find the path

giovedì 29 maggio 2008

I migliori anni della nostra vita. Il divo a Gomorra


C’era una volta uno strano paese chiamato Italia… Purtroppo il proseguo non è una favola da raccontare ai bambini, è piuttosto una storia di crimini e inciviltà. Solo due registi acuti e sensibili come Matteo Garrone e Paolo Sorrentino potevano avere la voglia, lo stile, il rigore, il coraggio adatti a raccontarla. Premiati non a caso al Festival di Cannes, rispettivamente con il Grand Prix (dalle mani di Roman Polanski) e il Premio della Giuria.


Matteo Garrone ha avuto l’arditezza di adattare per lo schermo Gomorra, opera shock di Roberto Saviano. Un dedalo di vicende divise tra Napoli, Caserta, profondo Nord Est. Perché la monnezza che tanto fa scalpore in Campania e dintorni non è mica un problema solo locale, tutt’altro. È un business per le aziende settentrionali (quelle che “mandano avanti il paese”…) e per la camorra 500 kilometri più a sud. «100 euro a scarico» è il motto, incarnato da un Toni Servillo faccendiere che non esita ad assoldare dei bambini per guidare dei camion pur di completare la propria missione. Un territorio compromesso, marcio fin nelle fondamenta, non solo a causa di chi ne popola i piani alti. Poiché l’umanità di Napoli (mai così profonde e cinematografiche Scampia e Secondigliano) è segnata, macchiata da faide interne (la più truce è quella con il clan dei Casalesi), microcriminalità, paure quotidiane. Ecco allora tanti quadri, vicende simbolo di questa condizione. Il ragioniere che va in giro col giubbetto antiproiettili; il sarto che rischia la vita per essersi alleato con i cinesi; un ragazzino che si è stufato di avere quattro spiccioli di mancia e entra nel clan; due ragazzi pieni di vita, cani sciolti destinati a finire nel sangue. Rosso che macchia lo schermo, lo decompone come un corpo, attraversato dalla macchina da presa in campi lunghi, piccoli particolari, luci livide e suoni così reali da essere scarni, squarciati soltanto da qualche neomelodico di turno.


Una scelta radicale, la stessa compiuta da Paolo Sorrentino per Il divo. Il divo è lui, è Giulio Andreotti (ancora una volta Toni Servillo, in questo caso un po’ troppo marcato nell’interpretazione, per quanto straordinaria nella sua ieratica immobilità), quarant’anni di storia politica italiana racchiusi in un paio d’occhiali, una gobba e un pugno di battute fulminanti. Oltre che una scia di morti (da Pecorelli a Moro, da Ambrosoli a Lima, da Dalla Chiesa a Calvi), uomini (splendida la scelta degli attori per la corrente andreottiana, in particolare Carlo Buccirosso/Paolo Cirino Pomicino e Flavio Bucci/Franco Evangelisti), azioni. Una persona colta nel declino dell’astro politico, gli anni dell’ultimo governo, dell’immobilismo, della mancata elezione a Presidente della Repubblica, del processo per mafia. Eventi vissuti con un mal di testa cronico, senza dormire ma nemmeno scomporsi troppo, messi in scena da Sorrentino con gran senso del ritmo, spunti da videoclip, pause ossessive, gusto pop surreale e grottesco, particolari ‘macabri’ (in particolare le scenografie di Lino Fiorito e le musiche di Teho Teardo). A ben guardare, una ricognizione sul nostro passato recente, su come sia cambiata la politica (il riferimento all’odio/rispetto per Nenni è emblematico), su quanto il divo stesso ne abbia modificato modalità e metodi del comunicare. Più in generale, una metafora sul Potere, sulla sua preservazione, sul dolore e la necessità del Male che esso comporta. Per preservare il Bene. «Non ho mai creduto che sia possibile distinguere gli uomini in due categorie, angeli e diavoli. Siamo tutti medi peccatori».

martedì 13 maggio 2008

Speciale Cannes: parte II. Americhe VS resto del mondo


Dopo aver approfondito i film europei in concorso, eccoci arrivati al colosso dei colossi, il cinema americano. Che con Cannes ha sempre avuto un rapporto trasversale eppure vincente, dalla Palma d’Oro del 1955 (Marty, Marty vita di un timido, Delbert Mann) al successo del 2004 – piuttosto immeritato – avuto da Michael Moore con Fahrenheit 9/11. Se il pregio del film d’apertura è andato al Brasile con la nuova opera di Fernando Meirelles Blindness (tratta dall’omonimo romanzo di José Saramago con un cast a cinque stelle firmato Julianne Moore, Mark Ruffalo, Danny Glover e Gael Garcia Bernal, molto attesa dopo il durissimo colpo di estrazione televisiva City of Men, Cidade dos Homens, 2007), il film di chiusura è What Just Happened? di Barry Levinson. L’autore di Baltimora affonda gli artigli nella metacinematografia adattando il libro di Art Linson 'What Just Happened? Bitter Hollywood Tales from the Front Line': storia di un produttore in declino (Robert De Niro) alla ricerca affannosa dei soldi necessari per girare il film che potrebbe finalmente rilanciarlo. Sulla sua strada una pletora d’attori da urlo: Bruce Willis, Robin Wright Penn e John Turturro. Si prevedono staffilate per Hollywood e dintorni.


In concorso ci sono però i veri pezzi forti del Festival. A cominciare da zio Clint, un Eastwood che torna al giallo ambientando Changeling negli anni ’20: una vicenda che ha per protagonisti Angelina Jolie e John Malkovich. Sarà l’ennesima incursione dell’autorattore nel profondo cuore femminile? Altro colpo in canna Two Lovers di James Gray, che dopo gli exploit (sottostimati) degli esordi (Little Odessa, 1994; The Yards, 2000; We Own the Night, I padroni della notte, 2007) si confronta con una odissea sentimentale vissuta intensamente da Joaquin Phoenix e Gwyneth Paltrow. Ennesima pellicola da vedere è The Argentine di Steven Soderbergh, biopic su Ernesto Guevara (Benicio del Toro) durante la rivoluzione castrista del 1956. Un forte interesse suscita anche Synecdoche, New York di Charlie Kaufman, sceneggiatore (tra gli altri ha firmato i copioni di Being John Malkovich – Spike Jonze, 1999 – , Confessions of a Dangerous Mind – George Clooney, 2002 –, Eternal Sunshine of the Spotless Mind – Michel Gondry, 2004 –) al suo esordio dietro la macchina da presa. Una storia surreale, un horror della mente che scava tra quotidianità e immaginazione, realtà e rappresentazione.


Prima di passare alle cinematografie ‘alternative’, qualche parola va spesa per gli altri titani fuori concorso. Woody Allen propone il viaggio spagnolo di Vicky Cristina Barcelona in compagnia delle sua muse Penélope Cruz e Scarlett Johansson. Steven Spielberg si appresta a sbancare i botteghini di tutto il mondo con il ritorno di Indy in Indiana Jones and the Kingdom of the Crystal Skull. Successo annunciato anche per Kung Fu Panda, animazione made in Dreamworks di Mark Osborne e John Stevenson con le voci (in originale) di Jack Black, Dustin Hoffman, Jackie Chan, Lucy Liu, Angelina Jolie e Seth Rogen.


Tornando al concorso, la pattuglia ‘resto del mondo’ si presenta di grande qualità. Oltre Meirelles, dal Brasile giunge il nuovo film di Walter Salles Linha de Passe, sperando possa essere un ritorno ai fasti di Central do Brasil (1998). Due le opere argentine. Dopo il promettente Nacido y criado (2006), Pablo Trapero si confronta con una giallo al femminile in Leonera. Lucrecia Martel cerca conferma al talento espresso in La ciénaga (2001) e La niña santa (2004) dando vita all’affresco oscuro e intimista di La mujer sin cabeza.
Dal Canada arriva Adoration di Atom Egoyan, nuova riflessione dell’autore di origini armene su tecnologia e percezione, molto atteso perché a tre anni di distanza dall’ultimo Where the Truth Lies (False verità, 2005).
La Turchia ripone speranze in Nuri Bilge Ceylan e il crudo Üç Maymun (Three Monkeys), Israele è invece rappresentato da Waltz with Bashir di Ari Folman, animazione ambientata a Beirut durante il massacro di Sabra e Chatila avvenuto nel settembre del 1982.
Infine, la pattuglia asiatica. Spicca la mancanza di Giappone, Hong Kong e Korea (fuori dal concorso e presenti esclusivamente nelle sezioni della Quinzaine e di un Certain Regarde). In compenso emergono paesi ‘nuovi’ come Singapore e Filippine. Il vincitore di Venezia 2007 (Sanxia haoren, Still Life) Zhang Ke Jia in Er shi si cheng ji (24 City) naviga in 50 anni di storia cinese tra passato e futuro. Da Singapore potrebbe proprio esserci la sorpresa Eric Khoo: My Magic è la magia che tenta un prestigiatore alcolizzato, quella di riconciliarsi con il figlio adolescente. Si tratta anche del primo film girato completamente in lingua tamil. Tra l’altro lo stesso Khoo è stato il primo regista del suo paese ad essere stato invitato a Cannes nel 1997 grazie a 12 Storeys (Shier lou). Le Filippine concorrono con Serbis di Brillante Mendoza, settimo film che cerca di bissare le ottime impressioni fatte dal precedente Tirador (2007) alla Berlinale 58. Nel nome di Lino Brocka.

lunedì 12 maggio 2008

Speciale Cannes: parte I. I film europei in concorso


La penuria di titoli europei in concorso, pellicole francesi escluse, sarà una delle peculiarità più evidenti del 61° Festival du Cinéma. Il vecchio continente sfilerà sugli schermi dall’altra parte della Croisette parlando, oltre alla lingua ospite che è la stessa del Belgio (Jean-Pierre et Luc Dardenne, Le Silence de Lorna), esclusivamente ungherese (Kornel Mundruczo, Delta), tedesco (Wim Wenders, The Palermo Shooting) e italiano (Matteo Garrone, Gomorra; Paolo Sorrentino, Il divo).
Le restanti opere made in Europe appartengono tutte alla Francia: Arnaud Desplechin, Un conte de Noel; Philippe Garrel, La Frontière de l'aube; Laurent Cantet, Entre les murs.
La cinematografia europea, tutt’altro che dormiente sul fronte della qualità, si aspettava forse un occhio più attento ai fermenti provenienti da Est. In modo particolare dopo la vittoria del rumeno 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni (4 luni, 3 saptamâni si 2 zile, Christian Mingiu) e la presenza in concorso, lo scorso anno, di due titoli russi. Niente di nuovo sul fronte occidentale per quel che riguarda l’Inghilterra. I vicini d’oltre Manica, visto l’esonero di Genova (Micheal Winterbottom), guarderanno il festival da spettatori per il secondo anno consecutivo (esclusa la cooproduzione con i Dardenne).


Il Paese più soddisfatto sembra, dunque, l’Italia in concorso con la metà del numero di film selezionati dagli interi Usa. Le due pellicole di Garrone e Sorrentino, interpretate da Tony Servillo, trattano la Storia recente di una nazione, in linea di massima, troppo consenziente, in passato come nel presente, verso qualsiasi forma di potere forte (e annesse facce oscure). Il Divo è il senatore a vita Andreotti raccontato nel periodo compreso tra il 1992, anno del suo settimo governo, e l’inizio del processo che lo ha visto incriminato per associazione mafiosa.


Gomorra è, invece, la trasposizione dell’omonimo libro di Roberto Saviano, il quale, insieme al regista, ha curato anche la sceneggiatura. Un primissimo piano sulla potente infiltrazione camorristica negli affari della provincia napoletana come in quelli di livello internazionale.
Impronta italiana anche per il lavoro di Wenders. Il film, ambientato a Palermo, narra le vicende di un fotografo celebre quanto esistenzialmente disordinato. Andata in pezzi la sua vita, abbandona tutto e va a vivere nel capoluogo siculo. Protagonisti in quest’ultima fatica dell’autore de Il cielo sopra Berlino (Der Himmel über Berlin, 1987) sono la rockstar Campino, Dennis Hopper, Patti Smith e Lou Reed.


L’ungherese Delta è, invece, una rivisitazione dell’ 'Otello' e dell’ 'Elettra' calati in uno scenario futuribile. Il giovane Mihail tornato all’originaria comunità di Delta per i funerali del padre, si innamora della sorella. Scoprirà, poi, che il genitore è stato ammazzato e inizierà così la caccia ai suoi assassini deciso a perpetrare la propria vendetta. A vestire i panni di Mihail è Félix Lajkó, violinista etnico ungherese. In realtà il musicista ha sostituito Lajos Bertók dopo la sua morte nel corso delle riprese. Il film approda al Festival forte della vittoria del Golden Reel (Hungarian Film Week) e del Gene Moskowitz Prize.


Dopo la vittoria del 2005 i fratelli Dardenne ci narrano quest’anno di una giovane albanese che pur di andare in Belgio, sposa un tossicodipendente con la segreta speranza che muoia presto di overdose. Lorna è Arta Dobroshi affiancata da Jérémie Renier.
I francesi annoverano, invece, tra le proprie schiere Desplechin. Habitué del Festival, ritorna con il racconto di una famiglia spolpata da litigi e gravi malattie.
Philippe Garrel propone, viceversa, la storia di un fotografo (Louis Garrel) che il giorno del suo matrimonio scorge nello specchio una terribile visione. La sua ex-ragazza suicida dopo essere stata abbandonata da lui, torna nel mondo dei vivi per vendicarsi.


Infine Entre les murs racconta di un professore in una scuola di un quartiere difficile. L’interprete è François Bégaudeau anche autore del romanzo da cui è tratto il film, nonché cosceneggiatore della pellicola insieme al regista e a Robin Campillo.
In bocca al lupo a tutti, allora, ma soprattutto alla Francia che, dal 1987 (Sotto il sole di Satana, Sous le soleil de Satan, Maurice Pialat) non vince un “suo” festival... Polanski non conta.

martedì 6 maggio 2008

Il western psicologico di Anthony Mann. Bend of the River


Per una volta il titolo italiano si rivela all’altezza di quello originale. Là dove scende il fiume (Bend of the River, 1952) è il luogo dove cerca redenzione Glyn Mc Lyntock (James Stewart), bandito del Missouri in cerca di espiazione. Il passato è una traccia difficile da cancellare, prova a dare una virata alla propria vita scortando dei coloni verso le prosperose terre dell’Oregon. Salva anche dalla forca un suo simile, Emerson Cole (Arthur Kennedy), che alla fine dei conti si rivela la mela marcia che tutti sospettavano. La vendetta allora non può che essere l’unica soluzione.


Anthony Mann gira un western attento soprattutto alle dinamiche e alle sfumature psicologiche dei suoi personaggi, «in cui il talento sarà sempre messo al servizio della storia e non di ciò che essa significa» (André Bazin, Evoluzione del western, in Che cos’è il cinema?, Milano, Garzanti, 1971). La voglia di riscatto, un’identità tormentata da nascondere, la paura di una mancata accettazione. Sono questi i dilemmi di Glyn, diviso tra l’etica e l’istinto, il dialogo e la violenza. D’altronde come fare in un mondo nel quale tutti sono accecati dalla febbre dell’oro, le leggi del mercato iniziano a farsi spietate e le pistole sono il solo modo d’intendere la giustizia?

Mann gira con rigore magistrale, definendo un universo dall’elevato spessore morale (peccato che il doppiaggio italiano ridicolizzi l’assistente nero del capitano del battello con una voce da pagliaccio). Sfrutta due splendidi protagonisti, diabolico e calcolatore Cole, intenso e combattuto Mc Lyntock. Una figura complessa e problematica che sarà incarnata ancora da Stewart in altri capisaldi del genere come The Naked Spur (Lo sperone nudo, 1953), The Far Country (Terra lontana, 1955) e The Man from Laramie (L’uomo di Laramie, 1955). Mann è uno dei migliori autori del periodo per l'abilità nello sfruttare le innovative capacità tecniche (in particolare il cinemascope), evidenziando la maestosità della Natura che circonda l’uomo, da un lato sempre più misero e insicuro rispetto alle asprezze della contemporaneità, dall'altro centrale nelle vicende umane dominate dalla violenta brutalità.

Esiste una differenza tra uomini e mele, esiste…

lunedì 5 maggio 2008

Non chiamiateli poliziotteschi


C’era una volta il grande sporco poliziesco italiano. La rabbia, le pallottole, la magnifica Giulia Alfa Romeo. Erano gli anni ‘70 e nei cinema della penisola a pellicole del calibro di Indagine su un cittadino… (Elio Petri, 1970) , Il caso Mattei (Francesco Rosi, 1972), Giù la testa (Sergio Leone, 1972), Suspiria (Dario Argento, 1977) si affiancavano storie di spietati criminali e poliziotti violenti. Erano lavori messi su con poche lire e costituivano, in linea di massima, un’evoluzione dello spaghetti western. La brutalità, l’eroe sempre più cinico anti-eroe, la violenza come mezzo ultimo e primo si trasferirono dal polveroso west al tessuto urbano: Milano calibro 9 (Fernando Di Leo, 1972), Roma a mano armata (Umberto Lenzi, 1976) , Napoli violenta (Umberto Lenzi, 1976).


Alcuni fecero in fretta a tacciare questi film di fascismo, in realtà, era evidente, in simili opere, la costruzione di un vero e proprio disordine scagliato contro una società manovrata dal Sisde, dalla politica del garofano piglia tutto, dagli scudicrociati alzati a proteggere le volontà vaticane. Un disordine che si poneva, dunque, ben lontano dalle fiammelle tricolore ed era, piuttosto, specchio di un pensiero anarchico come risposta alla “strana” democrazia all’italiana. I loro autori - citiamo su tutti Lenzi, Bava (Cani arrabbiati, 1974), Castellari (Il cittadino si ribella, 1974) e Di Leo - erano mastri artigiani che alla penuria economica contrapponevano l’inventiva di chi è cresciuto col grande cinema americano di Lumet, Lang, Aldrich, Fuller. Fenomenale la mdp piazzata sulle ruote delle auto lanciate all’inseguimento oppure sopra il cruscotto a riempire lo schermo con le facce di Maurizio Merli (Il cinico, l’infame, il violento, Umberto Lenzi, 1977), Luc Merenda (La polizia accusa: il servizio segreto uccide, Sergio Martino, 1975) Tomas Milian (Milano odia: la polizia non può sparare, Umberto Lenzi, 1974), Henry Silva (Il Boss, Fernando Di Leo, 1973).


Un grande capitolo di cinema, dunque, al cui confronto le pretese autoriali di un Romanzo criminale (Michele Placido, 2005) fanno a tratti sorridere.