenze, ipocrisia dei sentimenti, schiavitù delle convenzioni. Il baratro verso cui i personaggi sprofondano è inversamente proporzionale al ritmo che la regia conferisce alla vicenda. Un’angolazione realistica e urgente per mettere in scena un pezzo di paese franato nell’autocompiacimento e nell’ingordigia, di materia e sentimenti. Perché «è difficile capire come comportarsi quando la persona a cui dai tanto inizia a prendere». La fine di un sogno che tra una lacrima, un sorriso beffardo e una porta che si chiude, fa rivivere il meglio della commedia italiana.
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