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domenica 25 novembre 2007

L'orrore della porta accanto. The girl next door


Jack Ketchum (vero nome Dallas Mayr, classe 1946) è uno scrittore molto noto degli Stati Uniti. Amato e osannato da Stephen King, ha esordito nel 1980 con Off Season e da allora ha incamerato una serie impressionante di successi. Un caso letterario che si divide tra horror classico, visioni soprannaturali e racconti rurali dal forte impatto emotivo. Ovvio quindi che Hollywood facesse suo questo piccolo grande talento: prima con le trasposizioni di The Lost (Chris Sivertson, 2005) e Header (Archibald Flancranstin, 2006), poi con quella di The Girl Next Door (Gregory Wilson, 2007).


Scritto da Ketchum nel 1988, The Girl Next Door è una vicenda tratta da una storia vera a dir poco agghiacciante. Nel 1965 le sorelle Meg e Susan Loughlin, abbandonate dai genitori, sono affidate alle cure di Ruth Chandler, madre di quattro figli. La donna è affetta da disturbi psichici e problemi di alcolismo e inizia nei confronti della sedicenne Meg un macabro tour de force fatto di insulti, torture e violenze inaudite, che condurrà fino alla morte della ragazza. Orrori perpetrati non solo dalla donna, anche dai ragazzini che popolano la sua elegante abitazione. Ketchum si ispira a William Golding (Il signore delle mosche) e al suo compare Stephen King (l’atmosfera è quella assolata e spietata di Stand by me). Ma ha la capacità di condurre la storia in modo personale, umano e provocatorio. L’ambientazione provinciale denuncia una fondamentale ipocrisia di fondo: la fotografia di William M. Miller gioca proprio sul contrasto tra esterni luminosi e splendenti (sulla facciata di casa Chandler campeggia una fiera bandiera americana) e il nero livido dello scantinato degli orrori. Giocando di sottrazione invece che accumulando elementi (le sequenze forti sono giusto un paio), il film affonda i colpi quando sottolinea il perbenismo ipocrita della famiglia borghese e denuncia i deliri d’onnipotenza di una creatura/dio che plasma e sottrae la vita (le incisione sulla carne ‘i fuck/fuck me’, le bruciature di sigarette e la fiamma ossidrica che sigilla l’elemento femmineo di Meg).


I bambini sono in realtà veri carnefici perché ancora ‘isolati’ dall’esterno e immuni dalle regole sociali imposte dalle istituzioni. Ciò che prevale nel loro branco è il legame, la complicità, il fare gruppo. Come scorpioni e formiche in The Wild Bunch (Il mucchio selvaggio, 1968), così questi ragazzi giocano nel catturare e torturare. Pesci, serpenti, lombrichi o essere umani che siano. È la natura ferina a venir fuori, ancor più pressante perché stimolata. E il regista Gregory Wilson si dimostra attento nel conservare tutte le sfumature del racconto, facendoci sprofondare pian piano nel dolore e nella sofferenza, aprendo ad un finale solo in apparenza solare. Poiché anche quando si cerca di cancellare un tremendo passato, i ricordi restano. Siano essi un dono o una maledizione.
Sam Peckinpah avrebbe riso e apprezzato.

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