find the path

martedì 18 dicembre 2007

Zitti, si va in scena. Il grande silenzio


Può sembrare un pazzo Philip Gröning. O una idea pazza quella avuta per Il grande silenzio (Die große Stille, 2005). E invece il suo documentario è affascinante ed estremo. Perché riprendere la vita di una piccola comunità di monaci che vivono riti e ritualità lontani dal mondo odierno è una scelta coraggiosa e controcorrente. La lunghezza (164 minuti, quasi tre ore) è tanto dilatata quanto 'rapida', così distante dai canoni (narrativi, stilistici, emotivi) del cinema/industria, del cinema d’autore, del documentario stesso. È un modo per riscoprire se stessi, per staccare la spina, riflettere e stare calmi, senza fretta o ansie varie.


Dopo le tematiche sociali affrontate a cavallo tra realismo e fiction in Sommer (1988), Die Terroristen! (1992) e L’amour, l’argent, l'amour (2000), Gröning segue con occhio attento, partecipe e avvolgente i vari momenti che scandiscono l’esistenza nel monastero di La Grande Chartreuse, sulle montagne di Grenoble. Il taglio e la cucitura degli abiti nuovi. La rasatura dei capelli. La preparazione e il consumo dei pasti. La semina degli ortaggi. Le rare uscite da soli o in gruppo. Le preghiere e gli inni intonati, le lunghe, solitarie meditazioni. Nessuna musica, nessun dialogo, nessuna luce artificiale, solo ambiente. Cinema come contemplazione, mistero, armonia. Per recuperare quello smarrimento, quella perdita del Sacro che sporca la nostra visione. Fede, rinuncia, contatto vero con la Natura, umana e divina. Una riflessione sulla sacralità della vita, sul rigore e l’elasticità spazio temporale.

Ritualità che formano un ciclo, una ripetizione circolare di piccoli ma immensi, significativi gesti che si alternano come il passare delle stagioni. Tutto ciò che rimane cos’è rispetto a questa Forma Eterna? Quell’aereo che vola alto nel cielo è quanto di più lontano cui si possa pensare in un luogo del genere. Un posto dove dimora il grande silenzio, la voce di Dio (o chi per lui…).

venerdì 14 dicembre 2007

Welcome to Paranoid Park


Alex è un ragazzo come tanti altri. Ama uscire con gli amici, frequentare senza molto impegno la ragazza, andare a fare skate nei posti adatti di Portland. Il divorzio dei suoi genitori non ha lasciato in lui grandi strascichi, se non la preoccupazione per il fratellino. Un personaggio incredibile per la foga, la paranoia e l’ansia con cui vive la separazione di mamma e papà. La vita scorre liscia insomma, le inquietudini sono quelle proprie dell’età, l’adolescenza. Se non fosse per una notte che si rivela fatale. Alex ha scoperto con Jared il Paranoid Park, luogo di ritrovo di skaters, drop out, disperati, umanità varia e multiforme. Non si sentiva pronto per andarci e invece è il punto ideale per se stesso, le riflessioni e l’umore che sta vivendo. Una notte, in compagnia di un ragazzo più grande, l’esperienza del salto sul treno merci si rivela drammatica: accidentalmente uccide una poliziotto privato. La sua vita si tinge di dubbi, rimorsi, buio.


Paranoid Park (2007) è tra i film di Gus Van Sant più belli, oscuri e sperimentali. Gli attori sono non professionisti e proprio per questo bravissimi. Il mondo dipinto è quello giovanile, così come fatto nella trilogia composta da Gerry (2002), Elephant (2003) e Last Days (2005). Il contorno tremendo: una ragazzina che si vuole impegnare per apparire, appena fa sesso per la prima volta lo comunica via cellulare ad una amica. Padre e madre sono figure sfuggevoli, del primo si intravedono i tatuaggi e la giovane età, della seconda le ansie del dovere in una fisionomia evanescente, sempre fuori fuoco. Del fratellino restano le chiacchiere insensate, dei compagni di scuola lo skate e le riflessioni su uscite e scopate mancate. Resta Macy, amica spesso insistente che capisce ciò che non viene detto e sarà l’artefice di un rito psicomagico (per dirla con Alejandro Jodorowsky...), una purificazione che è anche passaggio ad una nuova fase di vita.


Per tratteggiare un universo così tranquillo eppure orrendo, Van Sant mischia le carte in tavola. Gira in costante slow motion, un ralenti struggente e mai consolatorio. Sceglie una colonna sonora che passa dal punk/hardcore all’opera attraversando le arie di Nino Rota e l’intimismo di Elliott Murphy. Usa pellicola e digitale, è lucido nella fase cruda dell’evento, sgrana la visione quando il nostro occhio si confonde con quello dei protagonisti. Tutti bravi ragazzi, che portano dentro una brutalità, una potenza mortifera tremenda. Una rabbia che cova dentro, inadeguatezza, mancanza di senso. Alex sotto la doccia e la sua camminata da figura grigia in un parco luminoso sono due sequenze da mandare a memoria. Paranoid Park è un film di giovani che parla ai giovani ed è destinato ai grandi.

SOS al pianeta terra. Nella valle di Elah


La valle di Elah è il luogo in cui si è consumato lo scontro biblico tra David e Golia. Ingegno e forza. Tradotto nel gretto materialismo di oggi, democrazia e leggi tribali. Chi ha detto che la prima debba trionfare necessariamente sulle seconde? Ed è proprio tale se si afferma con modi e metodi brutali? Mai come in questo caso, il nuovo film di Paul Haggis (seconda regia dopo il premio Oscar Crash, 2004) si trova a riflettere sulle dinamiche personali e collettive di un paese, di una intera realtà. Se nel suo esordio il tema centrale era la paura post 9/11 (o più in generale il senso atavico di chiusura e diffidenza proprio di una intera popolazione), stavolta è la Storia che si dispiega alle esigenze dei singoli, è il nostro vissuto a tramutarsi in evento.


Hank Deerfield (Tommy Lee Jones, interpretazione straordinaria) è una persona rigida, ferma nelle proprie convinzioni. È certo che le guerre preventive siano giuste, che esportare benessere anche se finto sia necessario, che la sua nazione sia portatrice sana di giustizia. D’altronde faceva parte della polizia militare e ora che è in pensione inculca negli altri questo credo. In primis nei suoi figli, il maggiore morto durante una esercitazione aerea, il minore in Iraq a combattere contro un regime infame. Purtroppo Mike dovrebbe essere già rientrato dalla missione e invece è scomparso. Partono così le ricerche (coadiuvate da una bellissima Charlize Theron, giovane madre poliziotto vittima di discriminazioni sessuali che sfociano in mobbing), che condurranno ad una tremenda verità.


Paul Haggis dirige in maniera lineare, fin troppo. A volte tutto è esposto, mostrato, svelato. Qualche ‘non detto’ in più avrebbe giovato. Detto ciò, Nella valle di Elah (In the Valley of Elah, 2007) è un film necessario. Umano e toccante. Che compie una riflessione puntuale sull’oggi (interessante il film nel film che i soldati riprendono con i loro cellulari) e fa evolvere i personaggi seguendoli nel loro terribile percorso. Umano e toccante perché ci illustra un mondo spietato, che copre e occulta invece di chiarire. Manda al massacro invece di guarire e sanare le ferite. Tagli e lacerazioni che sono quelli di un padre in cerca di verità e d’aiuto, di una madre che deve rassegnarsi di nuovo al vuoto, alla perdita (piccola e al tempo stesso titanica la parte di Susan Sarandon). Di tanti ragazzi che vivono una scelta come una fuga. Fuga dal dovere per imporre istinto e forza. Proprio come David e Golia che in quella valle si sono massacrati senza pensare a chi li aveva mandati a combattere. Per cosa poi?

domenica 9 dicembre 2007

"Nuovo cinema italiano". Romanzo Criminale

Dietro quel palazzo da ragazzini rubammo una macchina. Eravamo Libano, Dandi, io e il Grana. E il povero Andreino, che ci lasciò quella notte stessa. […] Forse quella morte era un segnale per farci capire che dovevamo stare buoni per non fare la stessa fine. Invece noi abbiamo pensato che era meglio fare quella fine, piuttosto che andare a timbrare un cartellino per tutta la vita.
Il Freddo (Kim Rossi Stuart), uno dei protagonisti di Romanzo Criminale (Michele Placido, 2005), descrive così il perché ultimo della più sanguinosa gang della storia della Repubblica Italiana: la banda della Magliana.
A metà degli anni ’70 grazie ai soldi del sequestro Rosellini, il Libanese (Pierfrancesco Favini), il Dandi (Claudio Santamaria) e il Freddo danno vita ad una vera e propria organizzazione criminale. Con la protezione, poi, della massoneria, della mafia e dei politici, la banda riesce ad allungare i suoi tentacoli su ogni traffico illegale della capitale. Il loro unico ostacolo è l’ispettore Scialoja (Stefano Accorsi).

L’ex commissario Cattaneo, memore dei polizieschi italiani anni settanta, realizza un film in linea di massima riuscito. Solo in linea di massima, però. In realtà, la pellicola non arriva a volare molto oltre la succulenta materia prima fornita dalla storia. Colpa della regia, a tratti pretenziosa e contemporaneamente insicura, poggiata poi su di una sceneggiatura un po’confusionaria stesa da Stefano Rulli, Sandro Petraglia e Giancarlo De Cataldo (autore dell’omonimo libro da cui è tratto il film).


Bravi sono indubbiamente gli attori (Accorsi a parte!). E inappuntabile è la fotografia. Luca Bigazzi rende in modo magistrale attraverso le tonalità scure, trapassate dal fumo di infinite sigarette, l’atmosfera claustrofobica che aleggia sui protagonisti: giovani prigionieri di una vita bloccata, impossibilitata a qualsivoglia espressione luminosa. La luce arriverà, ma solo alla fine e con l’unica liberazione possibile

sabato 1 dicembre 2007

The Mean Machine. Quella sporca ultima meta


Robert Aldrich è un mito. È stato uno di quei registi americani ad imporre uno stile ed un modo di raccontare precisi, a modificare gli stilemi di genere (di tutti i generi), a giocare con essi fino a consumarli, distruggerli, farli rinascere. Un regista spesso dimenticato o sottovalutato. Da tenere in realtà sempre a mente, specie quando si parla di grandi storie e di grandi eroi. Insieme a pochi altri del suo tempo (Don Siegel, Sam Peckinpah, Samuel Fuller), ci andava giù duro con ogni sorta di racconto: western (Vera Cruz, 1954, e il tardivo Ulzana's Raid, Nessuna pietà per Ulzana, 1972, sono memorabili, non meno dell’ironico The Frisco Kid, Scusi, dov'è il West?, 1979), noir (What Ever Happened to Baby Jane?, Che fine ha fatto Baby Jane?, 1962, è un cult assoluto, così come Kiss Me Deadly, Un bacio e una pistola, 1955, da Mickey Spillane), war movie (Attack!, Prima linea, 1956, The Dirty Dozen, Quella sporca dozzina, 1967, e Too Late the Hero, Non è più tempo d'eroi, 1969, hanno ridefinito le coordinate del film bellico), avventurosi (Flight of the Phoenix, Il volo della fenice, 1965, e Emperor of the North Pole, L'imperatore del Nord, 1973, sono meravigliosi). Fino all’epica sportiva di The Longest Yard (Quella sporca ultima meta, 1974).


Paul Crewe (Burt Reynolds) è un ex campione di football. Finisce in penitenziario per aver fregato l’auto alla sua donna, seminato a velocità folle la polizia che l’inseguiva, essersi sbronzato in un bar e aver tirato un calcio nelle palle ad uno sbirro nanerottolo. In galera la vita è dura, anche se sei una superstar. Non la pensa così il direttore del carcere, che gli propone di creare una squadra di detenuti che dovrà perdere contro la squadra semi professionistica dei secondini. L’orgoglio e la dignità però sono armi da non sottovalutare…
Quella sporca ultima meta è la versione ironica e libertaria di The Dirty Dozen. È il lato anarchico e menefreghista di Fuga per la vittoria (Escape to Victory, John Huston, 1981). È l’ennesima dimostrazione di forza di un pugno di diseredati, di drop out, di perdenti. Feccia, carcerati ladri e assassini, loser: è da loro, nel confronto con un potere ipocrita e laido (il direttore del carcere Hazen e l’odioso capo dei secondini Knauer), che parte la rinascita. Perché in situazioni estreme il meglio e il peggio vengono fuori con cuore.


Aldrich dirige con una pulizia impressionante: dimora qui il grande cinema americano. Burt Reynolds è assolutamente inespressivo ma poco importa. La sequenza iniziale con la sua fuga in auto (sulle note di Saturday Night Special dei Lynyrd Skynyrd), dopo aver preso a schiaffi la sua amante, è da antologia. Così come il duro lavoro nelle paludi della Georgia, l’esaltante fase preparatoria degli allenamenti e la partita conclusiva. Ritmo e tempi cinematografici allo stato puro. Quella sporca ultima meta, il punto decisivo, è ripresa con un commovente ralenti. Figlio diretto dei precedenti split-screen e padre dei successivi fermo immagine. Sette secondi sublimati in magia, congelati, esaltati nella stima di se stessi. Sette secondi più lunghi di un’eternità.

giovedì 29 novembre 2007

Sepolti nelle Vite degli Altri


Chi sono i buoni e chi i cattivi quando si tratta delle “Vite degli Altri”? Quando, cioè, sebbene siamo noi ad essere in gioco, non ci sentiamo, ugualmente, chiamati in causa. Chi sono i buoni e chi i cattivi se la realtà ha cominciato a sfuggirci di mano e se non riusciamo quasi più a sentire una via completamente personale fatta di soggettivi sentimenti vissuti, provati, saggiati?
Le Vite degli Altri
(Das Leben der Anderen), film di Florian Henckel von Donnersmarck, (2006), trova a queste domande delle risposte alquanto valide: non ci sono più né buoni né cattivi perché in fin dei conti, è come se la vita concernesse sempre gli Altri.
Non ci sono né buoni né cattivi perché siamo immersi in un costante stato di neutralità e ci avviamo dondolanti, verso una condizione di sepolti vivi in porzioni singole di schizofrenia.
Non ci sono né buoni né cattivi ma solo Alieni.


Il denaro come generatore di tutti i valori, sembra essere la causa di codesto status quo. Ma fermiamoci qui, non è questa la sede per effettuare ulteriori dissertazioni di tal tipo. Questa, in Realtà, non è altro che una recensione cinematografica! Le Vite degli Altri, dicevamo.
Il film, ambientato nella DDR verso la metà degli anni ottanta, narra la storia di un ufficiale della polizia segreta senza alcuna vita personale, messo a spiare uno scrittore ritenuto pericoloso per il regime.


Il cattivo comandante Gerd Wiesler - uno straordinario Ulrich Mühe - partecipando segretamente alla vita dell’artista cambierà radicalmente il proprio punto di vista su cosa sia giusto e cosa non lo sia.
La pellicola oltre che avventurarsi in una storia affascinante quanto simbolica, è realizzata con una meravigliosa maestria tecnica. Una fulminante chiarezza caratterizza inoltre le inquadrature incastonate in una fotografia limpida anche quando si abbandona alle sinuose sfumature di blu.

Occidente decadente. Verso il sud


Haiti è uno dei paesi più poveri delle Americhe. Dominio spagnolo, colonialismo francese, nel 1915 arriva anche l’occupazione statunitense. Dittature militari prima della definitiva indipendenza. Costata sangue e miseria. Una delle poche risorse è il turismo. Di natura spesso sessuale. È intorno a questo tema che gira Vers le sud (Verso il sud, 2005) di Laurent Cantet. Basandosi sul racconto La chair du maître di Dany Laferrière, il regista francese tocca l’ennesimo nervo scoperto della nostra ricca, miserabile società. Dopo il dramma famigliare di Risorse umane (Ressources humaines, 1999) e il realismo di A tempo pieno (L’emploi du temps, 2001), entrambi incentrati sul tema del lavoro, Verso il sud fotografa in maniera spietata un Occidente in piena decadenza.


A Port-au-Prince c’è un bellissimo albergo che affaccia su una splendida spiaggia. Tre donne ormai sopra i 50 anni scappano dalle loro tristi vite e si rifugiano in questo universo inesplorato, fonte di rinnovato piacere. È un ragazzino ad allietare la loro permanenza, Legba. Corpo sinuoso, sguardo triste eppure fiero. Saranno le contraddizioni del luogo a portare ad una fine della storia tragica. In realtà l’assunto del film è tanto semplice quanto terrificante: abbiamo perso la bellezza, è qualcosa che ormai non ci appartiene. Per avere l’illusione di possederla possiamo solo comprarla. Inquinarla con la forza dei soldi. Le confessioni di tre donne alla deriva ne sono la riprova. Brenda (Karen Young) a 45 anni ha ottenuto il suo primo vero orgasmo, con impulsiva violenza. Ellen (Charlotte Rampling), borghese cinquantacinquenne, odia le altre donne e il suo mondo, ha paura d’amare, salvo tramutare in putrido orrore la sua fuga, in volgare marciume. Sue (Louise Portal) ha solo bisogno di contatti, quelli che normalmente non riesce ad intrattenere. Vive le sue vacanze come liberazione, diversità di costumi. Un arrogante folklorismo.


Le tre attrici sono bravissime e la regia di Cantet non si lascia sfuggire niente. Piuttosto che nel dispiegare il confronto tra nord/sud, povertà/ricchezza (in verità un po' tirato via, senza grande stile), si rivela attenta nel cogliere le varie sfumature di questi intricati rapporti umani: volti, sentimenti, corpi, paesaggi, mancanze. Il corpo perfetto di Legba è ciò che non siamo più, ciò che non possiamo più essere. È un grido disperato perso in un vuoto.

Le maschere buone si confondono con le maschere cattive. Ma tutti hanno le maschere…

martedì 27 novembre 2007

Voglio la testa di Lucio. Un gatto nel cervello


Con le dovute proporzioni, Un gatto nel cervello (1990, conosciuto negli Usa come Nightmare Concert) sta a Lucio Fulci come Bring me the Head of Alfredo Garcia (1974) sta a Sam Peckinpah. Fulci è stato un uragano, “il terrorista dei generi” come l’hanno definito nella loro monografia Paolo Albiero e Giacomo Cacciatore. Ha affrontato di tutto: il comico (le sue regie per i film di Franco e Ciccio sono state le migliori), gli spaghetti western (Le colt cantarono la morte e fu... tempo di massacro (1969) e I quattro dell’apocalisse (1975) sono ironici e psichedelici, pellicole violente e dalla forma estrema, che in pochi hanno riabilitato), la commedia sexy (erano i tempi di Lando Buzzanca, che lui rendeva scorretto per politica e società), l’avventuroso (i due capitoli di Zanna Bianca sono entrati nella memoria collettiva di un paio di generazioni). È però nell’horror thriller che Fulci ha dato il meglio di sé. La sua poetica lucida, brutale, colta, visivamente sconvolgente ha tritato e squarciato archetipi, cliché e miti dell’orrore. Una sensibilità scossa da ossessioni e voglia costante di sperimentare nuove formule, andare sempre oltre.
Dalle realizzazioni pregiate che hanno influenzato tanti più celebrati ‘autori’ (Una lucertola con la pelle di donna, 1971; Non si sevizia un paperino, 1973; Sette note in nero, 1977; Paura nella città dei morti viventi, 1980; I guerrieri dell'anno 2072, 1984; i capolavori L'aldilà - E tu vivrai nel terrore!, 1981, e Lo squartatore di New York, 1982) ai b-movies della deriva televisiva, fatti con idee, pretese incredibili, assoluto vigore e scarsissimi mezzi (Manhattan Baby, 1982; Murderock - Uccide a passo di danza, 1983; Aenigma, 1986; Quando Alice ruppe lo specchio, 1988).


Un gatto nel cervello è il terzultimo film del regista romano, ed è tanto pedestre quanto significativo (soprattutto perché precede il colpo di coda dei sottovalutati Voci dal profondo, 1990, e Le porte del silenzio, 1991). Protagonista è Lucio Fulci, il regista. Sta girando il suo ultimo film ma è ossessionato dalle immagini truculente che egli stesso elabora (per la cronaca, estrapolate da filmacci del suo periodo di declino, in particolare Quando Alice ruppe lo specchio). Si rivolge così ad uno psichiatra vicino di casa, che in realtà si rivela un pericoloso e disturbato serial killer. Complice una profonda ipnosi, commette delitti che non passeranno per suoi. Un transfert dannatamente mortale. Fino alla risoluzione conclusiva del fattaccio.


Se si lasciano da parte vicenda e realizzazione, effetti, recitazione e corpi massacrati (assurdi è quanto meglio li si può definire), il film è una ironica, personale e pungente riflessione metacinematografica. Fulci sembra dire a pubblico, produttori e critica: bene, dopo avermi sfruttato per anni, quando i miei generi erano in voga e riempivo le sale, ora mi avete abbandonato. Allora vi faccio vedere io. Per le riprese vado ancora a Cinecittà con un budget ridicolo. Giro in 16mm, ci do dentro di sangue e budella e mi prendo la mia personale rivincita. Dicendo un paio di scomode verità (dov'è la realtà? nell'allucinazione e nella televisione?) e continuando a sperimentare forme estreme. Tanto, come afferma in maniera beffarda tramite lo psichiatra/serial killer (il cui nome è tutto un programma: Egon Schwarz), la violenza che pervade gesti e comportamenti odierni è conseguenza della violenza dei film, di quanto il dottor Fulci ha fatto per anni. Capito dove si vuole arrivare? L’ultima soluzione è la fuga, su una barca chiamata Perversion. Riprendendo il parallelo iniziale, Lucio chiude i conti del suo cinema come Sam aveva fatto tramite il personaggio di Mike Locken/James Caan in The Killer Elite (1975).

lunedì 26 novembre 2007

Cactus Flower


La più bella del reame e la commedia americana negli anni della grande rivoluzione dei costumi. Il film è Cactus Flower di Gene Sack, 1969. I protagonisti sono Ingrid Bergman, Walter Matthau, Blondie Hawn e Rick Lenz. Due generazioni a confronto, una coppia di quarantenni promiscuamente confusa da due ventenni.
Lo stimato odontoiatra, Julian Wiston (Matthau), molto rinomato anche come Don Giovanni, per non sposare la giovane Tony Simmons (Blondie Hawn) le dice di esser già coniugato con prole. La ragazza innamorata accetta la situazione ma quando Julian mancherà all’ennessimo appuntamento, lei tenterà di togliersi la vita con il gas. Grazie al tentativo di suicidio farà la conoscenza del coetaneo vicino di casa, Igor Sullivan (Rick Lenz), intervenuto a salvarla dopo aver sentito la puzza di gas. Uno scrittore esordiente, quest’ultimo, che non avendo venduto mai niente, si fa mantenere da suo padre: “Non tutti hanno la fortuna di nascere poveri” - afferma il ragazzo.


Julian commosso dal gesto di Tony, le promette di divorziare e sposarla. Chiederà, quindi, alla sua storica infermiera, Stephanie Dickson (Ingrid Bergman), di interpretare il ruolo della moglie.
Il film riesce ad essere leggero e piacevole senza scadere nella banalità, uno spaccato del periodo che gioca sullo scambio di ruoli tra “vecchi” e Giovani. Adulti e ragazzi che in netta opposizione in quella realtà di fine anni sessanta, nel film si mescolano, invece, tra loro lanciandosi in improbabili duetti amorosi e scambi di coppia. Si tratta di una bella commedia sentimentale che, forte dell’abile sceneggiatura di I. A. L. Diamond, non si tira indietro davanti alla possibilità di sfociare nella parodia basata sull’equivoco.


Una pellicola supportata inoltre dalla meravigliosa interpretazione dei protagonisti. Il collaudato e sempre divertente Matthau duetta felicemente con la sorprendente Bergman. La quale a sua volta dimostra di essere attrice sublime anche in un ruolo comico. Dulcis in fundo la bellissima Blondie Hawn capace, con le sue fantastiche smorfiette del viso, di creare un personaggio leggero, intelligente e soprattutto in grado di non soccombere soffocata dal carisma della Bergman, la diva che, ricordiamo, aveva spodestato Greta Garbo.

domenica 25 novembre 2007

L'orrore della porta accanto. The girl next door


Jack Ketchum (vero nome Dallas Mayr, classe 1946) è uno scrittore molto noto degli Stati Uniti. Amato e osannato da Stephen King, ha esordito nel 1980 con Off Season e da allora ha incamerato una serie impressionante di successi. Un caso letterario che si divide tra horror classico, visioni soprannaturali e racconti rurali dal forte impatto emotivo. Ovvio quindi che Hollywood facesse suo questo piccolo grande talento: prima con le trasposizioni di The Lost (Chris Sivertson, 2005) e Header (Archibald Flancranstin, 2006), poi con quella di The Girl Next Door (Gregory Wilson, 2007).


Scritto da Ketchum nel 1988, The Girl Next Door è una vicenda tratta da una storia vera a dir poco agghiacciante. Nel 1965 le sorelle Meg e Susan Loughlin, abbandonate dai genitori, sono affidate alle cure di Ruth Chandler, madre di quattro figli. La donna è affetta da disturbi psichici e problemi di alcolismo e inizia nei confronti della sedicenne Meg un macabro tour de force fatto di insulti, torture e violenze inaudite, che condurrà fino alla morte della ragazza. Orrori perpetrati non solo dalla donna, anche dai ragazzini che popolano la sua elegante abitazione. Ketchum si ispira a William Golding (Il signore delle mosche) e al suo compare Stephen King (l’atmosfera è quella assolata e spietata di Stand by me). Ma ha la capacità di condurre la storia in modo personale, umano e provocatorio. L’ambientazione provinciale denuncia una fondamentale ipocrisia di fondo: la fotografia di William M. Miller gioca proprio sul contrasto tra esterni luminosi e splendenti (sulla facciata di casa Chandler campeggia una fiera bandiera americana) e il nero livido dello scantinato degli orrori. Giocando di sottrazione invece che accumulando elementi (le sequenze forti sono giusto un paio), il film affonda i colpi quando sottolinea il perbenismo ipocrita della famiglia borghese e denuncia i deliri d’onnipotenza di una creatura/dio che plasma e sottrae la vita (le incisione sulla carne ‘i fuck/fuck me’, le bruciature di sigarette e la fiamma ossidrica che sigilla l’elemento femmineo di Meg).


I bambini sono in realtà veri carnefici perché ancora ‘isolati’ dall’esterno e immuni dalle regole sociali imposte dalle istituzioni. Ciò che prevale nel loro branco è il legame, la complicità, il fare gruppo. Come scorpioni e formiche in The Wild Bunch (Il mucchio selvaggio, 1968), così questi ragazzi giocano nel catturare e torturare. Pesci, serpenti, lombrichi o essere umani che siano. È la natura ferina a venir fuori, ancor più pressante perché stimolata. E il regista Gregory Wilson si dimostra attento nel conservare tutte le sfumature del racconto, facendoci sprofondare pian piano nel dolore e nella sofferenza, aprendo ad un finale solo in apparenza solare. Poiché anche quando si cerca di cancellare un tremendo passato, i ricordi restano. Siano essi un dono o una maledizione.
Sam Peckinpah avrebbe riso e apprezzato.

venerdì 23 novembre 2007

'Cca nun ce sta nisciuna!'. Luna rossa


Regista complesso Antonio Capuano. Quando si parla(va) di una sorta di Nouvelle Vague napoletana (o meglio, vesuviana) inevitabile è/era un sorriso. Il percorso dei vari, tanti autori partenopei da fine anni ‘80/inizio ‘90 ad oggi è così sfaccettato che risulta ridicolo inscriverlo in un unico ‘movimento’. Capuano compie il primo passo nel 1991 con Vito e gli altri, ottiene il meritato successo di critica con Pianese Nunzio: 14 anni a maggio (1996), prosegue il suo personale percorso di ricerca con Polvere di Napoli (1998). Prima dei successi ottenuti grazie al toccante, intenso La guerra di Mario (2005), nel 2001 realizza Luna rossa. Progetto complesso, coniugare l’Orestiade di Eschilo con il ‘mafia movie’ non tanto americano (anche se un pensiero spesso corre a Fratelli (The Funeral, 1996) di Abel Ferrara) quanto schiettamente campano.


Talvolta qualche particolare sfugge, la lunghezza della pellicola rischia di stancare, la voglia di accumulare e spiegare troppo fa perdere intensità. Perché siamo al cospetto di un film fatto di personaggi (cast a cinque stelle, in particolare Toni Servillo, Carlo Cecchi, Licia Maglietta e Antonino Iuorio) e soprattutto di dialoghi, dall’impianto teatrale e al tempo stesso dalla potente forza cinematografica. Le vicende della famiglia Cammarano durano per decenni, il loro controllo su Napoli (e non solo) è fatto di omicidi, intrighi politici, accorgimenti economico finanziari, faide infinite. Ma ancora più temibile è l’implosione, il dissolvimento interno che questo nucleo vive, cui è destinato. “Il cielo tutto rosso e gli amici della famiglia che si affogano nel sangue”. Così si esprime il vecchio boss Tony. Nuvole che inviano segnali, visioni mistiche e violenza esposta e sottopelle, incesti e istinti intrattenibili, lacerazioni fisiche (quelle che si infligge il giovane Oreste) e psicologiche (i tormenti di Amerigo, le paure di Libero).


Quanto costa il potere? È nella famiglia che si fonda davvero la nostra società? O questa congregazione di mostri si regge in piedi solo sulle viscere e sulle esplosioni? “Queste morti sono il vero cemento della famiglia”, esclama ancora Tony dopo l’ennesima sparatoria. Quando lo specchio si rompe è ora di scappare, lo capisce Oreste. La sua fuga dura anni, il ritorno è solo per una mattanza che ormai non ha più senso. Luna rossa è bello e tremendo proprio per questo, ci inchioda allo schermo, ci apre il cuore, ci opprime con uno stile lucido e teso. Parla di tradimento, di vendetta, di fughe. Con una crudezza davvero rara.

Quando il sangue gira su se stesso diventa debole, si infetta, deve finire.

mercoledì 21 novembre 2007

Auguri Alfredo


Un’esplosione di vetri infranti, di acqua e bambini che giocano con un cappio. Una violenza estrema ed essenziale alla catarsi. Un proiettile che buca il corpo facendolo aprire in un fiore che sboccia rosso. Le risate totali che si librano riempiendo lo spazio. La fragilità potente di un loser che, alla fine, film dopo film, non fa altro che continuare a vivere anche dopo la morte. Poiché il loser è un perdente esclusivamente in relazione alle regole socio-politico-economiche vigenti, ma è l’unico che conosce la via alla Vita, nonostante, paradossalmente non sia capace di conservare la sua esistenza nel contesto in cui è inserito. Si tratta di outlaw che lottano con disperazione per la loro sopravvivenza e che in qualche modo, anche morendo, ci riescono. Il finale de Il mucchio selvaggio (The Wild Bunch, 1968), ad esempio, è un’esplosione di gioia distruttrice; il Gruppo compie la sua missione, l’atto estremo di ribellione, la strage sacra, la rivoluzione, tutto quello che la società merita. E dopo essere morti, li vediamo ancora cavalcare e, soprattutto, ridere (mentre i due sopravvissuti si uniscono alla rivolta messicana).


I nostri occhi di fronte a tale spettacolo diventano più umidi, ma la nostra bocca gode aprendosi in sorriso. Sentiamo che ci troviamo di fronte ad un happy end, sicuramente sui generis, un finale positivo, però… alla maniera di Peckinpah.

Il regista mostra direttamente, attraverso le molteplici risate dei suoi protagonisti come si fa a schernire la società putrida. Ed anche questa risata è violenza e ribellione, la più sacra, quella che purifica. E nel mondo di questo straordinario autore ci si può ripulire esclusivamente col sangue da un contesto sociale che puzza stomachevole come una carogna.

lunedì 19 novembre 2007

Cinque città, cinque macchie gialle, una notte. Night on Earth


Los Angeles. Una ragazza (Winona Ryder, bellissima e sudicia) ha il sogno di fare il meccanico, per ora guida solo un taxi. La sua cliente (Gena Rowlands) le propone di diventare attrice. Lei rifiuta. D’altronde è una che ascolta i Blue Cheer, fuma di brutto, ripara da sola la sua macchina e crede fermamente nella sua vita (insomma, cosa chiedere di meglio da una donna?).
New York. Helmut (Armin Mueller-Stahl) è appena arrivato da Dresda, Germania dell’Est. Faceva il clown, ora si improvvisa driver. Peccato non sappia portare l’auto gialla e la sua conoscenza della Grande Mela sia davvero scarsa. Ci penserà YoYo (Giancarlo Esposito) a dargli una mano, nei limiti delle sue possibilità. Anche perché dietro lo sfavillare delle luci Brooklyn non è così bella come appare…
Parigi. Per la strada c’è un giovane tassista ivoriano (Isaach De Bankolé). È incazzato, perché non tutto gli va come vorrebbe/dovrebbe. Sulla sua vettura sale una ragazza cieca (Béatrice Dalle): ok, non avrà la vista ma della vita ha capito tutto. Tanto da darne una lezione preziosa al suo chauffeur. Per la serie: quando gli altri sensi arrivano dove le apparenze, l’inganno degli occhi smettono di funzionare.
Roma. Gino (un Roberto Benigni versione fiume in piena, quando ancora sapeva travolgerci…) è toscano, guida il suo taxi nella capitale da quindici anni. È un erotomane incallito e racconta le sue perversioni sessuali (zucche, pecore, cognate) al malcapitato cliente di turno, un prete con problemi di salute (Paolo Bonacelli). Malesseri che causano un infarto, causato chissà da cosa…
Helsinki. Mika (Matti Pellonpää) fa due lavori, di notte guida la sua auto per le strade buie e innevate della metropoli finlandese. Raccoglie per strada tre disperati del tutto sbronzi e racconta loro la sua triste storia. Un amore così forte e già perso in partenza che si ha voglia di zittire.


Questo è Night on Earth (Taxisti di notte, 1991), ennesimo spassoso puzzle firmato Jim Jarmusch. Poetico ed ironico. Il bianco e nero pastoso che aveva caratterizzato gli esordi Strager Than Paradise (1984) e Daunbailò (1986) e successivamente Dead Man (1995), seguito dal recente, divertente e divertito Coffee and Cigarettes (2003), si trasforma in una vertigine di luci e tonalità scure, soffuse. Come già accaduto per Myster Train (1989), simile anche come struttura narrativa.
Il viaggio è il leit motiv. Come per quasi tutta l’opera del regista americano. Spostarsi, guardare fuori e dentro noi stessi, muoversi continuamente, senza sosta, in nuovi imprevisti luoghi e tra imprevedibili situazioni e sentimenti. Giochi del destino sempre in agguato, in città multiformi, che cambiano, si sciolgono, diventano misteriose e accoglienti, e minacciose.


Era difficile girare un film in interni. Jarmusch ci riesce, grazie agli attori (il cast è davvero strepitoso), alla sensibilità per i pochi esterni filmati (giocare di sottrazione spesso è la carta vincente), alla fotografia di Frederick Elmes e alle musiche del fidato amico Tom Waits. Un film leggero e profondo, una sorta di commedia tragica che sfrutta un mero espediente narrativo per sfumare sensi e sogni di decine e decine di vite che si incrociano. Non il miglior film del regista, quanto meno un mosaico da vedere e godere per avere uno spaccato delle nostre città. Oltre che delle nostre esistenze.

venerdì 16 novembre 2007

Vento d'Oriente. Dong Fang 2007


«Il mio istinto mi spinge a girare film che vorrei vedere, visto che nessun altro li ha diretti per me.» Parola di Bong Joon-ho, giovane regista coreano (classe 1969) protagonista di una delle retrospettive più importanti del Dong Fang, festival dedicato al cinema dell’Estremo Oriente. Terza edizione della rassegna (le due precedenti hanno focalizzato l’attenzione su Cina e Giappone), svoltasi a Napoli – nella suggestiva cornice di Castel Sant’Elmo – tra il 25 ed il 28 ottobre. Film, mostre, incontri e musica per una visione a 360 gradi di una cinematografia viva e stimolante, quella della Corea del Sud.


Non solo i nomi noti che popolano i vari festival europei (Im Kwon-taek, Kim Ki-duk, Park Chan-wook, Kang Je-gyu). Soprattutto tanti giovani, interessanti autori tutti da scoprire. In primis Bong Joon-ho. Cineasta colto, che fa della varietà stilistica la sua cifra caratteristica. Non a caso la personale a lui dedicata si intitola Tempesta sui generi. Bong esordisce infatti nel 2000 con una sorta di black comedy, Barking Dogs Never Bite (Flandersui gae). Uno spaccato macabro e divertito della società sudcoreana, ricco di cinismo e toni surreali (un lettore universitario è ossessionato dai cani che popolano il suo quartiere, per porre fine al loro abbaiare escogita una ‘soluzione finale’ che non andrà a buon fine). Temi completamente ribaltati dall’opera successiva, il bellissimo thriller Memories of Murder (Salinui chueok, 2003): girato con stile livido, sorprendenti cenni ironici, è una pellicola che guarda al cinema americano (Bong dice di essersi ispirato a Fargo dei fratelli Coen) seppur in un contesto tipico del suo paese (la provincia rurale di Hwaseong durante gli anni ’80, quando le tensioni sociali tra regime, polizia e movimenti di protesta si facevano pressanti). Un noir ispirato a fatti reali (un serial killer che uccide giovani donne), che tocca nel vivo il confronto tra due mondi opposti (poliziotti di campagna e poliziotto di città), gioca di sottrazione, resta sospeso nell’animo dei protagonisti e in quello degli spettatori. Elementi fondamentali che fanno da preludio a The Host (Gwoemul, 2006), ultimo (momentaneo) tassello di un percorso fantastico. Bong scopre infatti la sua ultima carta: gira un film di fantascienza apocalittica (o semplicemente un ‘film di mostri’ alla Ishiro Honda, stile Godzilla) inserendo nel plot (una famiglia sopravvissuta ad una strage causata da un mortale essere anfibio generato dall’inquinamento di una base americana a Seul) elementi incredibili, ridondanti effetti speciali digitali, satira politica, umorismo spiazzante, vite vissute ai margini. Il mostro è una sorta di ventre sempre gravido, elemento femmineo, una ‘famiglia’ nel senso ortodosso del termine. Cui si contrappone il nucleo di perdenti che abbandonato dalla società trova riscatto in un ultimo, disperato senso di solidarietà civile.


Non solo Bong Joon-ho ovviamente. Evento speciale è stato l’incontro transculturale tra musica e immagini elaborato dalle note del pianoforte di Danilo Rea e i disegni di Kim Dae-jong: un legame tra arti e culture diverse.
Uno sguardo approfondito ha poi dato la retrospettiva Primavera coreana, otto film per conoscere meglio questa cinematografia, che ha vissuto sempre fasi alterne, tra momenti di gloria, successi clamorosi e dure repressioni politico civili. Dalla commedia tragico/sentimentale di Kwak Jae-yong (My Sassy Girl, Yeopgijeogin geunyeo, 2001) al dramma teso e realista di Jeon Soo-il (With the Girl of Black Soil, Geomen tangyi sonyeo oi, 2007 - presentato nella sezione Orizzonti di Venezia 2007). Passando dal ritratto (tremendo) di famiglia borghese dato da Im Sang-soo in A Good Lawyer’s Life (Baramnan gajok, 2003) all’esperimento tra teatro, documentario e riflessione metacinematografica di Shin Yeon-shick in A Great Actor (Joeun baewoo, 2005). Senza dimenticare il noir teso e avvincente di Kwak Kyung-taek in Friend (Chingoo, 2001), il poetico e aggressivo spaccato sportivo messo in scena da Ryoo Seung-wan in Crying Fist (Jumeogi unda, 2005), il sorprendente e spiazzante Jealousy Is My Middle Name (Jiltuneun naui him, 2002) di Park Chan-ok (premiata per questo esordio ai festival di Pusan, Rotterdam e Tokyo), il melodramma pulsante di April Snow (Oechul, 2005) firmato Hur Jin-ho.


Meritano una doverosa menzione anche le altre iniziative parallele del festival. Innanzitutto Koreanimetion, cortometraggi d’animazione coreani che hanno fatto scoprire autori interessanti (tuttavia ancora acerbi: se la tecnica d’animazione digitale fa passi da gigante, mancano un disegno autentico e convincente e sceneggiature affascinanti - va citato però il memorabile Existence (1999) di Lee Myung-ha e Elyn Park). Infine, Altrasia: due finestre su Cina e Giappone incentrate su installazioni e videoproiezioni create dai giovani artisti tra videoart e manipolazioni digitali.