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sabato 28 giugno 2008

Nel paese della bugia, la verità è una malattia. Redacted


«La vera storia della guerra in Iraq è stata redatta dai media commerciali di massa: se siamo disposti a provocare questi disordini, allora dobbiamo anche affrontare le orrende immagini che conseguono da questi atti». Parola di Brian De Palma. Redacted (2007), ossia rielaborato, ossia censurato. È quanto il governo e i mezzi di comunicazione hanno fatto e continuano a fare in Iraq. Una rielaborazione che annulla i fatti e minaccia la nostra libertà. Un colpo allo stomaco questo film di De Palma, sorta di documentario liberamente ispirato ad un episodio realmente accaduto. Lo stupro e assassinio di una ragazza di quindici anni e il massacro della sua famiglia da parte di quattro soldati di stanza a Samarra. A compiere il gesto (negato dalle autorità) sono in due: un commilitone è contrario ma incapace a reagire, l’altro partecipa solo per riprendere con la videocamera quanto accade.


Redacted è un’opera estrema e di frontiera nel senso pieno del termine. De Palma plasma modi, forme e generi diversi: il diario di guerra di un marine, girato in continua soggettiva (e aperto da parole inequivocabili: «non aspettatevi un action movie hollywoodiano, qui siamo nella merda»); un finto documentario francese dai toni lacrimevoli; reportage giornalistici “direttamente” dal fronte; telecamere di sorveglianza; immagini della televisione araba; riprese scarne fatte con semplici cellulari; filmati on line, tra i quali una tremenda esecuzione; video chat tra chi è in prima linea e chi resta a casa; riprese amatoriali per festeggiare il reduce sconvolto dagli accadimenti. Tutto il filmabile è sotto i nostri occhi. Ciò che ci rimane è perciò il vuoto, una bolla disumana che diviene la nostra contemporaneità. Dov’è dunque la realtà? Nelle parole degli alti gradi dell’esercito? Nella cruda narrazione dei più quotati network? Nei racconti e nei gesti di un paio di redneck esaltati, plagiati dalla paura scatenata da chi li ha mandati a combattere? «La prima vittima di questa guerra sarà la verità», dice nelle sequenze iniziali il caporale McCoy. Come dargli torto...


È divenuto impossibile raccontare storie? De Palma risponde confondendo la nostra percezione di spettatori/cittadini. Lo aveva fatto sullo stesso tema parlando del Vietnam con Vittime di guerra (Casualties of War, 1989), aveva ribadito il concerto con Femme Fatale (2002) e The Black Dahlia (2006). Redacted va oltre, perché «la telecamera mente sempre» e il rapporto tra realtà (oscurata) e finzione (esibita) si fa stretto e inestricabile. Qual è il confine tra mostrabile e non mostrabile? Ci sono cose che vanno viste? E chi guarda partecipa lo stesso? Domande inquietanti, che squarciano un velo su un mondo che misura il suo disordine con l’accavallarsi frenetico di immagini. Il finale con i ‘danni collaterali’ e le foto (vere? false?) delle vittime commentate dall’E lucean le stelle pucciniano, è quanto di più tremendo abbiamo visto su uno schermo negli ultimi anni.

giovedì 19 giugno 2008

Cenere alla cenere, polvere alla polvere. E venne il giorno


The Happening (E venne il giorno, 2008) è la chiusura del cerchio per M. Night Shyamalan. La conclusione di una parabola che lascia alle proprie spalle una scia di sangue. L’assenza di comunicazione ci ha portato al dialogo con l’aldilà e chi lo popola (The Sixth Sense, Il sesto senso, 1999). Il Bene dell’Altro ha finito per oscurare il nostro Male interiore, in un’esplosione di colori e gusti pop (Unbreakable, 2000). La fede è stata messa a dura prova, una invasione aliena ha forse potuto scalfirla (Signs, 2002). La paura ha vinto sulla fiducia, facendoci chiudere in una riserva distanti in tutto e per tutto dall’Altro, qualsiasi forma esso assuma (The Village, 2004). Neanche il potere della fiaba e dell’affabulazione in un impeto di ingenuo candore può salvarci (Lady in the Water, 2006).


The Happening sintetizza un intero universo e pone la parola fine su questo mondo. L’umanità è alla deriva. New York, poi Philadelphia e Boston sono i primi luoghi in cui si scatena l’ira della Natura. Nei parchi, nelle aree urbane, fin nei piccoli centri. Una tossina emessa da non si sa bene cosa (le piante, gli alberi, il vento?) induce le persone ad un blocco mentale, preludio ad una sorta di autodistruzione. Il governo è assente e non sa rispondere, i media marciano sulla paura e sparano i soliti colpi idioti: sono i terroristi. No, è inquinamento nucleare. Anzi no, sono scorie radioattive. Per poi rassegnarsi all’ineluttabilità dei fatti. L’uomo è una bestia, ospite indesiderato di questo pianeta. Che si prende la rivincita, con tutti gli interessi.


E venne il giorno è l’insondabile cinematografico, gli spazi immensi degli States dei pionieri di John Ford e l’inspiegabile senza via di scampo di Alfred Hitchcock. Con un tocco di ironia grottesca che non guasta mai. La comunità non è chiusa, ha necessità di aprirsi, di restare isolata per sopravvivere. Si getta in un vuoto che è già dentro i singoli individui (capaci di abbandonare i propri concittadini a gambe levate, di prendere a fucilate chi crede infetto o di litigare per il semplice possesso del potere di gruppo). La wilderness americana è scomparsa sotto i colpi dell’egoismo e dell’ignoranza. Nonostante la splendida fotografia di Tak Fujimoto induca a pensare il contrario. Quando pare che sia ancora nella famiglia l’ultimo appiglio di salvezza, il mondo crolla definitivamente a pezzi.


Shymalan soffre gli stessi difetti di sempre: sceneggiatura zoppicante, dialoghi semplici e scontati, meccanismi di genere che sanno di già visto. Ma diciamola tutta, oggi a Hollywood chi ha il coraggio di girare un film come questo? Un’opera che mischia dramma e fantascienza e sferra un’accusa così forte all’universo che l’ha prodotta. Ci vuole coraggio. E intelligenza. Due doti che al regista di origini indiane non sono mai mancate.

giovedì 5 giugno 2008

Chi ama non dimentica. Maradona by Kusturica


Solo un autore come Emir Kusturica poteva realizzare un film su Diego Armando Maradona. Maradona, il miglior giocatore di tutti i tempi. La classe congelata nel sinistro (e nella mano) di Dio. Il Signore del Pallone, l’incarnazione del Verbo calcistico. Emir ci ha messo tre anni per realizzare questo documentario, passando da immagini di repertorio al folklore naïf argentino (peccato ce ne sia poco di quello napoletano, unico nel globo), da momenti in famiglia a crisi personali. Dalla nascita del Mito all’impegno politico e sociale, passando per la droga, la riabilitazione, i demoni interiori che sconvolgono la vita di un campione. Ascesa e declino, proprio come in un film. I gol magici si susseguono come la visione critica di un universo capace di cambiare soltanto stando dalla parte giusta. A sinistra del potere. Quel ruolo imparato sui libri di Che Guevara, a colloquio con Fidel Castro, su un palco con Evo Morales e Hugo Chávez. Una posizione conquistata con i due gol all’Inghilterra nei quarti di finale del mondiale ’86 in Messico, siglando il gol del secolo. Maradona è così, un uomo confuso e sincero, spontaneo e perso, la cui identità rimane ignota anche dopo novanta minuti in sala.


Restano i suoi gol, la sua fantasia, le emozioni dispensate con le maglie dell’Argentinos Juniors, del Boca, del Barcellona, del Napoli e della nazionale. Sempre a Sud del mondo. Un senso totale di devozione, suggellato dalla Chiesa Maradoniana che accoglie i fedeli con la maglia numero 10 ed un rito che rievoca quella mano che spinge il pallone alle spalle di Shilton. Kusturica partecipa divertito, mescola fino all’eccesso tutti i materiali che ha a disposizione (giungendo addirittura a delle parti animate stile Monty Python con God Save the Queen versione Sex Pistols in sottofondo), scopre quanto siano vicini l’Est dell’Europa e il Sud dell’America, ne diventa complice, amico, familiare. Immagina El Pibe de Oro come protagonista dei suoi stessi film (oltre che ideale attore prediletto di Sergio Leone e Sam Peckinpah), nella Sarajevo in procinto di cambiare di Ti ricordi di Dolly Bell? (Sjecas li se, Dolly Bell, 1981), nei toni surreali tra vita e morte (l’intreccio di Thanatos e Eros ricreato dal tango assume una valenza essenziale) di Gatto nero, gatto bianco (Crna macka, beli macor, 1998), nei ricordi d’infanzia e nella nobiltà ereditaria dei poveri in Papà … è in viaggio d’affari (Otac na sluzbenom putu, 1985). È così che Maradona by Kusturica diventa anche una ricognizione sul regista serbo, pienamente assorbito dalla materia trattata, quasi divorato dall’ossessione per il proprio lavoro, la propria arte e le proprie passioni.


Solo un autore come Emir Kusturica poteva realizzare un film su Diego Armando Maradona. Girando anche un film su se stesso. Perché il cinema è come il calcio e Diego Armando è come il Jake LaMotta di Robert De Niro in Raging Bull (Toro scatenato, 1980). L’unica differenza è che lui usa i piedi invece dei pugni. In fondo si tratta di un attore, un attore sopraffino che interpreta un solo ruolo, quello di Maradona: «Ho due sogni: il primo è di giocare la Coppa del Mondo, il secondo è di vincerla».