find the path

giovedì 29 novembre 2007

Sepolti nelle Vite degli Altri


Chi sono i buoni e chi i cattivi quando si tratta delle “Vite degli Altri”? Quando, cioè, sebbene siamo noi ad essere in gioco, non ci sentiamo, ugualmente, chiamati in causa. Chi sono i buoni e chi i cattivi se la realtà ha cominciato a sfuggirci di mano e se non riusciamo quasi più a sentire una via completamente personale fatta di soggettivi sentimenti vissuti, provati, saggiati?
Le Vite degli Altri
(Das Leben der Anderen), film di Florian Henckel von Donnersmarck, (2006), trova a queste domande delle risposte alquanto valide: non ci sono più né buoni né cattivi perché in fin dei conti, è come se la vita concernesse sempre gli Altri.
Non ci sono né buoni né cattivi perché siamo immersi in un costante stato di neutralità e ci avviamo dondolanti, verso una condizione di sepolti vivi in porzioni singole di schizofrenia.
Non ci sono né buoni né cattivi ma solo Alieni.


Il denaro come generatore di tutti i valori, sembra essere la causa di codesto status quo. Ma fermiamoci qui, non è questa la sede per effettuare ulteriori dissertazioni di tal tipo. Questa, in Realtà, non è altro che una recensione cinematografica! Le Vite degli Altri, dicevamo.
Il film, ambientato nella DDR verso la metà degli anni ottanta, narra la storia di un ufficiale della polizia segreta senza alcuna vita personale, messo a spiare uno scrittore ritenuto pericoloso per il regime.


Il cattivo comandante Gerd Wiesler - uno straordinario Ulrich Mühe - partecipando segretamente alla vita dell’artista cambierà radicalmente il proprio punto di vista su cosa sia giusto e cosa non lo sia.
La pellicola oltre che avventurarsi in una storia affascinante quanto simbolica, è realizzata con una meravigliosa maestria tecnica. Una fulminante chiarezza caratterizza inoltre le inquadrature incastonate in una fotografia limpida anche quando si abbandona alle sinuose sfumature di blu.

Occidente decadente. Verso il sud


Haiti è uno dei paesi più poveri delle Americhe. Dominio spagnolo, colonialismo francese, nel 1915 arriva anche l’occupazione statunitense. Dittature militari prima della definitiva indipendenza. Costata sangue e miseria. Una delle poche risorse è il turismo. Di natura spesso sessuale. È intorno a questo tema che gira Vers le sud (Verso il sud, 2005) di Laurent Cantet. Basandosi sul racconto La chair du maître di Dany Laferrière, il regista francese tocca l’ennesimo nervo scoperto della nostra ricca, miserabile società. Dopo il dramma famigliare di Risorse umane (Ressources humaines, 1999) e il realismo di A tempo pieno (L’emploi du temps, 2001), entrambi incentrati sul tema del lavoro, Verso il sud fotografa in maniera spietata un Occidente in piena decadenza.


A Port-au-Prince c’è un bellissimo albergo che affaccia su una splendida spiaggia. Tre donne ormai sopra i 50 anni scappano dalle loro tristi vite e si rifugiano in questo universo inesplorato, fonte di rinnovato piacere. È un ragazzino ad allietare la loro permanenza, Legba. Corpo sinuoso, sguardo triste eppure fiero. Saranno le contraddizioni del luogo a portare ad una fine della storia tragica. In realtà l’assunto del film è tanto semplice quanto terrificante: abbiamo perso la bellezza, è qualcosa che ormai non ci appartiene. Per avere l’illusione di possederla possiamo solo comprarla. Inquinarla con la forza dei soldi. Le confessioni di tre donne alla deriva ne sono la riprova. Brenda (Karen Young) a 45 anni ha ottenuto il suo primo vero orgasmo, con impulsiva violenza. Ellen (Charlotte Rampling), borghese cinquantacinquenne, odia le altre donne e il suo mondo, ha paura d’amare, salvo tramutare in putrido orrore la sua fuga, in volgare marciume. Sue (Louise Portal) ha solo bisogno di contatti, quelli che normalmente non riesce ad intrattenere. Vive le sue vacanze come liberazione, diversità di costumi. Un arrogante folklorismo.


Le tre attrici sono bravissime e la regia di Cantet non si lascia sfuggire niente. Piuttosto che nel dispiegare il confronto tra nord/sud, povertà/ricchezza (in verità un po' tirato via, senza grande stile), si rivela attenta nel cogliere le varie sfumature di questi intricati rapporti umani: volti, sentimenti, corpi, paesaggi, mancanze. Il corpo perfetto di Legba è ciò che non siamo più, ciò che non possiamo più essere. È un grido disperato perso in un vuoto.

Le maschere buone si confondono con le maschere cattive. Ma tutti hanno le maschere…

martedì 27 novembre 2007

Voglio la testa di Lucio. Un gatto nel cervello


Con le dovute proporzioni, Un gatto nel cervello (1990, conosciuto negli Usa come Nightmare Concert) sta a Lucio Fulci come Bring me the Head of Alfredo Garcia (1974) sta a Sam Peckinpah. Fulci è stato un uragano, “il terrorista dei generi” come l’hanno definito nella loro monografia Paolo Albiero e Giacomo Cacciatore. Ha affrontato di tutto: il comico (le sue regie per i film di Franco e Ciccio sono state le migliori), gli spaghetti western (Le colt cantarono la morte e fu... tempo di massacro (1969) e I quattro dell’apocalisse (1975) sono ironici e psichedelici, pellicole violente e dalla forma estrema, che in pochi hanno riabilitato), la commedia sexy (erano i tempi di Lando Buzzanca, che lui rendeva scorretto per politica e società), l’avventuroso (i due capitoli di Zanna Bianca sono entrati nella memoria collettiva di un paio di generazioni). È però nell’horror thriller che Fulci ha dato il meglio di sé. La sua poetica lucida, brutale, colta, visivamente sconvolgente ha tritato e squarciato archetipi, cliché e miti dell’orrore. Una sensibilità scossa da ossessioni e voglia costante di sperimentare nuove formule, andare sempre oltre.
Dalle realizzazioni pregiate che hanno influenzato tanti più celebrati ‘autori’ (Una lucertola con la pelle di donna, 1971; Non si sevizia un paperino, 1973; Sette note in nero, 1977; Paura nella città dei morti viventi, 1980; I guerrieri dell'anno 2072, 1984; i capolavori L'aldilà - E tu vivrai nel terrore!, 1981, e Lo squartatore di New York, 1982) ai b-movies della deriva televisiva, fatti con idee, pretese incredibili, assoluto vigore e scarsissimi mezzi (Manhattan Baby, 1982; Murderock - Uccide a passo di danza, 1983; Aenigma, 1986; Quando Alice ruppe lo specchio, 1988).


Un gatto nel cervello è il terzultimo film del regista romano, ed è tanto pedestre quanto significativo (soprattutto perché precede il colpo di coda dei sottovalutati Voci dal profondo, 1990, e Le porte del silenzio, 1991). Protagonista è Lucio Fulci, il regista. Sta girando il suo ultimo film ma è ossessionato dalle immagini truculente che egli stesso elabora (per la cronaca, estrapolate da filmacci del suo periodo di declino, in particolare Quando Alice ruppe lo specchio). Si rivolge così ad uno psichiatra vicino di casa, che in realtà si rivela un pericoloso e disturbato serial killer. Complice una profonda ipnosi, commette delitti che non passeranno per suoi. Un transfert dannatamente mortale. Fino alla risoluzione conclusiva del fattaccio.


Se si lasciano da parte vicenda e realizzazione, effetti, recitazione e corpi massacrati (assurdi è quanto meglio li si può definire), il film è una ironica, personale e pungente riflessione metacinematografica. Fulci sembra dire a pubblico, produttori e critica: bene, dopo avermi sfruttato per anni, quando i miei generi erano in voga e riempivo le sale, ora mi avete abbandonato. Allora vi faccio vedere io. Per le riprese vado ancora a Cinecittà con un budget ridicolo. Giro in 16mm, ci do dentro di sangue e budella e mi prendo la mia personale rivincita. Dicendo un paio di scomode verità (dov'è la realtà? nell'allucinazione e nella televisione?) e continuando a sperimentare forme estreme. Tanto, come afferma in maniera beffarda tramite lo psichiatra/serial killer (il cui nome è tutto un programma: Egon Schwarz), la violenza che pervade gesti e comportamenti odierni è conseguenza della violenza dei film, di quanto il dottor Fulci ha fatto per anni. Capito dove si vuole arrivare? L’ultima soluzione è la fuga, su una barca chiamata Perversion. Riprendendo il parallelo iniziale, Lucio chiude i conti del suo cinema come Sam aveva fatto tramite il personaggio di Mike Locken/James Caan in The Killer Elite (1975).

lunedì 26 novembre 2007

Cactus Flower


La più bella del reame e la commedia americana negli anni della grande rivoluzione dei costumi. Il film è Cactus Flower di Gene Sack, 1969. I protagonisti sono Ingrid Bergman, Walter Matthau, Blondie Hawn e Rick Lenz. Due generazioni a confronto, una coppia di quarantenni promiscuamente confusa da due ventenni.
Lo stimato odontoiatra, Julian Wiston (Matthau), molto rinomato anche come Don Giovanni, per non sposare la giovane Tony Simmons (Blondie Hawn) le dice di esser già coniugato con prole. La ragazza innamorata accetta la situazione ma quando Julian mancherà all’ennessimo appuntamento, lei tenterà di togliersi la vita con il gas. Grazie al tentativo di suicidio farà la conoscenza del coetaneo vicino di casa, Igor Sullivan (Rick Lenz), intervenuto a salvarla dopo aver sentito la puzza di gas. Uno scrittore esordiente, quest’ultimo, che non avendo venduto mai niente, si fa mantenere da suo padre: “Non tutti hanno la fortuna di nascere poveri” - afferma il ragazzo.


Julian commosso dal gesto di Tony, le promette di divorziare e sposarla. Chiederà, quindi, alla sua storica infermiera, Stephanie Dickson (Ingrid Bergman), di interpretare il ruolo della moglie.
Il film riesce ad essere leggero e piacevole senza scadere nella banalità, uno spaccato del periodo che gioca sullo scambio di ruoli tra “vecchi” e Giovani. Adulti e ragazzi che in netta opposizione in quella realtà di fine anni sessanta, nel film si mescolano, invece, tra loro lanciandosi in improbabili duetti amorosi e scambi di coppia. Si tratta di una bella commedia sentimentale che, forte dell’abile sceneggiatura di I. A. L. Diamond, non si tira indietro davanti alla possibilità di sfociare nella parodia basata sull’equivoco.


Una pellicola supportata inoltre dalla meravigliosa interpretazione dei protagonisti. Il collaudato e sempre divertente Matthau duetta felicemente con la sorprendente Bergman. La quale a sua volta dimostra di essere attrice sublime anche in un ruolo comico. Dulcis in fundo la bellissima Blondie Hawn capace, con le sue fantastiche smorfiette del viso, di creare un personaggio leggero, intelligente e soprattutto in grado di non soccombere soffocata dal carisma della Bergman, la diva che, ricordiamo, aveva spodestato Greta Garbo.

domenica 25 novembre 2007

L'orrore della porta accanto. The girl next door


Jack Ketchum (vero nome Dallas Mayr, classe 1946) è uno scrittore molto noto degli Stati Uniti. Amato e osannato da Stephen King, ha esordito nel 1980 con Off Season e da allora ha incamerato una serie impressionante di successi. Un caso letterario che si divide tra horror classico, visioni soprannaturali e racconti rurali dal forte impatto emotivo. Ovvio quindi che Hollywood facesse suo questo piccolo grande talento: prima con le trasposizioni di The Lost (Chris Sivertson, 2005) e Header (Archibald Flancranstin, 2006), poi con quella di The Girl Next Door (Gregory Wilson, 2007).


Scritto da Ketchum nel 1988, The Girl Next Door è una vicenda tratta da una storia vera a dir poco agghiacciante. Nel 1965 le sorelle Meg e Susan Loughlin, abbandonate dai genitori, sono affidate alle cure di Ruth Chandler, madre di quattro figli. La donna è affetta da disturbi psichici e problemi di alcolismo e inizia nei confronti della sedicenne Meg un macabro tour de force fatto di insulti, torture e violenze inaudite, che condurrà fino alla morte della ragazza. Orrori perpetrati non solo dalla donna, anche dai ragazzini che popolano la sua elegante abitazione. Ketchum si ispira a William Golding (Il signore delle mosche) e al suo compare Stephen King (l’atmosfera è quella assolata e spietata di Stand by me). Ma ha la capacità di condurre la storia in modo personale, umano e provocatorio. L’ambientazione provinciale denuncia una fondamentale ipocrisia di fondo: la fotografia di William M. Miller gioca proprio sul contrasto tra esterni luminosi e splendenti (sulla facciata di casa Chandler campeggia una fiera bandiera americana) e il nero livido dello scantinato degli orrori. Giocando di sottrazione invece che accumulando elementi (le sequenze forti sono giusto un paio), il film affonda i colpi quando sottolinea il perbenismo ipocrita della famiglia borghese e denuncia i deliri d’onnipotenza di una creatura/dio che plasma e sottrae la vita (le incisione sulla carne ‘i fuck/fuck me’, le bruciature di sigarette e la fiamma ossidrica che sigilla l’elemento femmineo di Meg).


I bambini sono in realtà veri carnefici perché ancora ‘isolati’ dall’esterno e immuni dalle regole sociali imposte dalle istituzioni. Ciò che prevale nel loro branco è il legame, la complicità, il fare gruppo. Come scorpioni e formiche in The Wild Bunch (Il mucchio selvaggio, 1968), così questi ragazzi giocano nel catturare e torturare. Pesci, serpenti, lombrichi o essere umani che siano. È la natura ferina a venir fuori, ancor più pressante perché stimolata. E il regista Gregory Wilson si dimostra attento nel conservare tutte le sfumature del racconto, facendoci sprofondare pian piano nel dolore e nella sofferenza, aprendo ad un finale solo in apparenza solare. Poiché anche quando si cerca di cancellare un tremendo passato, i ricordi restano. Siano essi un dono o una maledizione.
Sam Peckinpah avrebbe riso e apprezzato.

venerdì 23 novembre 2007

'Cca nun ce sta nisciuna!'. Luna rossa


Regista complesso Antonio Capuano. Quando si parla(va) di una sorta di Nouvelle Vague napoletana (o meglio, vesuviana) inevitabile è/era un sorriso. Il percorso dei vari, tanti autori partenopei da fine anni ‘80/inizio ‘90 ad oggi è così sfaccettato che risulta ridicolo inscriverlo in un unico ‘movimento’. Capuano compie il primo passo nel 1991 con Vito e gli altri, ottiene il meritato successo di critica con Pianese Nunzio: 14 anni a maggio (1996), prosegue il suo personale percorso di ricerca con Polvere di Napoli (1998). Prima dei successi ottenuti grazie al toccante, intenso La guerra di Mario (2005), nel 2001 realizza Luna rossa. Progetto complesso, coniugare l’Orestiade di Eschilo con il ‘mafia movie’ non tanto americano (anche se un pensiero spesso corre a Fratelli (The Funeral, 1996) di Abel Ferrara) quanto schiettamente campano.


Talvolta qualche particolare sfugge, la lunghezza della pellicola rischia di stancare, la voglia di accumulare e spiegare troppo fa perdere intensità. Perché siamo al cospetto di un film fatto di personaggi (cast a cinque stelle, in particolare Toni Servillo, Carlo Cecchi, Licia Maglietta e Antonino Iuorio) e soprattutto di dialoghi, dall’impianto teatrale e al tempo stesso dalla potente forza cinematografica. Le vicende della famiglia Cammarano durano per decenni, il loro controllo su Napoli (e non solo) è fatto di omicidi, intrighi politici, accorgimenti economico finanziari, faide infinite. Ma ancora più temibile è l’implosione, il dissolvimento interno che questo nucleo vive, cui è destinato. “Il cielo tutto rosso e gli amici della famiglia che si affogano nel sangue”. Così si esprime il vecchio boss Tony. Nuvole che inviano segnali, visioni mistiche e violenza esposta e sottopelle, incesti e istinti intrattenibili, lacerazioni fisiche (quelle che si infligge il giovane Oreste) e psicologiche (i tormenti di Amerigo, le paure di Libero).


Quanto costa il potere? È nella famiglia che si fonda davvero la nostra società? O questa congregazione di mostri si regge in piedi solo sulle viscere e sulle esplosioni? “Queste morti sono il vero cemento della famiglia”, esclama ancora Tony dopo l’ennesima sparatoria. Quando lo specchio si rompe è ora di scappare, lo capisce Oreste. La sua fuga dura anni, il ritorno è solo per una mattanza che ormai non ha più senso. Luna rossa è bello e tremendo proprio per questo, ci inchioda allo schermo, ci apre il cuore, ci opprime con uno stile lucido e teso. Parla di tradimento, di vendetta, di fughe. Con una crudezza davvero rara.

Quando il sangue gira su se stesso diventa debole, si infetta, deve finire.

mercoledì 21 novembre 2007

Auguri Alfredo


Un’esplosione di vetri infranti, di acqua e bambini che giocano con un cappio. Una violenza estrema ed essenziale alla catarsi. Un proiettile che buca il corpo facendolo aprire in un fiore che sboccia rosso. Le risate totali che si librano riempiendo lo spazio. La fragilità potente di un loser che, alla fine, film dopo film, non fa altro che continuare a vivere anche dopo la morte. Poiché il loser è un perdente esclusivamente in relazione alle regole socio-politico-economiche vigenti, ma è l’unico che conosce la via alla Vita, nonostante, paradossalmente non sia capace di conservare la sua esistenza nel contesto in cui è inserito. Si tratta di outlaw che lottano con disperazione per la loro sopravvivenza e che in qualche modo, anche morendo, ci riescono. Il finale de Il mucchio selvaggio (The Wild Bunch, 1968), ad esempio, è un’esplosione di gioia distruttrice; il Gruppo compie la sua missione, l’atto estremo di ribellione, la strage sacra, la rivoluzione, tutto quello che la società merita. E dopo essere morti, li vediamo ancora cavalcare e, soprattutto, ridere (mentre i due sopravvissuti si uniscono alla rivolta messicana).


I nostri occhi di fronte a tale spettacolo diventano più umidi, ma la nostra bocca gode aprendosi in sorriso. Sentiamo che ci troviamo di fronte ad un happy end, sicuramente sui generis, un finale positivo, però… alla maniera di Peckinpah.

Il regista mostra direttamente, attraverso le molteplici risate dei suoi protagonisti come si fa a schernire la società putrida. Ed anche questa risata è violenza e ribellione, la più sacra, quella che purifica. E nel mondo di questo straordinario autore ci si può ripulire esclusivamente col sangue da un contesto sociale che puzza stomachevole come una carogna.

lunedì 19 novembre 2007

Cinque città, cinque macchie gialle, una notte. Night on Earth


Los Angeles. Una ragazza (Winona Ryder, bellissima e sudicia) ha il sogno di fare il meccanico, per ora guida solo un taxi. La sua cliente (Gena Rowlands) le propone di diventare attrice. Lei rifiuta. D’altronde è una che ascolta i Blue Cheer, fuma di brutto, ripara da sola la sua macchina e crede fermamente nella sua vita (insomma, cosa chiedere di meglio da una donna?).
New York. Helmut (Armin Mueller-Stahl) è appena arrivato da Dresda, Germania dell’Est. Faceva il clown, ora si improvvisa driver. Peccato non sappia portare l’auto gialla e la sua conoscenza della Grande Mela sia davvero scarsa. Ci penserà YoYo (Giancarlo Esposito) a dargli una mano, nei limiti delle sue possibilità. Anche perché dietro lo sfavillare delle luci Brooklyn non è così bella come appare…
Parigi. Per la strada c’è un giovane tassista ivoriano (Isaach De Bankolé). È incazzato, perché non tutto gli va come vorrebbe/dovrebbe. Sulla sua vettura sale una ragazza cieca (Béatrice Dalle): ok, non avrà la vista ma della vita ha capito tutto. Tanto da darne una lezione preziosa al suo chauffeur. Per la serie: quando gli altri sensi arrivano dove le apparenze, l’inganno degli occhi smettono di funzionare.
Roma. Gino (un Roberto Benigni versione fiume in piena, quando ancora sapeva travolgerci…) è toscano, guida il suo taxi nella capitale da quindici anni. È un erotomane incallito e racconta le sue perversioni sessuali (zucche, pecore, cognate) al malcapitato cliente di turno, un prete con problemi di salute (Paolo Bonacelli). Malesseri che causano un infarto, causato chissà da cosa…
Helsinki. Mika (Matti Pellonpää) fa due lavori, di notte guida la sua auto per le strade buie e innevate della metropoli finlandese. Raccoglie per strada tre disperati del tutto sbronzi e racconta loro la sua triste storia. Un amore così forte e già perso in partenza che si ha voglia di zittire.


Questo è Night on Earth (Taxisti di notte, 1991), ennesimo spassoso puzzle firmato Jim Jarmusch. Poetico ed ironico. Il bianco e nero pastoso che aveva caratterizzato gli esordi Strager Than Paradise (1984) e Daunbailò (1986) e successivamente Dead Man (1995), seguito dal recente, divertente e divertito Coffee and Cigarettes (2003), si trasforma in una vertigine di luci e tonalità scure, soffuse. Come già accaduto per Myster Train (1989), simile anche come struttura narrativa.
Il viaggio è il leit motiv. Come per quasi tutta l’opera del regista americano. Spostarsi, guardare fuori e dentro noi stessi, muoversi continuamente, senza sosta, in nuovi imprevisti luoghi e tra imprevedibili situazioni e sentimenti. Giochi del destino sempre in agguato, in città multiformi, che cambiano, si sciolgono, diventano misteriose e accoglienti, e minacciose.


Era difficile girare un film in interni. Jarmusch ci riesce, grazie agli attori (il cast è davvero strepitoso), alla sensibilità per i pochi esterni filmati (giocare di sottrazione spesso è la carta vincente), alla fotografia di Frederick Elmes e alle musiche del fidato amico Tom Waits. Un film leggero e profondo, una sorta di commedia tragica che sfrutta un mero espediente narrativo per sfumare sensi e sogni di decine e decine di vite che si incrociano. Non il miglior film del regista, quanto meno un mosaico da vedere e godere per avere uno spaccato delle nostre città. Oltre che delle nostre esistenze.

venerdì 16 novembre 2007

Vento d'Oriente. Dong Fang 2007


«Il mio istinto mi spinge a girare film che vorrei vedere, visto che nessun altro li ha diretti per me.» Parola di Bong Joon-ho, giovane regista coreano (classe 1969) protagonista di una delle retrospettive più importanti del Dong Fang, festival dedicato al cinema dell’Estremo Oriente. Terza edizione della rassegna (le due precedenti hanno focalizzato l’attenzione su Cina e Giappone), svoltasi a Napoli – nella suggestiva cornice di Castel Sant’Elmo – tra il 25 ed il 28 ottobre. Film, mostre, incontri e musica per una visione a 360 gradi di una cinematografia viva e stimolante, quella della Corea del Sud.


Non solo i nomi noti che popolano i vari festival europei (Im Kwon-taek, Kim Ki-duk, Park Chan-wook, Kang Je-gyu). Soprattutto tanti giovani, interessanti autori tutti da scoprire. In primis Bong Joon-ho. Cineasta colto, che fa della varietà stilistica la sua cifra caratteristica. Non a caso la personale a lui dedicata si intitola Tempesta sui generi. Bong esordisce infatti nel 2000 con una sorta di black comedy, Barking Dogs Never Bite (Flandersui gae). Uno spaccato macabro e divertito della società sudcoreana, ricco di cinismo e toni surreali (un lettore universitario è ossessionato dai cani che popolano il suo quartiere, per porre fine al loro abbaiare escogita una ‘soluzione finale’ che non andrà a buon fine). Temi completamente ribaltati dall’opera successiva, il bellissimo thriller Memories of Murder (Salinui chueok, 2003): girato con stile livido, sorprendenti cenni ironici, è una pellicola che guarda al cinema americano (Bong dice di essersi ispirato a Fargo dei fratelli Coen) seppur in un contesto tipico del suo paese (la provincia rurale di Hwaseong durante gli anni ’80, quando le tensioni sociali tra regime, polizia e movimenti di protesta si facevano pressanti). Un noir ispirato a fatti reali (un serial killer che uccide giovani donne), che tocca nel vivo il confronto tra due mondi opposti (poliziotti di campagna e poliziotto di città), gioca di sottrazione, resta sospeso nell’animo dei protagonisti e in quello degli spettatori. Elementi fondamentali che fanno da preludio a The Host (Gwoemul, 2006), ultimo (momentaneo) tassello di un percorso fantastico. Bong scopre infatti la sua ultima carta: gira un film di fantascienza apocalittica (o semplicemente un ‘film di mostri’ alla Ishiro Honda, stile Godzilla) inserendo nel plot (una famiglia sopravvissuta ad una strage causata da un mortale essere anfibio generato dall’inquinamento di una base americana a Seul) elementi incredibili, ridondanti effetti speciali digitali, satira politica, umorismo spiazzante, vite vissute ai margini. Il mostro è una sorta di ventre sempre gravido, elemento femmineo, una ‘famiglia’ nel senso ortodosso del termine. Cui si contrappone il nucleo di perdenti che abbandonato dalla società trova riscatto in un ultimo, disperato senso di solidarietà civile.


Non solo Bong Joon-ho ovviamente. Evento speciale è stato l’incontro transculturale tra musica e immagini elaborato dalle note del pianoforte di Danilo Rea e i disegni di Kim Dae-jong: un legame tra arti e culture diverse.
Uno sguardo approfondito ha poi dato la retrospettiva Primavera coreana, otto film per conoscere meglio questa cinematografia, che ha vissuto sempre fasi alterne, tra momenti di gloria, successi clamorosi e dure repressioni politico civili. Dalla commedia tragico/sentimentale di Kwak Jae-yong (My Sassy Girl, Yeopgijeogin geunyeo, 2001) al dramma teso e realista di Jeon Soo-il (With the Girl of Black Soil, Geomen tangyi sonyeo oi, 2007 - presentato nella sezione Orizzonti di Venezia 2007). Passando dal ritratto (tremendo) di famiglia borghese dato da Im Sang-soo in A Good Lawyer’s Life (Baramnan gajok, 2003) all’esperimento tra teatro, documentario e riflessione metacinematografica di Shin Yeon-shick in A Great Actor (Joeun baewoo, 2005). Senza dimenticare il noir teso e avvincente di Kwak Kyung-taek in Friend (Chingoo, 2001), il poetico e aggressivo spaccato sportivo messo in scena da Ryoo Seung-wan in Crying Fist (Jumeogi unda, 2005), il sorprendente e spiazzante Jealousy Is My Middle Name (Jiltuneun naui him, 2002) di Park Chan-ok (premiata per questo esordio ai festival di Pusan, Rotterdam e Tokyo), il melodramma pulsante di April Snow (Oechul, 2005) firmato Hur Jin-ho.


Meritano una doverosa menzione anche le altre iniziative parallele del festival. Innanzitutto Koreanimetion, cortometraggi d’animazione coreani che hanno fatto scoprire autori interessanti (tuttavia ancora acerbi: se la tecnica d’animazione digitale fa passi da gigante, mancano un disegno autentico e convincente e sceneggiature affascinanti - va citato però il memorabile Existence (1999) di Lee Myung-ha e Elyn Park). Infine, Altrasia: due finestre su Cina e Giappone incentrate su installazioni e videoproiezioni create dai giovani artisti tra videoart e manipolazioni digitali.

mercoledì 14 novembre 2007

LA POSTA DEL CUORE: pompino a Bruce Willis


Bruce Willis è il padre perfetto. Se ci fosse un Oscar per la miglior figura paterna del Cinema dovrebbe andare a lui: miglior padre dell’anno in tutti gli anni di nostro Signore.
Io, credetemi, non esagero affermando con convinzione che lo sceglierei come genitore sempre e comunque, in tutti suoi ruoli: Joe Hallenbeck (L’Ultimo Boyscout, Tony Scott, 1991) o John McClane o Butch (Pulp Fiction, Quentin Tarantino, 2004) o il Sig. Goodkat (Slevin - Patto Criminale, Paul McGuigan, 2006) o Jack Mosley (Solo Due Ore, Richard Donner, 2006) [...].


Il fatto è che con lui si ha la possibilità di sopravvivere a tutto; con lui, che ti protegge, niente e nessuno potrà mai ammazzarti. E se c’è da salvare il mondo o il Presidente, se c’è da compiere un’ardua vendetta o portare a compimento una missione impossibile, chi credete che sia l’unico in grado di farlo? (Quel bamboccio di Tom Cruise potrà fare tutti i saltelli che vuole ma se si trovasse Bruce di fronte non dovrebbe che tornarsene a fare Cocktail! … magari per i suoi amici di scientology ;-D).


Il Signor Willis è il numero uno ed è anche il due, il tre e l’infinito. E se talvolta potrà sembrarvi bigotto o conservatore, beh non sono forse queste, le caratteristiche di un padre?
E in più lui è anche divertente, dissacrante e dotato di un sorriso così sexy che nessuna donna, invitata a cena, non si fermerebbe anche a colazione.


E ancora, lui è l’unico capace di non cadere mai aggrappandosi a qualsiasi cosa, è l’unico in grado di restare in piedi appoggiandosi su una pedana che precipita nel vuoto; ed è l’unico che sa evitare a un camion di ribaltarsi grazie ad una poderosa controsterzata. Perché lui non è solo l’ultimo uomo analogico in un’era digitale, non è solo l’ultimo boy scout, lui è molto di più. Lui è l’ultimo pistolero di Hollywood. Lui è l’Ultimo Eroe.
Lui, signori miei, è Bruce Willis.

martedì 13 novembre 2007

Mai più in Olanda. Do not Disturb


Negli anni ’80 il nome Dick Maas era sinonimo di garanzia. Prima con l’horror De Lift (L’ascensore, 1983), poi con la commedia dissacrante Flodder (Arrivano i Flodder, 1986), infine con il bellissimo thriller Amsterdamned (1988), un piccolo gioiello di tensione ed atmosfera. Una visione del proprio paese vera, mai consolatoria o folkloristica, trappola nella quale cade Do not Disturb, suo ritorno alla regia del 1999. Partiamo dai fatti. C’è un uomo d’affari americano (William Hurt) che per via di un business va in viaggio ad Amsterdam con sua moglie (Jennifer Tilly) e sua figlia, una bambina rimasta muta in seguito ad un incidente (Francesca Brown). Appena arrivati in città la piccola è involontaria testimone di un omicidio, commesso guarda caso dal compare d’affari del papà (Michael Chiklis, il mitico Vic Mackey di The Shield) in combutta con un malvivente demente. Da qui inseguimenti, fughe rocambolesche ed un finale edificante.


Dov’è il problema? Non certo nei riferimenti ai classici del brivido che Maas saccheggia a piene mani. Né nell’entusiasta adesione del regista ai migliori canoni di genere. Il difetto di Do not Disturb è che non mantiene le promesse. E le premesse (narrative). La prima metà del film è interessante: il ritmo è forsennato, la suspense regge bene. Poi c’è il tracollo. Passano i minuti e la vicenda si fa quasi grottesca. Il killer che cerca di uccidere la bambina è un idiota totale, tanto che viene voglia di prenderlo a schiaffi per la sua inettitudine. La ragazzina stessa è una sorta di wonder woman: salta, scappa, si aggira per le strade della metropoli e l’hotel dove alloggia come una eroina dei fumetti. Quando poi sembra che tutto sia risolto il basito truffatore interpretato da Chiklis ha una impennata d’orgoglio stupido e inizia una fuga insensata. Al che Hurt si trasforma in Superman e sfida (vincendo) tutte le leggi di gravità. Il finale è così sfilacciato e paradossale da risultare involontariamente comico (nonostante il tono ironico tenuto per l'intero film). Tutto il contrario di ciò che era Amsterdamned.

La capitale orange appare come una città lugubre, piena soltanto di tossici, barboni, ladri, puttane sadomaso, poliziotti stronzi e incapaci, assassini che circolano a piede libero. Insomma, la tipica visione americana dell’Europa, per la quale tutto ciò che si discosta di un minimo dall’ordinario è da biasimare ed evitare. Senza mai guardare a se stessi. Strano, perchè Maas è olandese e del proprio paese aveva dato un profilo affascinante nelle sue precedenti opere. Do not Disturb risulta così stereotipato e puzzolente di muffa da farci rimpiangere Giampiero Galeazzi, quando durante gli Europei di calcio del 2000 aveva definito Amsterdam città ‘gaia e peccaminosa’.

domenica 11 novembre 2007

The Wild Blue Yonder: il documentario di finzione


Werner Herzog, il prestigiatore, con The Wild Blue Yonder (L’ignoto spazio profondo, 2005) realizza un altro documentario di finzione. Questo suo personalissimo genere (il documentario di finzione, appunto) si basa fondamentalmente su un gioco di rimandi continui tra il mondo reale e l’universo filmico.
Le immagini sono quelle del documentario, immagini che, quindi, in un certo senso, potremmo definire “didascaliche”: atte ad una mera illustrazione della realtà, perciò indubbiamente più libere dalle metafore del linguaggio filmico, almeno rispetto a tutti gli altri generi cinematografici. Niente di più menzognero, se riferito a Herzog. Il suo documentario è sotto il giogo della fiction, al pari di un musical di Vincente Minnelli. E così il mare antartico interpreta il ruolo di un pianeta dal cielo ghiacciato e dall’atmosfera liquida dell’Elio; gli astronauti della Nasa in missione si trasformano nei nuovi pionieri dello Spazio alla ricerca di luoghi, anche selvaggi, da abitare.


Filo conduttore e narratore fuori campo è il protagonista: un uomo reale dalle assonanze western, che diventa ai nostri occhi un alieno. Herzog crea una vera e propria Fantasmagoria, giocando su un novello concetto di Immaginità: non più reazioni intellettuali indotte dall’accostamento delle inquadrature (come era per Eisenstein), ma costruzione di significati derivanti dal concatenamento delle immagini, che paradossalmente diventano verosimili se relazionate al racconto del narratore onnisciente. Il regista della nouvelle vague tedesca riesce così ad ottenere una narrazione, che conduce per mano i nostri occhi, indicandoci, di volta in volta, il senso da dare a ciò che è stato catturato dallo sguardo. Comune a questi due modi dell’Immaginità, la manipolazione percettiva dello spettatore. Ma il guardante al cospetto del cinema di Herzog, possiede la coscienza del Gioco messo in atto dal regista; coscienza completamente assente, invece nel caso degli spettatori di Eisenstein: il russo stava inventando il Linguaggio cinematografico agli inizi del secolo scorso ed il tedesco lo re-inventa nel ventunesimo secolo, consapevole delle strade tracciate dai “suoi Padri”.

giovedì 8 novembre 2007

Fortuna che c'è lui... Live Free or Die Hard


Die hard – Vivere o morire (Live Free or Die Hard, Len Wiseman, 2007) può essere sintetizzato in due parole: Bruce Willis. Stop. È lui il film. Anche se ha le solite due/tre espressioni, se il tempo passa e forse neanche più lui crede al John McLane di Trappola di cristallo (Die Hard, John McTiernan, 1988), per non parlare del Joe Hallenbeck di L’ultimo boy scout (The Last Boy Scout, Tony Scott, 1992). Tuttavia se ci fosse stata una qualsiasi altra faccia, questo action movie improbabile e fracassone non avrebbe avuto ragione di esistere. È Bruce a sfidare le leggi di gravità, a riempirsi di graffi, botte e tagli a non finire, a punire i cattivoni, soffrire e sparare (oltre che migliaia di cartucce) le solite battute da macho.


Il resto non conta. C’è infatti un tale con la faccia da bambolotto (ex agente governativo alla sicurezza) che per rifarsi di uno smacco subito dall’amministrazione vuole impadronirsi dei dollaroni degli States tramite un black out energetico. Per farlo si serve dei migliori hacker d’America, salvo poi ucciderli tutti. O quasi. McLane gli dà la caccia (la faccenda va sul personale quando gli rapiscono la figlia, più tamarra di lui), lo trova e lo ammazza. Finito il film. Che poi abbozza un buonismo di riporto, ha delle voragini di sceneggiatura, sfiora costantemente il reazionario, ma in fondo va preso per quello che è: un giocattolo caciarone, che sembra una puntata qualsiasi di 24 (sarebbe bello far incontrare sul grande schermo John McLane e Jack Bauer, andrebbero a prendere a calci in culo persino Ahmadinejad…), tiene bene ritmo e inseguimenti mozzafiato e ci fa staccare la spina del cervello per 130 minuti.

Yippee-ki-yay, motherfuckers.