find the path

lunedì 27 giugno 2011

Cinematic music for cinematic people (Part IV): Ex - Abuse


Ex è la quintessenza del rock cinemadelico. Ordine e armonia distrutti da scosse elettriche. La forma strumentale che si (dis)fa fiera poetica. Il nuovo disco Abuse (quarto della serie, scaricabile gratuitamente dal sito del gruppo, come i precedenti) è un'autentica avventura. Abuso, possesso, lotta. Un album che si dipana come un fiume in piena, un arrembaggio acido che in Italia ha pochi eguali. Viene piuttosto da pensare alle esperienze free form dei vari Bevis Frond, Kawabata Makoto, Gary Arce. Arpeggi melanconici, giri di chitarra onirici, ritmiche ora delicate ora impetuose, riff ipnotici e inzuppati di mescalina. Nel rispetto del sacro motto: less is more. Abuse segna un netto passo in avanti nella definizione del suono. Quello che inizialmente era un "semplice" heavy psych o acid rock diventa altro. Una mutazione che passa dalla musica cinematica al desert sound, senza aver paura di "sporcarsi" con melodie malinconiche ed intense. Pier Paolo Pasolini, Lucio Fulci, Elio Petri, Gian Maria Volontè e Ugo Tognazzi sono i numi tutaleri. Perché l'opera è costellata da samples e citazioni che imbevono le nove tracce dello spirito critico e militante che il miglior cinema italiano degli anni Sessanta e Settanta ha lasciato in eredità.


Velvet & Latex e Capital Desert sono i primi due tasselli di un percorso che inizia luminoso, seppure sommesso e distante. Da God's Spirit i toni si fanno oscuri, minacciosi. L'abuso religioso apre qualche spiraglio di luce, pur sempre da tramonto. Nella title track la divisa blocca e cavalca le parole di Orazio Orlando in La proprietà non è più un furto («Mi approprio di parti più o meno importanti dell'esistenza altrui, così mi consumo nel pessimismo e mi consolo nell'egoismo dei miei privilegi, primo fra tutti la libertà di arrestare chi voglio. Arrestare è bellissimo...»). La liberazione è un riff a dir poco catacombale, soffocante, eterno. I Black Sabbath in chiave massimalista. Se Good Woman penetra sottopelle nell'intimità, nei pensieri profondi, Into You segna la frattura definitiva, che Change's Blues dilata in un vortice che si sovrappone strano dopo strato. Il finale con Wandering Mountain trascina lì dove l'impossibile diventa realtà e all'orizzonte il quotidiano si tramuta in fantasia.

E allora io penso questo... Che in un regime democratico, dobbiamo rimpiangere il cimema che fu e auspicare la psichedelia al potere.
Per ascoltare il disco e lasciarsi ammaliare dalla poster art lisergica di Ex Lab, basta cliccare www.exlab.altervista.org

venerdì 24 giugno 2011

And the winner is... El premio


Argentina, un tempo indefinito e un luogo indeterminato. Unità che si manifestano poco a poco, così come lentamente si entra nelle vite di Lucía e Cecilia, madre e figlia. La prima è stravolta, quasi allucinata. La seconda ha soltanto sette anni e si comporta esattamente come una bambina di quell'età: gioca, ride, scherza, all'improssivo si fa seria. Le due vivono in una baracca su una spiaggia dove il mare è cupo, minaccioso. San Clemente del Tuyù è un antro oscuro. Sono fuggite. Sono braccate, inseguite. In attesa di un uomo che non si sa quando, se ritornerà. Nella memoria di un cugino morto mentra suonava il pianoforte. Cercano tranquillità, un mare di tranquillità. Una piccola oasi che sembra impossibile in un tempo e in un mondo come quello. Argentina 1976. Per Cecilia la pace (la pacificazione) è rappresentata dalla scuola. È lì che incontra l'amica Silvia, è lì che scopre di avere un grande talento per la scrittura e la lettura. Ed è proprio scrivendo e leggendo che la maestra la sceglie come rappresentante del piccolo istituto per partecipare al concorso bandito dal glorioso e valoroso esercito per celebrare la nascita di una nuova nazione. Cecilia vincerà e vorrà ritirare a tutti i costi l'ambito premio. Anche in errori del genere imparerà a crescere e a saper aspettare.


El premio (The Prize) è l'opera prima di Paula Markovitch, scrittrice e sceneggiatrice di origine argentina, film presentato in concorso alla Berlinale 2011 dove ha ottenuto l'Orso d'Argento per il miglior contributo artistico a Wojciech Staron e Barbara Enriquez. Un'opera che seduce con lentezza. E lo fa con grande semplicità: pochi movimenti di macchina, stacchi rapidi di montaggio, lunghe pause, una  fotografia livida che fa apparire le meraviglie dei paesaggi uno squallido budello dove vita, morte, presente, passato, infanzia e maturità assumono connotati sinistri e opprimenti. La descrizione di una realtà tanto brutale si trasforma in un insieme di simboli che giungono alla surrealtà. Poggiando soprattutto sui corpi delle due attrici protagoniste, Paula Galinelli Hertzog e Laura Agorreca. Il motivo che ha spinto Lucía e Cecilia a scappare si palesa con il passare dei minuti. Quasi senza cause. Il merito della sceneggiatura della Markovitch è proprio quello di evitare il pamphlet, puntando su sentimenti privati, su storie singole che diventano paradigmi universali. Le risate e gli scherzi, i capricci ed i giochi, il rotolare sulla sabbia e bere felici senza pensare al futuro, diventano un paradosso di quotidianità. Le musiche di Sergio Gurrola, minimaliste e dissolte nell'aria, restano sospese come le vite delle due protagoniste. Persino la maestra elementare e il capitano dell'esercito sono descritti con particolari grotteschi: l'onicofagia e lo spaesamento vanno di pari passo. La parata militare di premiazione si risolve in un teatrino dell'assurdo. Dolci note di pianoforte spingono verso un fuoricampo che nel finale sfocia in un commovente distacco, un nuovo approdo risolto fuori fuoco.
El premio è la cruda descrizione di un degrado politico e civile che poco meno di trent'anni dopo si trasformerà nel crac economico che impone un nuovo sfascio, stavolta morale e finanziario. Paula Markovitch ha realizzato un film piccolo e necessario proprio perché ci pone dinanzi ad eventi più grandi e insieme inutili della vita.

giovedì 9 giugno 2011

Detective fantomatici e vittime abominevoli. Fantafestival 2011


«Klaatu Barada Nikto!» e passano tutti i guai. Fomula vincente per il robot Gort e per il Fantafestival di Roma, che per la trentunesima edizione ci spalanca le porte al cinema fantastico e di fantascienza. Un programma ricco, dal 9 al 19 giugno 2011 presso la Casa del Cinema e il Nuovo Cinema Aquila.

Innanzitutto un sentito omaggio al cinema fantastico comico italiano con la retrospettiva Fantaitaly: Brividi, risate e magia. Immersione divertita e divertente in quel meandro oscuro di film che tra gli anni 60 e gli 80 giocava con archetipi e stereotipi del cinema di fantascienza. Dal Renato Pozzetto di Mia moglie è una strega (1980) – Finnicella! – allo scult di Pier Francesco Pingitore Ciao marziano (1980), con un improbabile Pippo Franco alieno. Dal Lucio Fulci dissacrante in combutta con Lando Buzzanza di Cav. Costante Nicosia Demoniaco ovvero Dracula in Brianza (1975) al Diabolik iperpop di Mario Bava, griffato 1967, e via fino al capolavoro La decima vittima (1965) di Elio Petri.


Tante al solito le ghiotte anteprime, tra le quali meritano segnalazione 13 assassini del bulimico Takashi Miike, After.Life di Agnieszka Wojtowicz-Vosloo (occhio a Christina Ricci quasi sempre nuda…), Repo Men di Miguel Sapochnik e Detective Dee and the Mistery of Phantom Flame di Tsui Hark (atteso al vaglio dopo l'osceno Missing e la commedia All About Women). Con Sammo Hung a curare il comparto action e un cast che vede protagonisti Andy Lau, Carina Lau, Tony Leung Kar Fai e Li Bing Bing dovremmo dormire sonni tranquilli… O agitati?


Un occhio particolare è puntato sul cinema italiano del presente, con diverse pellicole che stimolano curiosità e interesse. In particolare i due zombie movie Bloodline di Edo Tagliavini (effetti di Sergio Stivaletti e musiche di Claudio Simonetti dovrebbero essere una garanzia) e Eaters di Luca Boni e Marco Ristori, film prodotto da Uwe Boll, il che promette adeguata "bruttezza". Suscita aspettative etiliche Bumba atomika di Michele Senesi. Focus su Stefano Bessoni (autore di Imago mortis e dell'inedito Krokodyle, presentato per l'occasione), Gabriele Albanesi (già colmo di seguaci dopo Il bosco fuori e prima di Ubaldo Terzani Horror Show) e Lorenzo Bianchini, regista di Lidrîs cuadrade di trê (2001), Custodes bestiae (2004) e Occhi (2010).


Notevoli e lodevoli infine gli omaggi ai 100 anni di Fantomas (la trilogia di André Hunebelle Fantomas minaccia il mondo, Fantomas 70 e Fantomas contro Scotland Yard) e alla stupenda Caroline "Big Breasts" Munro (Capitan Kronos - Cacciatore di vampiri di Brian Clemens e L'abominevole Dr. Phibes di Robert Fuest).
Tutti in sala al grido di «Vincent Price! Vincent Price! Vincent Price!».


Per informazioni e programma completo, basta cliccare su www.fanta-festival.it.

giovedì 2 giugno 2011

«Dovevamo farlo cadere noi il muro... Dall'altra parte!». Cirkus Columbia


Bosnia-Herzegovnia, 1991. Il muro è caduto, un mondo intero è al collasso. Divko ne approfitta e dopo un autoesilio in Germania durato vent'anni fa ritorno al proprio villaggio d'origine. Nel tempo ha finanziato il blocco anti-comunista, quindi tutto gli è dovuto. Anche riprendersi la casa dove vivono l'ex moglie Lucija e il figlio Martin ed insediarsi con la nuova compagna Azra ed il fidato gatto portafortuna Bonnie. I marchi sonanti precedono e seguono il suo arrivo. L'intero paese si mobilita, mentre i serbi iniziano ad attaccare Dubrovnik e le milizie croate non restano a guardare. Da questo assunto prende le mosse Cirkus Columbia, film di Danis Tanovic presentato alle Giornate degli Autori della Mostra di Venezia 2010, in concorso al Festival di Toronto e dal 27 maggio (2011…) nelle sale italiane distribuito da Archibald.


La Jugoslavia si sbriciola progressivamente. Allo sgretolarsi di una realità politico-sociale in ebollizione, Tanovis predilige lo spaesamento di diverse generazioni messe a confronto. La guerra è sullo sfondo, prepotente. Sta arrivando. Intanto c'è la voglia matta di Divko di tornare "uomo libero". La necessità della normalità che anima Lucija. L'incertezza di Martin, chiuso in questa morsa e spinto "soltanto" a vivere. Il riavvolgersi della memoria in un passato durato 50 anni. Il solco che Tanovic traccia tra il rimosso ed il ricordo: «Per lungo tempo il periodo prima della guerra apparteneva ad una vita che non riuscivo a ricordare. Ogni volta che cercavo di pensare alla mia vita nel periodo prima della guerra si creava nella mia testa questa lacuna. Era come se la guerra avesse coperto tutto ciò che era esistito prima. Mi sembrava che quel tempo fosse una parte della mia vita che avevo perso. Poi, di colpo, pochi anni fa, senza una ragione apparente ho cominciato a ricordare. Qualche volta un odore, qualche volta il viso di una persona che conoscevo, qualche volta una scena priva di particolare importanza.»


È in questa linea di confine che Cirkus Columbia nasce e gioca le sue migliori carte. È qui che tra dramma e commedia punta il regista, risucchiato dalla materia trattata eppure abile nel non finirci impantanato. Non tutto fila liscio, si avverte qualche forzatura nella parte centrale del film, l'ironia ed i toni grotteschi avrebbero meritato un respiro più ampio (in questo senso il cinema del croato Vinko Brešan rimane inarrivabile). E allora il film finisce per poggiare sulle rughe e l'assenza di uno stupendo (come al solito) Miki Manojlovic, sullo sguardo puro e penetrante di Mira Furlan, sulla bellezza mozzafiato (distrutta da un ridicolo doppiaggio) di Jelena Stupljanin, sugli slanci ingenui di Boris Ler (occhio alle sue magliette). E su una galleria di personaggi che divertono e commuovono, dall'ex sindaco Leon (che ha portato in casa il busto di Tito per evitare che venga sommerso dagli sputi della gente) al nuovo amministratore "democratico" Ivanda, fino al capitano dell'esercito jugoslavo Savo e alla fauna di facce da bar che popola il paese. Tra la modernità ed il passato, tra il capitalismo ed il socialismo, Martin sceglie l'America. Ma non è una presa di posizione politica. È soltanto vitalismo giovanile, cristallino, genuino. E rimane la vera ragione di Cirkus Columbia. Perché quando le bombe cominciano a cadere, non resta altro che un nuovo giro di giostra.