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giovedì 25 giugno 2009

What about The Good Life?


La tristezza di una vita comunemente miserabile talvolta non è l’unica via possibile; talvolta nelle pieghe di uno scenario freddo e incolore si rintana una “luccicanza” di pensieri e soluzioni in attesa di una potenziale azione.


Così mentre Jason Prayer (Mark Webber) consuma la sua vita di ragazzo in una miserabile cittadina statunitense tra il lavoro di benzinaio, una madre da accudire economicamente e moralmente, una malattia che gli ha fatto perdere tutti i capelli e le aggressioni immotivate di uno sconosciuto instabile, quella potenzialità di un cambiamento decisivo matura nell’alcova di una vecchia sala cinematografica in cui si proiettano solo classici, e nelle bugie di una splendida ragazza che, “rubando la vita” di Judy Garland, lo trascina nell’immaginario di un’esistenza felice.


The Good Life (2007) è il primo lungometraggio del regista Steve Berra; presentato al Sundance Film Festival, vince il Grand Jury Prize. Un film atipico che si pone a mezz’aria tra la tradizione dell’happy end, tipica nella cinematografia hollywoodiana, e gli scenari il più delle volte drammatici del film d’autore europeo. Forse è proprio questo saper contenere insieme la tristezza e la speranza che lo rende un lavoro sorprendente, caparbio nella melanconia e nella capacità di sopravvivere a essa, o forse la sua agilità deriva tutta dall’inusualità di un Berra (sua anche la sceneggiatura) che non è un filmaker di professione. Fatto sta che la pellicola è una perla che, dopo aver trasportato lo spettatore nei meandri di un infernale comune quotidianità, lo resuscita alla luce di un’altra vita possibile. L’ascesa finale è subitanea e costruita con piccoli gesti da ripescare nell’amalgama marrone di un mondo anonimo.

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