find the path

martedì 30 ottobre 2007

Ritratto di famiglia in un inferno. Il calamaro e la balena


Il Sundance Film Festival ha senza dubbio tanti meriti: promuove il cinema indipendente, lancia giovani autori, opera in quella dimensione autoriale dell’industria americana che cerca di tenersi a dovuta distanza dal modello (di frequente ingombrante) hollywoodiano. Tuttavia un conto è avere una idea, un conto realizzarla. Ci sono centinaia di film ‘di genere’ con quantità di cervello e coraggio elevatissime rispetto a certi risultati pretenziosi che chi opera spalle al mainstream spesso ottiene. Basta prendere Little Miss Sunshine (Jonathan Dayton e Valerie Faris, 2006) come esempio. Non un brutto film, anzi. La definizione appropriata è ‘carino’. Simpatico, acuto, umano. Tutto questo senza però essere in pieno graffiante. È una certa onestà che manca. Detto questo, il tema centrale della pellicola è una famiglia disastrata di loser. Argomento che a quanto pare attira molto gli autori più indie. E ha già dato esiti splendidi grazie a Todd Solondz (Welcome to the Dollhouse, 1996; Happiness, 1998; Palindromes, 2004), Neil LaBute (In the Company of the Man, 1997; Your Friends and Neighbours, 1998), Wes Anderson (The Royal Tenenbaums, 2001; The Life Aquatic with Steve Zissou, 2004) e il promettente Jason Reitman (Thank You for Smoking, 2005; Juno, 2007).


Il calamaro e la balena (The Squid and the Whale, 2005) di Noah Baumbach – giunto dopo Kicking and Screaming (1995), Mr. Jealousy (1997) e Conrad & Butler Take a Vacation (2000) – può iscriversi appieno a questo registro. Film piccolo, intenso, breve, essenziale. Anche terribile. Perché il ritratto di famiglia che ne viene fuori è infernale. Marito e moglie sono due scrittori benestanti, lui snob in crisi creativa, lei in piena ascesa verso il successo. Divorziano, chi ne fa le spese sono i figli. Il maggiore vive un’adolescenza inquieta nell’ombra del padre, tra pulsioni, ricordi e desideri che non riesce a soddisfare. Il minore invece (legato alla mamma) è il fulcro del film, un ragazzino acido, aggressivo e confuso, che tenta di scoprire tutti gli istinti umani: bere birra e whisky, sfidare il totem paterno, masturbarsi e cospargere di sperma libri e armadietti della scuola.


Una sorta di mostro generato dalla falsità di una borghesia intellettuale ipocrita, emotivamente instabile, lacerata nel suo (dis)farsi. Come talento sprecato, cercato, mai avuto. Non quello dei filistei ma neanche quello di chi a Short Circuit preferisce Blue Velvet e dopo un semi infarto cita Godard. Ecco perché Walt pensa che nessuno se ne accorga se per un compito a scuola copia Hey You dei Pink Floyd spacciandola per una sua canzone. Tutto è ossessione, specie quando si parla di sesso, il traino del film. Elemento che unisce, disgrega, ammalia, ipnotizza, fa crescere. Come le ottime interpretazioni degli attori, da Jeff Daniels e Laura Linney ai giovani Jesse Eisenberg e Owen Kline.

Ah, Il calamaro e la balena ha vinto i premi per regia e sceneggiatura al Sundance 2004. Ed è stato prodotto da Wes Anderson. Il cerchio si chiude.

venerdì 26 ottobre 2007

Welcome to Tromaville, movies of the future!


Allora, la ricetta è semplice: prendere l’horror caciarone e splatter, sbucciarlo, pestarlo e condirlo con una estetica trash. Aggiungere umorismo scatologico della peggiore specie, cattivo gusto, scorrettezza e amenità varie. Trovati gli ingredienti il piatto è pronto. Condizione fondamentale: servire su un vassoio di sfrontata, libera, assoluta anarchia. Perché solo così si possono descrivere i film della Troma, storica casa di produzione indipendente americana fondata nel 1974 da Lloyd Kaufman e Michael Herz. Due pazzoidi che con pochi dollari in tasca (un po’ come Frank Henenlotter per Basket Case, 1982, tanto per intenderci) si mettono in testa l’idea dell’auto produzione e fondano un immaginario per grandi e piccini destinati a crescere con sangue, piscio, figone semi nude, sostanze appiccicose, rock’n’roll e un sense of humor demenziale a dir poco bizzarro.


Dalla metà degli anni ’70 una lista sterminata di film, la coscienza scura degli Usa: marrone come la merda, verde come i dollari del grande capitale, nera come i suoi super eroi. Degli idioti in piena regola, perché in un mondo come quello odierno ci vuole poco per essere uomini superiori. L’olimpo della Troma è fantastico: il mito è Toxie, il nerd bitorzoluto con il mocho (The Toxic Avenger, 1985, diventa fenomeno di culto, generatore di tantissimi sequel, programmi televisivi, fumetti e gadget a non finire), costellato di altrettanti epigoni disgustosi come Kabukiman (cui i registi dedicano Sgt. Kabukiman N.Y.P.D., 1991), drogati e ritardati. La demenza non ha fine quando nel 1986 Kaufman si fa aiutare da Richard W. Haines e realizza Class of Nuke 'Em High (conosciuto anche come Atomic High School), apologia del kitsch applicata alla fantascienza horror apocalittica. Un impianto in cui la definizione ‘politicamente scorretto’ non è mai stata così appropriata. Tanto che Kaufman inizia a prenderci gusto e scomoda Shakespeare in un altro dei suoi capolavori, Tromeo & Juliet (1996). Un calderone grottesco e pop dove trovano posto tragedia ridicola, horror trash, iconografia metal (non a caso ci sono sempre camei di personaggi di culto tipo Lemmy dei Motorhead, in questo caso voce narrante), situazioni assurde, penetrazioni anali, masturbazioni, arti e corpi mozzati allegramente.

Insomma, film oggettivamente brutti, mal scritti e realizzati peggio (forse tra gli altri si salva per pregi di regia e sceneggiatura giusto Terror Firmer, 1999, una sorta di auto celebrazione meta narrativa). Ricchi però di energia, con messaggi sorprendentemente seri confusi tra schizzi di cervello e testicoli (Troma's War, 1988, fece molto scalpore ed ebbe gran successo in America per la presa di posizione anti reaganiana). Per capire di cosa stiamo parlando si consiglia l’ascolto dei Motorhead e la visita al sito www.troma.com

mercoledì 24 ottobre 2007

Del western. 3:10 to Yuma


Il western è la lucida ossessione del cinema americano. Non stiamo parlando di un semplice genere, bensì del genere per eccellenza. Forma archetipica, luogo di creazione e gestazione di memorie, miti e riti. Come un ciclo di vita che mai si esaurisce, un flusso unico, senza soluzione di continuità, capace di esprimere noi stessi in diverse fasi del nostro divenire. Dalla svolta acida e graffiante degli anni '60/’70 (quella che da Ford e Hawks portò a Peckinpah, Aldrich, Fuller, Hellman, Boetticher, Pollack, fino allo spaghetti di ascendenza leoniana), sembrava difficile uscirne. E invece. Invece ci si è ritrovati con Clint Eastwood che passa dietro la macchina da presa e realizza opere crude e maledette (basta pensare a Josey Wales, Il texano dagli occhi di ghiaccio, 1976, o al sommo Unforgiven, Gli spietati, 1992). A campioni della ripresa e del nuovo immaginario come Walter Hill e Sam Raimi (ma molte delle opere di John Carpenter e Michael Mann non sono forse dei western camuffati?) che omaggiano ciò con cui sono cresciuti (The Long Riders, I cavalieri dalle lunghe ombre, 1980; Geronimo, 1994; Wild Bill, 1995; The Quick and the Dead, Pronti a morire, 1995). Per giungere al divo Kevin Kostner che si cimenta con successo nell’inedito ruolo di regista (Dances with Wolves, Balla coi lupi, 1990; Open Range, 2003).


Il nuovo millennio doveva prima o poi offrirci un ritorno al mito della Frontiera. Se già in precedenza lo spazio del West si inscriveva in una nuova dimensione a-storica, visionaria e infernale (Dead Man, Jim Jarmusch, 1995), ora pare riscrivere se stesso nell’alveo del rifacimento. Una estetica che frulla passato e presente, realtà e immaginazione. Takashi Miike si presenta a Venezia 2007 con il remake di Django (Sukiyaki Western Django, 2007), Andrew Dominik rilegge le avventure di Jesse James con la star Brad Pitt (The Assassination of Jesse James by the Coward Robert Ford, 2007), James Mangold (già apprezzato per Walk the Line, 2005, biografia di un altro cantore d’eroi ed epiche gesta, Johnny Cash - ascoltate The Last Gunfighter Ballad e vi ritroverete ad essere un loser di frontiera) si tuffa tra polveri e cieli immanenti con il remake di 3:10 to Yuma (Quel treno per Yuma, 2007). L’originale di Delmar Daves (anno 1957) era uno scontro di psicologie, un avanzare d’azione e dinamiche morali. Nell’incontro/scontro tra Ben Wade (Glenn Ford) e Dan Evans (Van Heflin) c’era tutta la dimensione etica, valorosa, ero(t)ica di due universi in collisione e reciproca scoperta. Quello di Wade (bastardo capobanda dall’innegabile appeal) e quello di Evans (onesto padre di famiglia dal profondo senso della giustizia, che accetta di scortare il fuorilegge fino al famoso treno pur di avere i soldi necessari a sopravvivere).


Mangold, con la collaborazione degli sceneggiatori Halsted Welles, Michael Brandt e Derek Haas, resta piuttosto fedele al testo originario di Elmore Leonard. Inserisce le giuste variazioni (le vicissitudini di William, figlio di Dan; il finale modificato) ma si scopre soprattutto regista di contrasti. Prende due attori di grido (gigione Russell Crowe; bello e bravo Christian Bale), una serie di comprimari di lusso (su tutti il mito Peter Fonda, uomo dei Pinkerton), li subissa di primi, primissimi piani e dettagli, che alterna con carrelli puliti, coinvolgenti scene d’azione, esplosioni primordiali, un certo piglio sanguinolento, placide pause notturne, dialoghi delicati, tensione omosessuale, un pizzico d’ironia e citazioni divertite (come chiamare gli assistenti dello sceriffo Henry Hathaway e Sam Fuller). Ne esce un concentrato pop di tutto, del western classico e di quello anti degli anni ’60 e ’70, del mutamento degli ’80 e ’90 e dell’horror vacui di oggi. Un film che accentua ulteriormente le motivazioni dei protagonisti e le dilata al massimo. I rapporti tra padri e figli, il progresso invasivo che avanza implacabile, le ragioni del male e le incongruenze della giustizia, l’eroismo e la vigliaccheria, la sete di ricchezza e la voglia di tranquillità. Insomma, un western che ci parla di oggi, come di ieri. Che ci immerge nei resti, nelle radici della nostra cultura. Perchè <<questo elemento geologico è forse l’ultimo ancoraggio ad una radice che possa accogliere il fuoriuscito dalla civiltà, prospettandogli una porta d’accesso, che sta però oltre il film stesso.>> (Gino Frezza, Dal mito alla geologia del West, in Fino all’ultimo film, Editori Riuniti, 2001)

domenica 21 ottobre 2007

La Vergine Noir


Julie Kohler è “morta”. Il suo ciclo vitale interrotto nello stesso momento in cui la propria attesa principale, trascorrere la vita al fianco di David, le viene negata. L’omicidio del marito si consuma sulle scale della chiesa appena dopo la celebrazione del matrimonio. I responsabili sono cinque uomini che giocando con un fucile carico, commettono il crimine in via del tutto accidentale. Da quel momento in poi l’esistenza di Julie è bloccata. E come un angelo con gli occhi fissi al passato, non potrà fare altro che infliggere il suo castigo.


Gelida, si posa sullo schermo con indosso i vestiti di Pierre Cardin. Lei non si sporca mai, né si fa mai toccare. Ed è come se la vita stessa non potesse più raggiungerla, né sporcarla. È una femme fatale, che “divora” gli uomini, ma lo fa con i guanti. La sua femminilità seduce e disarma. L’attrazione irresistibile per il fascino mortale di Julie immobilizza le sue vittime nella ragnatela. La Vergine (poiché probabilmente lei è anche questo) supplisce con il piacere di uccidere, quello sessuale che non potrà più provare.
È il 1967 quando François Truffaut gira La Mariée était en noir. Il giovane cineasta francese della Nouvelle Vague, nel pieno del suo periodo hitchcockiano, sceglie di trarre il soggetto del film dall’omonimo romanzo di Cornell Woolrich scritto nel 1940.


La sposa in nero è un film chiuso e claustrofobico e riesce a esserlo anche durante le sequenze en plain air, persino quando la macchina da presa segue la sciarpa bianca in una panoramica di Cap d’Antibes. Così la sensazione è che tutto sia cristallizzato, bloccato nel ghiaccio che Julie sprigiona. Le persone, gli oggetti “non aspettano altro” che quello che deve accadere si compia, e quello che deve compiersi è una vendetta totale senza alcuna possibilità di sopravvivenza.

sabato 20 ottobre 2007

L'Uomo "inutile" di Sorrentino


L’uomo in più (Paolo Sorrentino, 2001) è decisamente un film triste. Ma è anche degno. In molteplici aspetti. I personaggi sono degni. Uomini sani, nonostante tutto. Nonostante uno dei due protagonisti, sia un cocainomane cronico: <<Sono trent’anni che la tiro […] Del resto chi non l’ha tirata in questi anni di merda? Chi è che non l’ha fatto? Soltanto i poveri non l’hanno tirata. E non sanno cosa si sono persi>>: Tony Pisapia famossissimo cantante pop, idolo di un pubblico borghese e benpensante.


Un cocainomane che neanche si era accorto di star scopando una ragazzina. E che per questo viene accusato di violenza su minore. L’ambiente dello spettacolo lo emargina immediatamente, anche se giudicato innocente al processo. La veneratissima star cade in completa disgrazia. I riflettori adoranti a cui sfuggivano i lati ombra di Tony, ne mettono successivamente in luce le vergognose debolezze. Nonostante tutto, però, il personaggio rimane comunque davanti agli occhi dello spettatore, un uomo degno: <<Io ho sempre amato la libertà e voi non sapete neanche che cazzo significa. Io ho sempre amato la libertà. Io sono un uomo libero>>.
L’altro protagonista, l’altro Antonio Pisapia, è un bravo e famoso stopper. Un uomo fondamentalmente onesto con il sogno di diventare allenatore. Un uomo al quale - dopo aver rifiutato di vendersi in una partita di campionato - vengono lesionati i legamenti da un compagno di squadra in allenamento. Anche la sua di carriera è troncata bruscamente. E anche lui verrà completamente allontanato dall’ambiente calcistico: <<Anto’, io ti debbo dire quello che penso - gli confessa il presidente della sua vecchia squadra, dopo avergli fatto mille promesse sulla possibilità di essere assunto nella società - Penso che il calcio sia un gioco e che tu sia un uomo fondamentalmente triste>>.


Dialoghi validi con punte di vera e propria bellezza del testo. Regia coraggiosa. Sorrentino va oltre e riesce a tirarsi fuori dalle classiche immagini in movimento della scuola cinematografica (all’) italiana.
Il regista dispone in modo diverso e nuovo i carrelli, i pianosequenza, i primi piani. E anche se forse rispetto a questi ultimi rischia di essere un po’ troppo prodigo, quello del monologo di Tony, ospite della trasmissione televisiva dedicata ai divi in disgrazia, è un tocco di classe semplice quanto astuto: maestoso il volto di Servillo, imponendosi con la sua affascinante e perfetta maschera attoriale domina lo schermo, la situazione e gli spettatori.
Sorrentino, dicevamo, è un regista nuovo rispetto al modo di usare la Macchina da Presa in Italia. Diverso, invece, è il discorso che va fatto circa i temi dell'autore partenopeo. Il luogo, infatti, dove la sua vecchia italianità persiste, si trova proprio nei contenuti.


I suoi film uno dopo l’altro non fanno altro che parlarci di emarginati invisi alla collettività. Personaggi immersi in una personalissima solitudine: divi decaduti (L’uomo in più), professionisti costretti a vendersi alla mafia (Le conseguenze dell’amore, 2004), usurai intenti ad accumulare ricchezza (L’amico di famiglia, 2005). Storie tristi, sempre storie tristi che seppur narrate con maestria, lasciano negli occhi un sapore già sentito, già visto. È il retrogusto ancora troppo italo-familiare del neorealismo. Quello di Sorrentino è una sorta di neorealismo intimista. Con le sue pellicole sentiamo la stessa qualità di pena che provavamo quando Umberto D (Vittorio De Sica, 1952) apriva la mano per chiedere l’elemosina, la stessa qualità di pena che sentivamo nei confronti del padre umiliato dalla folla davanti agli occhi del figlio (Ladri di biciclette, Vittorio De Sica,1948).


Massimo rispetto per i drammi umani e per il modo gentile con cui sono trattati dai nostri grandi registi (passati e presenti). C'è solo una obiezione che mi preme opporre: sono sessant’anni che la maggior parete delle buone pellicole italiane ruotano - nei contenuti - intorno ad una pena umanista. E quindi mi chiedo: non è forse venuto il momento di non far più provare la suddetta pena allo spettatore mentre guarda un nostro film?
Non dico di dimenticare il neorealismo, dico solo: non nominiamolo più!

mercoledì 17 ottobre 2007

La pura forma del noir. Brivido caldo


È divertente analizzare la nascita di Brivido caldo (Body Heat, 1981). Lawrence Kasdan prima di sfondare come sceneggiatore è un giovane studente di cinema, che da ragazzo è divorato dalla passione per i romanzi di Raymond Chandler, Dashiell Hammett, Mickey Spillane, James M. Cain e Jim Thompson. Di conseguenza per le trasposizioni cinematografiche che negli anni Hollywood ha prodotto da tali opere (pensiamo a certi film di Howard Hawks, John Huston, Robert Siodmak, Otto Preminger). Il noir nella sua pura forma, quello di La fiamma del peccato (Double Indemnity, 1944), Il postino suona sempre due volte (The Postman Always Rings Twice, 1946) e Il grande sonno (The Big Sleep, 1946), tanto per intenderci. Kasdan prepara un saggio universitario e cosa fa? Prende tutte le funzioni narrative classiche del genere, le convenzioni, gli archetipi e stereotipi. Li ammanta di un tessuto espressivo tipico di quegli anni (i plastificati ‘80) mischiando però le carte. Un po’ come facevano i gruppi garage psych del Paisley Underground che tra il 1982 e il 1987 riprendevano lo stile di The Byrds, Quicksilver Messenger Service e Buffalo Springfield (riscoprire gente come Dream Syndicate, Green On Red, The Steppes e Thin White Rope per capire di cosa stiamo parlando).


Ecco dunque la classica vicenda torbida condita con ampie dosi di cinismo. C’è un avvocato rampante che vive in Florida ed è attratto in maniera incredibile da una donna bellissima incontrata per caso (?). Ovviamente ricambiato. Iniziano a frequentarsi, incontro dopo incontro, sesso su sesso. Fino a quando la misura è colma e lei (la dark lady Matty Walker) non riesce a convincere il suo amante di adottare una soluzione finale: eliminare suo marito. Mai fidarsi in pieno però…

I personaggi del film (e dimenticare le interpretazioni di William Hurt e Kathleen Turner è impresa difficile) sono mere pedine, vittime inconsapevoli di un gioco creativo. Artefici e prede di un destino beffardo, che delle loro vite se ne fotte. Il demiurgo Kasdan mostra di avere polso, avvincente senso del ritmo, una regia chiara, classica. Soprattutto a differenza di tanti altri cineasti della sua generazione che si sono confrontati in modo particolare con il genere (pensiamo ai fratelli Coen o a Michael Mann), realizza un’opera teorica. A living theory, verrebbe da dire. E poco importa di quale sarà il presente o il futuro dei suoi protagonisti, perchè sono l’intreccio, la rappresentazione delle passioni, gli andirivieni della storia ad esplodere in primo piano. Un laboratorio di immagini che cita e pensa a sé stesso, fregandosene di umanesimo, speranza, morale.

Ah, bisogna anche dire che la scena di sesso tra Ned e Matty è una delle più torride e sensuali di tutta la storia del cinema.

lunedì 15 ottobre 2007

Ma che bella famigliola! Happiness


Welcome to New Jersey, the Garden State. Happiness (1998), opera seconda di Todd Solondz dopo l’esordio Welcome to the Dollhouse (Fuga dalla scuola media, 1995), ci prende per mano e ci porta in questa sorta di nuovo paradiso. Colori sgargianti, volti allegri, piccoli e graziosi appartamenti, piscine e donne in bikini. Tutto molto bello, almeno in apparenza. Perché dietro la scorza luminosa, perbene, familiare, si nasconde un universo cupo. Davvero raggelante. Roba da non crederci, proprio perché così ‘vera’. Ritratto di famiglia in un abisso, è questo ciò che verrebbe da dire. C’è una coppia di anziani coniugi. Lui (splendido Ben Gazzara) è arrivato ai sessantacinque anni e ha un solo desiderio: stare solo. Per sempre. Lei va avanti col valium e fa fatica a comprendere cosa passi nella testa del marito.


Hanno tre figlie. Una (Lara Flynn Boyle, intenso volto/corpo lynchiano) scrive dozzinali romanzi erotici, in realtà ha una totale mancanza di sentimenti che la divora. Ed è l’oggetto delle fobie di un vicino laido, un ansimante e sudaticcio impiegato (bravo come sempre Philip Seymour Hoffman). La maggiore pensa di avere tutto, di sapere tutto. Senza notare le proprie di inquietudini e dando la colpa ai cartoni animati giapponesi e alla droga se le cose non vanno bene. La classica donna perfetta della middle class. Ha due figli adorabili e un marito psicanalista (a dir poco alieno il volto di Dylan Baker), con sogni inquietanti e mai sopite passioni sessuali per i bambini (quando con sottofondo musicale struggente ammonisce il piccolo Billy “riuscirai a venire un giorno o l’altro, te l’assicuro!”, si ride di brutto). La terza figlia ha un nome che è un programma: Joy. Scrive pessime canzoni, non ha un lavoro fisso e neppure un uomo. Il suo precedente fidanzato si è suicidato, quello con cui riesce a fare sesso è un immigrato russo che le fotte lo stereo, la chitarra e mille dollari.


Frammenti di vita quotidiana, che Solondz tratteggia con feroce, acida, sana cattiveria. Parlando di sesso, perversioni, omicidi, turbamenti, pedofilia, scossoni emotivi. Come avrebbe fatto Robert Altman se fosse stato legato stretto e imbevuto nell’acido muriatico. Si ride a denti strettissimi, si piange dentro, ci si lacera per i toni e i modi. Schietti, volgari, sinceri. In una sola parola, reali. Più veri del vero. Ma senza dolersene e senza apparire paradossali. Contro il finto, plastificato perbenismo. Perché in una società che ha istituzionalizzato, razionalizzato i sentimenti c’è bisogno soltanto di contatti. Contatti umani. Che siano quelli di un ragazzino, una scopata alla buona, una telefonata da maniaco o dormire sereni, placidi nello stesso letto. Importa davvero poco.

Happiness where are you?

sabato 13 ottobre 2007

Vado al Max. Masters of Horror I.II


Seconda tranche di episodi della serie tv Masters of Horror trasmessa da Sky Cinema Max. Il prodotto creato da Mick Garris ci ha donato mini film davvero interessanti dei quali abbiamo parlato in precedenza (non smetteremo mai di glorificare la bellezza di Cigarette Burns di John Carpenter), mentre in questa parte di programmazione (ricordiamo, ancora prima stagione) il livello si è leggermente abbassato. D’altronde eguagliare maestri come Carpenter, John Landis, Joe Dante e Dario Argento è piuttosto difficile… Ma procediamo con ordine.

Esordio di questa fase è Dreams in the Witch House di Stuart Gordon, che si rivela anche uno dei migliori episodi. Gordon (apprezzato per Re-Animator - 1985 - e Dagon - 2001 -) gira infatti un horror vecchio stile, legato alla metafisica lovecraftiana, fatta di creature inquietanti e misteriose, varchi spazio temporali e incursioni nei meandri oscuri del nostro essere. La vicenda è quella di Walter Gilman, studente in cerca di una tranquilla abitazione per completare i suoi studi di fisica quantistica. La casa che trova è sudicia tuttavia ideale, salvo una presenza minacciosa che si manifesta attraverso le pareti della sua stanza. L’orrore quotidiano è quello della mente, il corto circuito che si crea quello tra realtà, raziocinio, immaginazione. Stuart Gordon è un regista abile, gira con scioltezza e pesca un paio di soluzioni realmente paurose (l’uomo topo su tutti).

Secondo episodio trasmesso è Incident On and Off a Mountain Road di Don Coscarelli. Coscarelli è un bravo regista, ci auguriamo infatti il suo Bubba Ho-tep (2002) venga presto distribuito in dvd. In questa circostanza adatta un romanzo breve di Joe R. Lansdale (l’unico scrittore rimasto capace di nutrire di macabro l’immaginario americano). L’occasione poteva essere ghiotta ma risulta riuscita in parte. Ciò che convince è la messa in scena, il ritmo narrativo che con ottime trovate visive prende alla gola e assale (e il personaggio di Moonface rimane stampato nella mente). Ciò che delude è la scelta degli attori (pessimi, a parte il vecchio interpretato da Angus Scrimm) e un certo appiattimento verso standard smaccatamente televisivi (ok, parliamo di prodotti per la tv ma come mai con gli altri autori non si notava?). Detto questo, nella vicenda di Ellen (donna sposata ad un uomo esaltato con la passione per le armi e la sopravvivenza estrema, che rimasta in panne con l’auto diviene vittima di un mostro maniaco) traspaiono echi di tremenda attualità. L’ansia del disastro imminente, la mostruosità della normalità, la guerra dei sessi, l’incontro/scontro città/provincia, la paura dell’altro, dello sconosciuto. Domande e riflessioni che Lansdale elabora da sempre nelle sue opere.


Terzo mini film è Chocolate di Mick Garris. Apprezziamo Garris per lo sforzo produttivo che fa (è lui ideatore e produttore della serie), per la libertà che dà a tutti gli autori. Come regista però – e dispiace dirlo – fa davvero schifo. Chocolate è il peggior episodio visto: banale, prevedibile, piatto, senza sussulti. Giusto qualche guizzo sanguinolento ma è poca cosa. Una regia dozzinale e soprattutto una recitazione disastrosa che rende il tutto ancor meno credibile. La storia è infatti quella di Jamie, un ragazzo che testa e inventa essenze. Lasciato dalla moglie, inizia ad avere una sorta di esistenza parallela vivendo nel proprio corpo le esperienze (fisiche e psichiche) di una donna. Niente di che insomma, ci auguriamo Garris in futuro riveda le proprie scelte e faccia di meglio.

Uno dei prodotti più riusciti è invece Pick Me Up di Larry Cohen. Il regista è poco noto qui in Italia, negli Usa ha un discreto seguito che si è guadagnato grazie a splatter intelligenti come It’s Alive (1974) e Q The Winged Serpent (1981). Questo episodio riesce a trasmettere un forte senso di inquietudine e soprattutto gioca una carta fondamentale: l’ironia. Nella recitazione (il camionista Jim Wheeler con la faccia malsana di Michael Moriarty è impareggiabile), nella realizzazione, nelle tematiche trattate. E lo fa concedendosi anche poco al gore. Un bus resta in panne su una desolata strada di montagna, i passeggeri saranno vittime della competizione tra due maniaci. Cohen mischia slasher e horror classico, cita Duel (Steven Spielberg, 1971) e The Hitcher (Robert Harmon, 1986) e dice un paio di scomode verità sulla società odierna. Dov’è la (a)normalità? Nella normalità? Cosa succede se il cacciatore diventa preda? E se la preda sfida il cacciatore? Nella competizione non restano altro che brandelli di carne umana. Come il finale beffardo e divertentissimo ci illustra.

Ultimo degli episodi programmati è Haeckel’s Tale, mini film che segna un grande ritorno, quello di John McNaughton. Regista rimasto nel cuore di tutti gli amanti dell’horror per il suo cult movie Henry: Portrait of a Serial Killer (Henry pioggia di sangue, 1986). In questo caso gli ingredienti per un successo c’erano tutti: patrocinio di George Romero (che avrebbe dovuto girare personalmente il film), soggetto tratto da Clive Barker, sceneggiatura di Mick Garris. Compito ingrato dunque, svolto infatti con diligenza e senza particolari guizzi. La vicenda di Haeckel (studente di medicina pronto ad affrontare diverse peripezie pure di raggiungere il suo obiettivo scientifico, far rivivere i morti) narrata da una anziana negromante ad un giovane rimasto vedovo, tende a ricreare le atmosfere brumose e oscure dei vari Poe, Lovecraft e Shelley. Moderno Faust, Ernst Haeckel vive quest’ansia con insana ossessione. L’ambientazione ottocentesca in realtà mal si sposa allo stile crudo, diretto, quasi documentaristico che aveva fatto la fortuna di McNaughton. Così escluso qualche particolare (la fotografia di Attila Szalay, l’interpretazione ‘fisica’ della bellissima Leela Savasta) il progetto non rende quanto dovrebbe e nel finale annega nella banalità quando si tratta di tirare le fila del racconto.

Peccato, perché le premesse erano davvero ghiotte. Va comunque riconosciuto ampio merito a Garris per averci donato un po’ di sano gore che in tempi di magra cinematografica tanto ci mancava. E lode anche a Sky per aver programmato la serie senza problemi, in prima serata. Ora attendiamo soltanto la messa in onda di Dance of the Dead di Tobe Hooper e soprattutto Imprint di Takashi Miike, uno dei pochi che quando ci si mette sa davvero far tremare vene e polsi. Chi ha visto Audition (Oodishon, 1999), Ichi the Killer (Koroshiya 1, 2001) e Gozu (Gokudo Kyofu Daigekijo: Gozu, 2003) sa di che stiamo parlando.

martedì 9 ottobre 2007

LA POSTA DEL CUORE: lettera a Ferzan Ozpetek


Caro Ferzan, i tuoi film mi piacciono. Ho apprezzato tantissimo le atmosfere di Il bagno turco (1997) e Harem Suare (1999), le profonde riflessioni su armonia e diversità di Le fate ignoranti (2000) e La finestra di fronte (2003), il sincero umanesimo di Cuore sacro (2005), che poi credo sia la tua opera più riuscita (nonostante quando affermo questa impressione in molti dicono sia una mia caduta di stile).


Saturno contro (2006) non l’ho ancora visto, lo farò presto. Ora, la mia domanda è: perché ti circondi sempre dei soliti attori? Perché sono i tuoi amici? Lo capisco, però è un rischio. Per carità, il mondo del cinema è pieno di registi e dei loro attori feticcio. Ma il tuo caso è strano. C’è questo alone queer/alternative/radical chic/evvivailnuovocinemaitaliano/quantosiamobravi&belli che noi snob pretenziosi (o libere persone comuni) un po’ odiamo. Ci sono i bravi attori (Margherita Buy, Pierfrancesco Favino) che rischiano di rimanerne schiacciati. Ci sono quelli sopravvalutati (Mr. "tù gust is megl che uan" Prove di abbordescion e Abbordescion), che piacciono tanto al pubblico e ne traggono ingiustamente giovamento. Se poi ci metti in mezzo pure Zampaglione siamo cotti. Fai attenzione Ferzan, mica vorrai finire per essere cool come Muccino?? Noi vogliamo credere in te. È già così difficile farlo per il cinema italiano…

lunedì 8 ottobre 2007

Forma Ferma


E ora qualcosa di completamente diverso. Quentin, Robert , ora vogliamo qualcosa di completamente diverso. Voi lo sapete ci piacete, ci piacete moltissimo. Riconosciamo senza tentennamenti la vostra bravura, la vostra maestria (soprattutto quella di Quentin) nell’adoperare la fantasmagorica MdP. Lo stile, la Forma (e da qui in poi mi rivolgo solo a Quentin), rasenta la perfezione; questa Forma è lì davanti ai nostri occhi chiara. Si è data a noi direttamente quasi da subito lungo tutti gli anni novanta proseguendo fino a questi ultimissimi anni, quelli finali di un altro decennio. In parole povere sono passati vent’anni, che, caro Quentin, adoriamo le tue immagini, le tue inquadrature, le soluzioni che trovi per realizzare una ripresa; ma è anche vero che è passato un ventennio dacché ti stai Divertendo col tuo Giocattolino.


E senza dubbio ci siamo Divertiti tantissimo anche noi. Però la saggezza popolare impone la regola, il postulato infrangibile persino dalle tue Kitane, che recita: “Il gioco è bello quando dura poco”.
Noi continueremo a giocare con te, non vediamo l’ora.
Però, Quentin, che non sia la stessa partita e neanche lo stesso fottutissimo campo da gioco!


giovedì 4 ottobre 2007

Istinto e ragione. Memories of Murder


La pioggia è morte. Il rosso è morte. Il sesso è morte. Una canzone è morte. Almeno nella mente del poliziotto Seo Tae-yoon che sta indagando sull’uccisione brutale di alcune donne. Lui viene da Seul, siamo nel 1986 nella provincia di Gyunggi e la Corea del Sud vive una fase di tremenda agitazione politico sociale (a sei anni dal colpo di stato del generale Chun Doo-hwan, nel vivo delle rivolte popolari contro polizia e Quinta Repubblica). Nelle indagini è assistito da Park Doo-man (meravigliosa l’interpretazione di Song Kang-ho), agente dal carattere aggressivo, uomo d’impulso oltre che d’azione. È proprio su questo corto circuito che si sviluppa la vicenda di Memories of Murder (Sarin-ui chu-eok, 2003), secondo bellissimo film del regista coreano Bong Joon-ho dopo la black comedy Barking Dogs Never Bite (Flandersui gae, 2000).


L’ambientazione rurale rende questo thriller davvero particolare. La sceneggiatura è calibrata alla perfezione e nonostante la lunghezza, il film scorre via teso e vibrante. La macchina da presa è un occhio sincero e fluido su un mondo in divenire. Gli anni ’80 coreani, il terrore delle persone comuni, il pugno d’acciaio della legge. Tutti sono spaventati, tutori dell’ordine compresi. Bong Joon-ho ha il coraggio e la forza di girare con grande pulizia e rigore, rifacendosi alla tradizione asiatica e al tempo stesso guardando al modello americano (il regista stesso dice di essersi ispirato a Fargo - 1996 - dei fratelli Coen). E vince la sua partita unendo profondità d’indagine e (voluta?) ironia (quando Park Doo-man segue la pista degli uomini senza peli si ride tantissimo), azione e riflessione. Soprattutto quando entra in gioco la soluzione dell’enigma. Da una parte i poliziotti locali, dall’altra il nuovo arrivato. I primi sono rozzi ma efficaci, sbirri di provincia un po’ sciocchi, dai modi spesso brutali. Seo Tae-yoon invece è laureato, intelligente, bello, scrupoloso, ha metodo. I loro mondi si incontrano/scontrano, ognuno ne resta influenzato. Ragione e istinto hanno confini sfumati. Così come il mondo che li circonda. Ciò che resta è disillusione, impotenza, incapacità di reagire.


Il mistero rimane senza alcuna rivelazione. Tuttavia l’ultima sequenza con gli occhi gonfi di Song Kang-ho, fissi a guardare la macchina da presa, ad incrociare i nostri occhi, dice più di mille fatti, molto più di mille parole.

martedì 2 ottobre 2007

Chi tradisce merita una morte orribile. Election


Johnnie To è il regista del ritmo. Uno stile e un rigore perfetti. Ritmo, tutto al posto giusto al momento giusto. Anche quando amarezza, solitudine, disillusione prendono il sopravvento. E la pioggia, il silenzio, le luci della notte si accendono. D’altronde non c’è genere che possa prestarsi meglio a questa geometria della visione che il poliziesco. E il noir di To è teso, preciso, meccanico. Oltre che dannatamente (tremendamente) umano. Costellato da personaggi tragici, valorosi, ossessionati da tale perfezione (fisica, etica, formale). Come se il regista immettesse nel testo, nella vita inventata che appare sullo schermo, il senso del suo cinema. Una plasticità (dell’immagine, del ritmo, della recitazione) che ha esempi illuminanti in capolavori come A Hero Never Dies (Chan sam ying hung, 1998), il sublime The Mission (Cheung fo, 1999), PTU (2003) e Breaking News (Dai si gein, 2004).


Election (Hak se wui, 2005) non è da meno, anzi. È una delle opere più compiute e compatte del regista di Hong Kong. Illude come una bomba che sembra non volere/poter scoppiare. Deflagra e uccide come tritolo quando il ticchettio dell’ingranaggio riprende a funzionare. Per la prima mezz’ora si fa fatica ad entrare nel film, pare non accadere nulla. Tuttavia è una lentezza narrativa necessaria a presentare la vicenda e creare la giusta, doverosa tensione. Sospensione che l’elezione (appunto) del nuovo presidente della Wo Shing, spietata e antica Triade di Hong Kong, placa solo in apparenza. La battaglia è tra Lok (equilibrato, rispettoso delle tradizioni) e Big D (arrogante, senza scrupoli, con il temperamento di un ragazzino). È questo scontro che farà derivare conseguenze irreparabili.


Dal momento in cui parte la caccia al bastone con la testa di drago (oggetto mitologico, simulacro di comando e controllo dell’organizzazione), Election letteralmente esplode. Diventa un affresco sul potere, sui meccanismi che scattano nella mente di chi lo esercita. Sulla dicotomia sempre più netta, evidente, tra passato (il consiglio dei saggi, gli zii) e presente (l’arrivismo sfrenato di Big D e dei suoi scagnozzi), su tradizione (un capo della mala eletto democraticamente, il rito di sangue tra gli adepti) e innovazione (da momento di aggregazione e protezione politica, il clan diventa mezzo per estorcere fama e denaro). E può sembrare paradossale agli occhi di un occidentale ma Triade e Governo si compensano, pretendono gli stessi obiettivi, vivono gli stessi disagi e le identiche soddisfazioni. Johnnie To prende dunque il noir, lo svuota di stereotipi e riempie di testimonianze, crudeltà, tensioni tanto vecchie quanto attuali. Il suo cinema scuote e appassiona, fa tremare e riflettere. E il tremendo finale non è che l’amara conseguenza delle gesta umane. “Chi tradisce merita una morte orribile”.

lunedì 1 ottobre 2007

L'Infiltrato di Spike Lee


Quando scorre il sangue per le strade è il momento di comprare”. Contenuta in questa citazione c’è la hitchcockiana chiave di lettura del più stimolante hold up contemporaneo firmato Spike Lee. Inside Man (2006) è un film superbo. Lo è nei contenuti. Lo è nella forma. Chi aveva gridato al tradimento del regista Negro per eccellenza, non ha saputo guardare oltre il suo naso perché L’Infiltrato tocca questioni scottanti, mentre Lee abbassa i pantaloni agli Intoccabili, posizionandosi alle loro spalle!
Il film narra la storia dell’hold up perfetto, in cui niente viene rubato. Almeno ufficialmente. Soggetto della pellicola è infatti una rapina ad una importante banca di Wall Street. Il proprietario, Arthur Case (Christopher Plummer), un filantropo ebreo di origini tedesche, nasconde nell' "inesistente" cassetta di sicurezza numero 392 il più infamante segreto che un giudeo possa avere. Un segreto riguardante il come costui si sia arricchito durante l’olocausto. Un come tanto disonorevole, che per tentare di nasconderlo, deve ricorrere alla Wiston Wolf dei potenti, Madeline White (Jodie Foster).


Sul fronte dei buoni si posiziona un poliziotto tanto innocente quanto ironico, infangato dall’accusa di appropriazione indebita. Costui, Detective Keith Frazier (Denzel Washington), dovrà riscattare il suo onore conducendo le trattative per il rilascio dei 50 ostaggi tenuti prigionieri dai rapinatori. Infine, il capo dei banditi, Dalton Russel (Clive Owen), il cui obiettivo sono i diamanti, collocati nella celeberrima cassetta ma non solo: “Non sono un martire. L’ho fatto per i soldi. Ma non c’è niente che valga quanto poterti guardare allo specchio. Il rispetto è la moneta più importante” . E considerato il genere di uomo che è il proprietario della banca, diviene facile intuire quale altro scopo egli si sia prefisso progettando la rapina.


Inside Man rispetta le regole formali del genere riuscendo ad applicarle bene agli odierni giochi di potere, nonché alle contemporanee questioni sociali. In questo senso consideriamo il pestaggio da parte dei poliziotti, ad uno dei sequestrati: un impiegato della banca, scambiato per terrorista in quanto mediorientale. Sottile anche il siparietto tra Dalton Russell e un bambino afroamericano preso tra gli ostaggi. Quest’ultimo si diletta con un videogioco, in cui più uccidi, violenti o rubi e più alto sarà il punteggio conseguito. Il piccolo afferma di non aver paura di niente e aggiunge: “La vita è tosta, come dice il mio idolo 50 Cent: diventa ricco o crepa provandoci”.
Spike Lee realizza un film a cui la storia del genere noir dovrà dar conto.
Quando scorre il sangue per le strade è il momento di comprare. Il signor Case ha fatto sua questa convinzione, ma non è diverso da tanti altri imprenditori”.