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mercoledì 16 febbraio 2011
«Voglio che il sole mi dia il benvenuto». Lo sceicco di Castellaneta
Incontenibile Giuseppe Sansonna. Dopo le sotterranee melodie di A perdifiato (2007, dedicato alla figura di Michele Lacerenza, storico compositore dell’assolo di tromba di Per un pugno di dollari di Sergio Leone) e lo spregiudicato ritratto a zona di Zemanlandia (2009, il profeta del pallone Zdenek Zeman come non lo avete mai visto), torna alla carica con Lo sceicco di Castellaneta. Chiusura del cerchio di un processo che ribalta il Meridione e lo porta ad essere protagonista assoluto di un intero immaginario. Prima la musica, poi il calcio, in questo caso il cinema e il divismo. Come in una fantasmagorica epica leoniana, il documentario di Giuseppe Sansonna scandaglia uno dei pochi, veri miti del Novecento: Rodolfo Valentino. E lo fa ripartendo da dove tutto ebbe inizio, Castellaneta.
Provincia di Taranto, terra bruciata dal sole e illuminata dal mare. Grandi canyon e paesaggi della mente che si aprono come voragini per un sogno tanto vicino quanto distante nelle possibilità, «uno scenario western prima che Hollywood inventasse il West». Le diaboliche mascalzonate adolescenziali, il retaggio avventuroso del brigantaggio, i toni kitsch e perversi del cattolicesimo meridionale. Tutto serve a plasmare la figura eccentrica e affascinante che ne forgiò il mito. Un misto di malinconia e tormento, frivolezza e seduzione, che incenerisce imperfezioni e particolarità (lo strabismo di Venere, i matrimoni falliti, la stimolante creazione intellettuale che ne ipotizza una sorta di precursore ante litteram del Neorealismo) grazie ad uno sguardo magnetico.
In parallelo all’ascesa del divo Valentino, la via che sprofonda verso il baratro folle di Antonio N., professione matto del paese. Che rivive pellicola per pellicola, sequenza per sequenza, L’aquila nera, Sangue e arena, Il figlio dello sceicco, I quattro cavalieri dell’apocalisse. Le spelonche carsiche diventano brumosa steppa, Versailles muta forma e appare spiaggia dove mangiare seppie crude annaffiate di birra, il vecchio frantoio si trasforma in alcova di piacere e seduzione. Tutto comincia con i tributi che il Dopoguerra scudocrociato dedica a Rudy, a partire dalla statua dell’«iconoclasta in pectore» Luigi Gheno: autore di una scultura orrenda, uno sceicco pop dagli occhi svuotati e assenti. Viene definito come il grande otre che contiene l’olio, il dono più prezioso. Un mostro «ustionato dall’altoforno spietato di Hollywood». Gualtiero Jacopetti ne approfitta e nel 1962 apre Mondo cane con un tango irrefrenabile e le immagini dell’inaugurazione di quest’opera che fanno circolare una galleria di freaks grotteschi e compiaciuti. Impomatati e languidi proprio come Rodolfo, per questo ancor più incredibili.
Numerose le testimonianze che emergono dal sottobosco di Castellaneta. Spicca la lucida, sbalorditiva schiettezza di Maria Rosaria Ranaldi, 97enne benzinaia del paese. Il biker Pasquale dà interpretazione cromata e rombante del mito. Cosimo Fungoso, Presidente dell’Associazione Internazionale Arte e Cultura Rodolfo Valentino, si fa promotore di un’idea folle e visionaria che invitiamo a scoprire nella visione. Completano il quadro un uso sapiente del bianco e nero nelle ricostruzioni labirintiche di Antonio e le suggestive musiche morriconiane di Pippo Foglianese. Una ricognizione brillante e quanto mai attuale su divismo, sogni e desideri, aspirazioni e fallimenti. La contrapposizione tra chi «si erge fallico» e chi esibisce ambiguità ed intelligenza è, nell’anno di (dis)grazia 2011, quanto mai attuale.
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