find the path

martedì 16 dicembre 2008

Lost In Translation: everyone wants to be found


L’insonnia come affinità elettiva è un’idea deliziosa su cui costruire un film.
Un delizioso, romantico, divertente e allo stesso tempo drammatico anello di congiunzione, in questo caso, tra un uomo e una ragazza persi nella più occidentale e fashion delle metropoli del Far East, Tokyo.
Lost in Translation
(2003), secondo lungometraggio di Sofia Coppola dopo The Virgin Suicides (1999), racconta di un attore 50enne, Bob Harris (un favoloso Bill Murray) e di una giovane donna, Charlotte, (un’incantevole Scarlett Johansson) appena laureata in filosofia.
Lui si trova in Giappone per uno strapagato spot e lei è “in compagnia” del sempre assente marito fotografo. Charlotte e Bob alloggiano nello stesso albergo e soffrono del medesimo disturbo del sonno: è così che si trovano di notte nel bar dell’hotel.


I due iniziano a frequentarsi e a essere attratti ma non arrivano quasi mai toccarsi. (La mano di lui che stringe il piede di lei sarà a lungo la stupefacente, unica forma di contatto fisico).
Quella che instaurano è una relazione fatta di profonda confusione personale e reciproca comprensione. Una connessione stillata da una penetrante corrispondenza tra due solitudini che si svegliano di notte pretendendo di essere colmate. Ma anche un ironico scambio di linfa vitale tra persone che hanno perso di vista loro stesse e che per questo non possono godere di un sonno ragionevole.


In ultima analisi, questo è un film prezioso, costruito su inquadrature molto spesso pittoriche e raffinate, supportate dalla valida ed efficace fotografia di Lance Acord. Fotografia che lo stesso Arcord renderà praticamente perfetta nella pellicola successiva della Coppola, Marie Antoniette (2006).
Lost in Translation è come la Sinfonia Piano Concerto n 26 di Mozart: delicato, allegro, piacevole e pulito senza niente di più e niente di meno di quel che serve.

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