find the path

giovedì 30 dicembre 2010

Night Terror by Guy Maddin. O del perturbante.


C’è del marcio in Canada. A Winnipeg per la precisione, tra i grandi laghi di Manitoba. Le “muddy waters”. A narrarne le gesta il cinema del perturbante. Ovvero monsieur Guy Maddin. Occhio instancabile e curioso, con ironia e grande senso dell’umorismo ci trascina in uno spettacolo d’altri tempi, dove Luis Buñuel e Fritz Lang giocano a carte con David Lynch e Tod Browning mentre Leni Riefenstahl prepara loro un caffè. La tragedia che si abbatte sul mondo. L’amore, la competizione, il sacro e il profano.



Bianco e nero frenetico (o il colore “finto” di Sombra dolorosa), montaggio “neurotico”, musiche (in)calzanti, un cinema impossibile. Tutto sintetizzabile come una droga, il “gaddinesque”. “L’inutilità della parola e l’equilibrio temporale dello sguardo”, parola di Pier Maria Bocchi. Un pugno di film, cortometraggi, pubblicità, video, esperimenti (extra)materia. Rumori fuori campo, rapporti che si sgretolano e si rinsaldano, come in un balletto meccanico. Costruttivista? Magari sulle sponde di un lago, in attesa di un ritorno.



Un piacere per l’affabulazione che si sposa con toni surreali e da black comedy. La vita nella sua totale assurdità. Dai tempi di The Dead Father (1986) e Tales from the Gimli Hospital (1988) a quelli di Archangel (1990), Twilight of the Ice Nymphs (1997) e Dracula: Pages from a Virgin's Diary (2002) si inseguono gli spettri della guerra, la re-invenzione dei miti di un intero immaginario, un universo popolato da femme fatale e corpi in continua mutazione/evoluzione.


La collaborazione con Isabella Rossellini porta in dote al regista canadese il bizzarro, stupefacente, anarchico The Saddest Music in the World (2003) e l’affettuoso My Dad Is 100 Years Old (2005). La nostalgia ammanta Brand upon the Brain (2006) di un candore angoscioso, il ritorno all’infanzia che si fa pressante anche nel successivo My Winnipeg (2007). Ultimo in ordine di tempo, Night Mayor (2009). Presentato al Festival di Toronto, è la storia dell’inventore di origine serba Nihad Ademi. Un uomo osteggiato dalle autorità perché ideatore, con i propri figli, del Telemodium. Un apparecchio che sfruttando la potenza delle aurore boreali di Winnipeg, anno 1939, trasmette in tutto il Canada "every day life for every day people”. Un magma di luci, rumori, immagini e suoni che arrivano nelle teste dei cittadini e vengono rielaborati, filtrati, sminuzzati, deglutiti. Una televisione organica per produrre nuove immagini. Nuova carne. Ademi, aurora, nightmare… Nightmare of Winnipeg!

lunedì 27 dicembre 2010

Dai, Walter. Ultimo minuto





1963. Vittorio Gassman che osanna Pedro ‘Piedone’ Manfredini, storico attaccante della Roma dal 1959 al 1965. Mitico il film di Dino Risi I mostri. Perché il calcio è da sempre croce e delizia dell’Italia, l’unica nazione con 60 milioni di allenatori. Tuttavia, nonostante passioni e clamori, il cinema raramente ha rappresentato con efficacia il mondo del pallone.
1987. Pupi Avati è reduce dal successo di Regalo di Natale e decide di cambiare completamente registro. L’autore bolognese ha affrontato da sempre tutti i generi: l’horror del capolavoro La casa dalle finestre che ridono e Zeder, la commedia grottesca con La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone e Bordella, la sua passione per il jazz con Jazz Band. Nel 1986 collabora con i giornalisti sportivi Italo Cucci e Michele Plastino e realizza Ultimo minuto. Uno dei pochi film sul calcio, forse il solo film sul calcio capace di anticipare gli scandali, i retroscena, le verità, lo squallore dello sport più amato dagli italiani.

Protagonista del film è uno straordinario Ugo Tognazzi, nelle vesti di Walter Ferroni, direttore sportivo di una piccola squadra di provincia che sopravvive alle insidie economiche della serie A. Il nuovo presidente Di Carlo (interpretato dal volto avatiano di Lino Capolicchio) porta una nuova gestione, più spregiudicata, che non contempla i metodi di Ferroni. Il quale è allontanato dalla società, seppure continui a seguirla. I cambi di direzione, allenatori, giocatori non portano risultati, anzi. La presidenza richiama il vecchio direttore, sperando in una miracolosa salvezza. Che arriva appunto all’ultimo minuto, grazie al gol del giovane Paolo Tassoni, ragazzo della Primavera scoperto dall’osservatore Duccio (Diego Abatantuono, lanciato nella carriera drammatica proprio da Avati in Regalo di Natale) e fatto entrare in campo al posto del capitano Boschi (Massimo Bonetti), caduto nel vortice del calcio scommesse e ora inviso anche agli occhi di Marta, figlia di Ferroni innamorata di lui (una giovane Elena Sofia Ricci).


La cosiddetta cupola di Moggi e degli arbitri compiacenti è ancora lontana. Le partite vengono mostrate poco da Avati, tanto che non è mai citata la città della squadra in campo, seppure il colore di maglia bianco rosso e lo stadio indichino chiaramente Vicenza. L’azione è tutta nei gesti di Ferroni: una vita dedicata al calcio, dal lavoro agli affetti. Le ferite del pallone sono vive e pulsanti, la malinconia tipica del cinema di Avati ammanta l’atmosfera torbida del calcio di provincia, tra allenatori incapaci e giocatori venduti, innocenza e malcostume. Prima dei grandi capitali, degli acquisti folli, delle quotazioni in borsa, ci si poteva ancora permettere di gestire una squadra in serie A con metodi spiccioli e quasi dilettanteschi. Tutte le componenti del calcio sono gettate nella mischia, compresi i procuratori, i tifosi, i giornalisti. In questo senso portare sullo schermo anche Aldo Biscardi sa molto di preveggenza per quello che sarà il futuro del nostro pallone.

Il film fu un flop commerciale, a testimoniare la difficoltà del cinema – in particolare italiano – nel rappresentare il calcio. Tuttavia Ultimo minuto è un film rimasto nel cuore e nelle menti degli appassionati di sport e di cinema. Complici anche le musiche di Riz Ortolani e una sceneggiatura lucidissima e nostalgica. Come ha dichiarato Italo Cucci, il personaggio di Walter Ferroni fu ispirato «in parte alla figura di Italo Allodi e in parte a quella del primo Luciano Moggi». Segno di un calcio affarista e traffichino, che cambia rimanendo uguale a se stesso.

sabato 21 agosto 2010

Parolacce che si possono scrivere con una calcolatrice: boobs. Porno, lingue ed evoluzioni


Il mondo è pieno di sesso. Anche se la asexuality tende a prendere piede. I codici linguistici valicano i confini, in numerose circostanze prevalgono fraintendimenti e stereotipi. Soltanto su una forma di rappresentazione del corpo siamo sicuri: la pornografia. Lasciando da parte le valenze di emancipazione (da Linda Lovelace nel Deep Throat di Gerard Damiano fino a Moana Pozzi), il dominio maschilista, le programmatiche strategie di marketing. E anche l’iperrealismo forzato, realtà e verità a tutti i costi (contro cui riscoprire seduzione ed illusione, come nelle “strategie fatali” di Jean Baudrillard). Il corpo è libero, non si può determinare. Così le infinite mutazione del linguaggio, che il porno ingloba, crea e orgasmicamente rigenera. Per favorirne la nuova circolazione.


Una serie di categorie che con un dono di sintesi tanto inventivo quanto limitante racchiude un intero universo. Se agli albori era il Porno-chic (corpi geometricamente perfetti, eleganza patinata, finta classe), oggi la declinazione è vasta e sfaccettata. Buona parte del mercato del porno vive su “classici” come l’anal, l’amateur, il threesome e le pratiche inconfessabili: dalle big butts e big tits (o big boobs, come lo slang vuole) si è passati alle BBW (acronimo che sta per Big Beautiful Woman), alle teen e alle coed (diciottenni e studentesse universitarie), alle hairy (per un ritorno alla natura, contro l’invasivo shaved) e alle mature. Dove la fantasia è limitata dalla presunta oggettività dei fatti (suddividere per colore dei capelli: blonde, brunette, redhead; suddividere per colore della pelle: asian, ebony, european, latina), subentra l’estro, il tocco leggero. È impossibile resistere al fascino di parole tanto magiche. MILF è acronimo di Mother I’d Like to Fuck (seppure ci siano dispute su quella M. - mother o mature?), madre dall’aspetto fisico ancora appetibile, spesso seduttrice del compagno della figlia - il porno vive di situazioni al limite del paradosso. Squirting è una evidente onomatopea dell’eiaculazione femminile, quella che i giapponesi definiscono “shiofuki”. Gonzo e P.O.V. (Point of View) portano l’illusione di realtà alle estreme conseguenze, un impero di immagini che nega l’oggettività (proprio come nel gonzo journalism di Hunter S. Thompson, da cui il termine), perché tutto il filmabile è sotto i nostri occhi. Creampie, facial, cumshots, felching e golden shower sono l’esaltazione del dominio nel fluido corporeo. Gang bang, strt sex e public sono invece sfide contemporanee alle leggi della fisica e della morale.


Lemmi inglesi, spesso coniati negli Stati Uniti negli anni 70, che non hanno corrispettivo in altre lingue. Come i giapponesi gokkun (onomatopea che indica l’ingestione dello sperma) e bukkake, atto di feticismo estremo in cui più uomini eiaculano a turno o insieme su una donna. Colpisce scoprire che in realtà l’uso comune della parola fa riferimento ad un modo particolare di servire la soba, ovvero con la sola aggiunta di brodo caldo. Come a riaffermare la pornografia quale forma giocosa di espressione del corpo in cui realtà e illusione si inseguono e si incontrano.

venerdì 28 maggio 2010

E le tenebre calarono su Roma: Fanta Festival 2010


È iniziato giovedì 27 maggio il Fanta Festival di Roma, Mostra Internazionale del Film di Fantascienza e del Fantastico. Edizione numero 30 aperta martedì 25 al cinema Embassy con la proiezione in 3D di The Hole di Joe Dante e presieduta dagli ospiti d’onore Roger Corman, Daria Nicolodi, Asia Argento, Lamberto Bava, Domiziano Cristopharo e Marco Werba. Una mega maratona tra fantascienza, horror e tutte le declinazioni del fantastico che si concluderà domenica 6 giugno e passerà tra Embassy, Nuovo Cinema Aquila e Sala Trevi. Giovedì 27 l’emozione è stata tanta: dalla sua Factory il mito Roger Corman. Breve incontro e proiezioni di tre suoi capisaldi: L’uomo con gli occhi a raggi X (X: The Man with the X-Ray Eyes, 1963), I maghi del terrore (The Raven, 1963) e Il pozzo e il pendolo (Pit and the Pendulum, 1961).



Nutrita e ricca di chicche anche la retrospettiva dedicata a Ray Harryhausen, produttore e creatore di fantasmagorie eccezionali sul grande schermo. Sarà occasione per (ri)scoprire gioielli spesso dimenticati quali Il risveglio del dinosauro (The Beast from 20.000 Fathoms, 1953 – l’ideazione di Godzilla e della stop motion), la versione colorizzata di La Terra contro i dischi volanti (Earth vs. the Flying Saucers, 1956), Il mostro dei mari (It Came from Beneath the Sea, 1955), L'isola misteriosa (Mysterious Island, 1961) e Scontro di titani (Clash of the Titans, 1981).



Numerose e ghiotte le anteprime. A partire da sabato 29: maratona Dario Argento con Giallo (ancora senza distribuzione, nonostante un cast che comprende Adrien Brody e Emanuelle Seigner), Tenebre (1982) e Trauma (1993). Lunedì 31 sarà la volta di Saw IV e soprattutto di La horde di Yannick Dahan e Benjamin Rocher: presentato come evento speciale alle Giornate degli Autori della Mostra di Venezia del 2009, la pellicola è uno zombie movie che guarda al disagio delle banlieue parigine e alle classiche avventure di buoni & cattivi uniti dall’esclusione sociale.



Altro evento imperdibile il primo giugno con Survival of the Dead del maestro George A. Romero, sesta parte della saga dei morti viventi tra consueti affondi alla società americana, rimandi western, sarcasmo irriverente ed istinti di morte che esplodono.



Da segnalare il comparto delle serie televisive presentato dal Fanta Festival: V-Visitors (venerdì 28); i televampiri di True Blood, Blood Ties e Vampire Diaries (sabato 29); il reboot della serie cult The Prisoner (domenica 30); la mini serie sci-fi The Lost Room (lunedì 31); vecchi episodi autoconclusivi tra itinerari nel gotico e nella fantascienza di FantaRAI e racconti del brivido di HammerTV, con in più l’anteprima di House of the Flesh Mannequins di Domiziano de Cristofaro.



Infine “brividi italiani” al Cinema Trevi dal 3 al 6 giugno grazie a maestri del calibro di Mario Bava (La maschera del demonio, 1960) e Camillo Mastrocinque (La cripta e l’incubo, 1964), oltre a (s)cult nostrani quali Camping del terrore (Ruggero Deodato, 1987) e 7, Hyden Park - La casa maledetta (Alberto De Martino, 1985). Per il programma completo: www.fanta-festival.it.

Che i Diafanoidi possano (ri)condurci su Marte.

giovedì 27 maggio 2010

Strani giorni per i vampiri. Near Dark


Prima di Twilight e della saga di New Moon, prima dei vampiri belli e non più dannati, prima di True Blood, The Vampire Diaries, Supernatural e compagnia televisiva, c’è stata lei. Kathryne Bigelow. Prima di Blue Steel e Point Break c’è Near Dark (Il buio si avvicina). È il 1987 e la giovane regista americana butta giù un copione a quattro mani con Eric Red, già autore del cult horror The Hitcher (1986) e poi dietro la macchina da presa per il meraviglioso (e purtroppo dimenticato) Cohen and Tate (1988, passato in Italia come Le strade della paura). L’horror vive un periodo particolare: Romero è nella fase melodrammatica di Monkey Shines, Carpenter è avvinghiato nella telecrazia anarchica di They Live, Cronenberg lacera la nuova carne della mosca e degli inseparabili Jeremy Irons e Jeremy Irons, il terrore nostrano rantola tra gatti nel cervello e corvi all’Opera. È così che la Bigelow ha un’idea diversa dal solito per il suo primo film: ambientare una classica storia di vampiri con protagonisti adolescenti, belli e dannati, sotto il sole cocente dell’Oklahoma.


Caleb è un belloccio dall’animo ruvido e al tempo stesso gentile: il suo miglior amico è un cavallo. Una sera incontra l’affascinante Mae e per sedurla fa di tutto, compreso donarle il suo collo. Senza sapere che la ragazza è una vampira e fa parte di una stramba combriccola composta da una coppia, Jesse (splendido il volto solcato dalle rughe di Lance Henriksen) e Diamondback, da un sadico sudista psicopatico di nome Severen (un poco credibile Bill Paxton) e da Homer, uomo nel corpo di un bambino. Caleb non vuole uccidere per sopravvivere e soddisfare la propria sete di sangue. Deve farlo quando è rapito dai cinque e costretto a battere le polverose strade degli States in cerca del sacro nettare rosso. Solo l’amore potrà salvare la sua anima, ricondotta sul sentiero della giustezza dalla presenza del padre e della sorellina Sarah, in viaggio sulle sue tracce.


Un intreccio piuttosto banale, condotto con superbo polso narrativo e condito da qualche dialogo illuminante. La Bigelow declina al maschile la classica storia d’amore impossibile, immerge il vuoto ed il buio interiore dei personaggi nell’afosa calura del Texas, gira pagine memorabili di grande cinema quando evoca il primo bacio di Caleb e Mae con un ralenti da brividi e assedia il cerchio dei freak in un motel con la sapienza di un western d’antan. Pulsioni sessuali e voracità di stomaco sono tenute a freno, ci sono altri legami da conservare. Istinti che si gonfiano di paure ed ossessioni, tra tentazioni melodrammatiche e debordanti deflagrazioni action. Un talento visivo straordinario, immerso in luci tipicamente eighties ed imperniato sulla condizione disagiata dell’emarginato, differente per status sociale e scelta etica. Near Dark è anche questo: il corpo del cinema che muta, che ha bisogno d’amore, sangue e violenza per il suo solo scopo. Sopravvivere.

Lasciatevi accecare dalla notte. La sentite? Sarà bellissimo.

martedì 4 maggio 2010

Ci conosci. E noi conosciamo te. Vendicami


Tra Sam Peckinpah, Jean-Pierre Melville, John Woo e Tsui Hark, c’è soltanto Johnnie To. Regista unico per la purezza della sua macchina da presa, occhio che svela traiettorie impossibili (quelle dei proiettili che squarciano corpi e affondano anime) e tortuosi percorsi personali (quelli di estranei che diventano fratelli). Vendicami (Fuk sau, 2009) è la sua ultima opera, presentata al Festival di Cannes 2009 e solo nel maggio 2010 distribuita in Italia da Fandango (nonostante sia stato premiato con il Leone Nero come miglior film al Noir Film Festival di Courmayeur). Un’idea di cinema purissima quella di Johnnie To, che sceglie come protagonista della vicenda il volto di pietra di Johnny Hallyday. Non è un caso che il personaggio interpretato dal rocker francese si chiami Costello, come il Frank “faccia d’angelo” di Melville, Jef le samouraï che fu la faccia malinconica e solitaria di Alain Delon (proprio lui chiamato in origine da To per il ruolo del padre in cerca di vendetta).


Solitudini che si incontrano tra Parigi, Macao e Hong Kong. Senza ritorno. Costello vede la sua famiglia distrutta nel giro di un attimo. Neanche il tempo di un pranzo e tre killer uccidono suo genero e i due nipotini. Non potevano fare altrimenti. La figlia è salva per miracolo. E chiede vendetta. Fino a che punto può arrivare un uomo per soddisfare questa sete? La risposta è nel percorso di purificazione che compie. Prima tappa Macao, per assoldare tre killer spietati, i migliori. Kwai (superbo come sempre Anthony Wang), Chu e ‘Fat’ Lok. «Non esiste solitudine più profonda del samurai, se non quella della tigre nella giungla». Non esiste legame più solido di quello che si viene a creare tra persone che si sono date la loro parola. Sembra di vedere Pike e Deke: «Ha dato la sua parola. Non importa a chi». «Invece importa!». A costo di mettersi contro il proprio capo, il mandante della strage. I tre da braccare sono a Hong Kong. La sparatoria a sette nel bosco è un concentrato di furia visiva da mandare a memoria. Così come la tavola imbandita che scandisce ogni singola azione del gruppo. A riprova della vecchia, consumata, piacevole ossessione che il cinema asiatico (quello di To in particolare) ‘nutre’ verso il cibo.


Un paradosso è la vera natura di Costello: è un cuoco, non tocca una pistola da vent’anni. Perché in passato è stato un killer. Una pallottola gli è entrata in testa e gli causa continue perdite di memoria. Può in tal modo la vendetta avere senso? Certo, finché davanti l’obiettivo passano cubi di spazzatura in un cimitero di oggetti, assurde polariod, occhi languidi, lampi improvvisi di una ‘gunfight’ infinita. Un lirismo dolente e ironico, che si stempera in quattro calci dati ad un pallone in compagnia di un branco di bambini ed in una risata sardonica, liberatoria, davanti ad una ciotola di riso. La pioggia continua a cadere, le nuvole profonde lasciano campo ad una splendida luna, luci ed ombre come i buchi che si riempiono di sangue. Quiete e movimento. Uno spazio colmo di corpi che incarnano un’etica profonda. Quasi impensabile al giorno d’oggi. Come i ralenti che dilatano il tempo e inneggiano ad una notte infinita.
Meraviglioso, folle Johnnie To.

giovedì 4 febbraio 2010

Dal cinema al cinematografo: Avatar


Diciamocelo pure, James Cameron è un autore con “a” minuscola. Creatore di fascinazioni inimmaginabili, produttore di magiche visioni e mondi fantastici. Sempre un passo avanti. Mente dietro i percorsi celestiali di Terminator e Aliens, The Abyss e Terminator 2. Capace persino di ‘andare oltre’ la semplice storia d’amore, naufragando nell’immaginazione tecnologica del Titanic e volando tra elicotteri in fuoco nelle stupidaggini catastrofiche di True Lies. Avatar, quasi dieci anni di preparazione e un battage pubblicitario inusitato, è la sua opera più compiuta. Così come viene spacciata per definitiva da chi la ritiene punto di svolta della Settima Arte. Dalla visione in sala se ne esce frastornati, non soltanto per la magniloquente (e invadente) stereoscopia. Anche perché dopo una mezz’ora gli schermi avvolgenti dei computer, l’ingegneristica spaziale dell’esercito e la Natura incontaminata di Pandora (identica alle opere di Roger Dean, avete presente le copertine dei dischi degli Yes?), lasciano spazio a considerazioni sparse, spesso fastidiose.


Prima osservazione: la sceneggiatura. Avatar è un film banale. Un miscuglio di Balla coi lupi, Braveheart e 300 in salsa sci-fi. Storia semplice e schematica. Jake Sully (Sam Worthington) è un marine senza gambe, fratello di uno scienziato che insieme ad un team capitanato dalla dottoressa Augustine (Sigourney Weaver, che bello vederla fumare a pieni polmoni!) ha messo a punto il progetto Avatar. Programma che consiste nell’infondere vita mentale a dei corpi (gli avatar, appunto) creati ad immagine e somiglianza dei Na’vi, popolazione che abita il pianeta Pandora. Tutto bene fino a quando non si scopre che l’albero sacro dei Na’vi risiede su un giacimento che vale tutta l’energia dell’universo. Da qui le lunghe mani del governo e dell’esercito per far infiltrare Sully e “convincere” i nativi a “donare” tale ricchezza. Ovvio che il contatto con persone dall’animo così puro sarà per il giovane soldato occasione per rinascere a nuova vita e combattere per la liberazione di quello che ritiene il suo nuovo mondo. Viva la pace e la cooperazione tra le genti, seppure serpeggi certo eroismo made in Usa e sia sempre tempo d’eroi (americani). Vicenda piatta come i personaggi dunque, con buona pace dei riferimenti all’attualità socio politica statunitense (ovvero globale) e delle risonanze simboliche (panteismo e animismo di riporto) che lasciano il tempo che trovano. Tanto che l’unico carattere ad emergere prepotente è il più disgustoso, quel colonnello Quarich interpretato da Stephen Lang che è tutto azione e reazione. Coinvolge dal primo all’ultimo sguardo. Tagli, graffi e fratture compresi.


Detto della sostanza, resta la forma. Il 3D è un giocattolo incredibile. L’immersione nella profondità della visione è qualcosa di sbalorditivo. Una impressione di realtà e fantasia mai vista prima. I colori, le piante, gli animali, i movimenti. Persino le traiettorie dei proiettili. E allora quasi si giustifica la semplicità del soggetto: l’occhio è così attratto e “distratto” che raramente giungono il tempo ed il modo per pensare ad altro. D’altronde nella mitologia non c’è spazio per le sfumature. Tuttavia, ben presto emergono i dubbi. Il mondo tridimensionale è la vera rivoluzione del cinema? No. Almeno se in futuro non sarà supportato dalla dovuta ‘polpa’ narrativa. La Pixar lo insegna nell’animazione. La novità reale sarà raccontare una storia con un mezzo simile. Avatar sembra piuttosto l’investimento delle major per combattere la pirateria e riportare le persone (soprattutto i ragazzi) al cinema. Per dirla con Edgar Morin, un ritorno dal cinema al cinematografo. Una fantasmagoria dal sapore ottocentesco, come il famoso treno dei Lumière che faceva scappare dalle sale le persone impaurite. Ma Avatar è – almeno in Italia – anche la rappresentazione della tragedia antropologica e sociale che viviamo in questo primo decennio del 2000. Orde di ragazzini infarciti di hot dog, coca cola e commenti stupidi; mamme e papà che non riescono a tenere a freno le invadenze di bambini maleducati; persone che non entravano in una sala da almeno vent’anni; applausi a fine proiezione, modello viaggio in aereo; adolescenti che escono dalla visione con gli occhiali 3D e li ritrovi così per strada o in tram. Dispiace pensare che questo sia un baraccone che produce spettacolo. Puro fumo negli occhi. Non certo il Cinema.
Ad applaudire rimangono soltanto gli esercenti, che con 10/15 euro a biglietto si fregano le mani ghignando con un paio di occhialetti griffati.

giovedì 7 gennaio 2010

Institute of Contemporary Arts : Music : Recording Studio: Alexander Tucker


Institute of Contemporary Arts : Music : Recording Studio: Alexander Tucker

Un genio della musica contemporeanea: Mr. Alexander Tucker. Per comprendere in pieno il suo concetto di musica, si consiglia l'ascolto di Old Fog (2005), Furrowed Brow (2006) e soprattutto Portal (2008). In attesa del nuovo lavoro con il progetto Alexander Tucker and Decomposed Orchestra.
Musica cinematica, lunare polverosa e intimista.

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