find the path

sabato 29 settembre 2007

The dark side of Hollywood. Kiss Kiss, Bang Bang


C’è una ragazza che si chiama Harmony (nome non casuale... ah, splendida Michelle Monaghan) e si trasferisce a Los Angeles dall’Indiana, il suo sogno è diventare una grande attrice (anche se è riuscita solo a girare uno spot per una birra dove il protagonista è un orso che stacca la testa ai pesci). C’è un ladro di mezza tacca proveniente da New York (bello & bravo Robert Downey Jr.), che per una circostanza a dir poco esilarante si trova a fare l’attore (i meccanismi del business cinematografico lo hanno fagocitato, il provino che sta per sostenere è inutile in partenza, serve solo a far diminuire le pretese economiche di Colin Farell). C’è un detective privato gay (la faccia gonfia di Val Kilmer è perfetta), uno molto cool che ci tiene alla sua classe ed è meno stronzo di quanto appaia a prima vista. I destini di queste tre persone si incrociano dinanzi ad un duplice omicidio e danno vita ad una girandola di situazioni complesse, macabre, ironiche, movimentate. Cornice Hollywood, la macchina dei sogni.


È questa la vicenda che Shane Black mette in scena in Kiss Kiss Bang Bang (2005). Un film piccolo ma prezioso, scritto magnificamente, ironico, graffiante, pungente, che non lascia spazio alcuno a recriminazioni del tipo “ma perchè tutte queste incongruenze nella storia??”. Non le lascia perchè le forzature narrative le crea volutamente, gioca con l’immaginario cinematografico, lo accartoccia e getta nel cestino, per poi riprenderlo pentito e usarlo in modo beffardo come carta igienica. Black riflette sui miti, sulle passioni della giovinezza, sui sogni alimentati dalla cultura di massa (i film, i party lussuosi, i romanzi thriller dello scrittore Johnny Gossamer), sulla cruda realtà di chi queste visioni le elabora. E lo fa mischiando le carte, unendo commedia e azione, black humor e pulp, romanticismo e sano nichilismo. Con dei dialoghi veloci, divertenti, sfacciati; attori che si rivolgono allo spettatore senza temere il paradosso; finti finali che prendono proprio per il culo; eccessi visionari che fanno ridere e disgustare (il dito tranciato di netto e l’uccisione stile roulette russa di uno scagnozzo del cattivo sono momenti memorabili).


Vita e morte sono intrecciati così come realtà e finzione. La scelta di Robert Downey Jr. per sbeffeggiare miti e riti hollywoodiani da questo punto di vista è indicativa. Black sa far girare la sua macchina da presa nel verso giusto, ama, critica e compatisce il sistema nel quale è inserito. Bacia e spara insomma. La sua visione nera dell’universo cinema è affogata da una risata malsana. Come siano utili pellicole del genere per comprendere quanto sia ipocrita, plastificato, a suo modo piacevole e sorprendente Hollywood, è inutile aggiungerlo. In conclusione ci piace solo sottolineare che questo corto circuito finto/vero esplode con Broken, brano che accompagna i titoli di coda. A scriverla e cantarla è Downey Jr. stesso. È tutto più chiaro ora?

giovedì 27 settembre 2007

Il sesso, questo sconosciuto. Insegnanti, dottoresse e 'coglionelli' nella commedia erotica italiana.


Che belle le commedie erotiche italiane degli anni '70. Film oggettivamente brutti, volgari, che facevano dei pruriti, delle fantasie comuni, del tremendo gallismo italico un manifesto programmatico. Lo spunto per questo post viene dalla visione su una rete locale campana di uno di questi episodi, L’insegnante viene a casa (Michele Massimo Tarantini, 1978). Parte conclusiva di una ideale trilogia (L’insegnante di Nando Cicero - 1975 - e L’insegnante va in collegio di Mariano Laurenti - 1978 -) che vede la bona Edwige Fenech al massimo del suo splendore.


La vicenda è di una banalità sconsolante: Luisa (la Fenech) dà lezioni di piano, nel palazzo dove vive la credono invece una squillo. È fidanzata con l’assessore Bonci Marinotti (Renzo Montagnani), il quale in realtà è già sposato e fa di tutto per nascondere le sue tresche. Potete immaginare dunque quale sia l’andazzo generale della pellicola. Piace però pensare che i bersagli di questa farsaccia (la classe politica, le alte sfere militari, l’affermata ‘casta’ dei brillanti liberi professionisti) da trent’anni ad oggi non siano poi così cambiati. E rappresentino (con le dovute esagerazioni di un cinema trash e pecoreccio) la realtà del nostro paese. Un sano sarcasmo volgarotto che colpisce – rispettivamente – un assessore candidato a sindaco perennemente arrapato, bugiardo e fedifrago (scatenato come sempre Montagnani); un ufficiale dell’esercito tutto d’un pezzo (Carlo Sposìto), malato d’ordine e disciplina, un vero idiota che gioca con i soldatini e davanti a tette, culi e cosce (quelli della divina Edwige) diventa più elastico di un hippy; un medico chirurgo (sornione Gianfranco Barra) che quando si presenta l’occasione (irreale) di scopare, lascia da parte senza alcuna remore etica e senso del dovere.


Il sesso come motore del mondo, unica sfera in cui le classi sociali vanno a farsi benedire. È questo ciò che apprezziamo di questi filmacci. Studenti, dottori, onorevoli, colonnelli, carabinieri. Tutti col chiodo fisso. E sistematicamente fregati dallo sfigato di turno, che non si accontenta di una sega. Detto questo, L’insegnante viene a casa – come altri cento film di questo tipo – è quello che è. Una mezza schifezza. Battute da caserma, nudi a volontà, doppi sensi che diventano sensi unici, sganassoni, buchi nei muri che come d’incanto si trovano paralleli alle docce, grandi incassi ai botteghini, ritmo produttivo instancabile. Discutere di regia o sceneggiatura sarebbe ridicolo. Cinema di genere (o degenere?). Col quale però si ride. Molto. Come non accade nelle commedie italiane buonine buonine degli ultimi anni. Merito anche degli attori, perché facce del genere non ce ne sono più in giro. Oltre i già citati Montagnani, Sposìto e Barra, figurano nel cast Alvaro Vitali e Lino Banfi (impareggiabili i loro duetti da padre-figlio), Lucio Montanaro e Marco Gelardini (il Walter Grass di Il tifoso, l’arbitro e il calciatore - 1982 -, puro cult trash calcistico di Pier Francesco Pingitore). Mancano solo altri pezzi di gnocca del periodo (Gloria Guida, Nadia Cassini, Anna Maria Rizzoli, Lilli Carati, Barbara Bouchet). E soprattutto Mario Carotenuto e Gianfranco D’Angelo. Con loro sarebbe stato un film epocale. Peccato.

martedì 25 settembre 2007

Il western e la commedia di Howard Hawks: lo sport preferito dall'uomo.


Il western di Ford era un genere indubbiamente maschio. Fatto di semplicità e senso pratico, senza contorsioni, schietto come una cartolina di un’opera greca nel periodo arcaico.

L’impronta di un western “femmina” è, viceversa, sicuramente hawksiana.
Come improntata sul femminile è la quasi totalità della produzione cinematografica di
Howard Hawks.
Le sue opere abbandonano la sfera del dovere pratico tipicamente fordiano e iniziano a incentrare i propri movimenti cinematografici nell'ambito dell'affezione: le trame si infittiscono, come anche la personalità dei personaggi. Obiettivo primario non è più raccontare il Sogno di una Nazione (Ford) quanto piuttosto tirare fuori dal film il massimo divertimento per lo spettatore.
Hawks è il cambiamento, vale a dire l’elemento classico che comincia la sua metamorfosi. La faccenda diventa chiara in Un dollaro d’onore (Rio Bravo, 1959) dove compaiono sia il professionista (Colorado), emergente figura del Western, sia il classico vecchio personaggio dell'ubriacone (Stumpy) interpretato dal meraviglioso Walter Brennan.


L’Acqua hawksiana comincia a sostituire il grande Cielo, caratteristico elemento visivo dei film di John Ford.


L’immagine ha bisogno di liquefarsi e l’orizzonte si congiunge al fiume (Il fiume rosso - Red River -, 1948; Il grande cielo - The Big Sky -, 1952). La metamorfosi ha inizio e l’interscambiabilità è il fondamento. Il dentro e il fuori sono reciproci l’uno all’altro, l’uno può svolgere la funzione dell’altro, le relazioni sono incontestabilmente binarie, la donna può assumere la funzione dell’uomo nel rapporto di seduzione, e l’uomo quello della donna. Lo vediamo in Susanna, in Ero uno sposo di guerra e sorprendentemente nelle parti femminili dei suoi western.
Questa interscambiabilità esplode nettamente in Bringing Up Baby (Susanna, 1938). Dove la protagonista, non solo esercita le funzioni dell’uomo, ma è capace di farsi anche bambina e, ancora, di fare bambino Cary Grant. L’infantilismo della Hepburn è un gioco, è una scelta, è fecondo. L’infantilismo di Grant è da redimere, superare, inglobare: è un handicap. Così Susan deterritorializza completamente David, racchiudendolo nella sua burla.


I personaggi maschili di Hawks devono sempre riscattarsi da un passato negativo o da una specifica colpa. E per farlo hanno bisogno di immergersi nella donna. Il regista ce lo mostra chiaramente nel fotogramma di Ero uno sposo di guerra (I Was A Male War Bride, 1949) in cui il protagonista (ancora Cary Grant) viene letteralmente inghiottito da un pagliaio. L’uomo si fa piccolo mediante un processo di regressione per riuscire ad entrare nel luogo (catartico ;-D) da dove, in principio, era venuto fuori. Il più reale paradiso terrestre che abbia mai vissuto, il Sei Pollici di Bukowski, lo stesso sogno erotico-cinematografico dell’infermiere minorato di Parla con lei (Hable con ella, Pedro Almodovar, 2002). Ma da li, però, Adamo sarà irrimediabilmente espulso, ancora una volta grazie a Eva. Cosicché il Gioco non abbia mai fine e possa successivamente ricominciare. Si tratta del Gioco del venir fuori, dell'essere indipendente, del conquistarsi un movimento proprio. La salutare anarchia che vale bene il prezzo di un assoluto immobile.
Hawks conosce bene le regole di questo gioco e non fa altro che applicarle nei suoi film. Giusto per tirarne fuori un po' di divertimento!

FUORI POST (variazioni sul Tema): your path to divinity. I dead eyes di Justin K Broadrick


Occhi. Occhi coperti, occhi analizzati, occhi dall'interno, occhi sbarrati. Occhi morti. Occhi strumento del sogno, mezzo di rielaborazione della realtà. Un tempo i Godflesh celebravano in musica le rovine dello sviluppo industriale. Oggi i Jesu di Justin K Broadrick odorano quasi di rinuncia, di fuga verso un universo fantastico. Un luogo dove la malinconia assume paradossalmente una valenza positiva, in cui diventa uno stato mentale piacevole, da affrontare senza inganni.
Il filmmaker indipendente Michael Cimpher (già autore dell'irriverente The Last Lovers on Earth, 2006) ha colto alla perfezione queste sensazioni e le ha tradotte in immagini nel video di Dead Eyes (ultimo brano dell'ep Silver). La realtà è riflessa in uno schermo desolante, vagano surreali delle schegge di immaginazione. Riproduzioni di una vita solo pensata, per questo più vissuta. Un incubo che prende forma e rende il risveglio gradevole, perché è come se la sconfitta assumesse un sapore meno amaro. La musica dei Jesu amplifica l'inadeguatezza: il loro stile emotivo, tra lo shoegaze, il post metal (??) e l'elettronica, ipnotizza per la pacatezza dei toni, la densità delle atmosfere, l'aria rarefatta che si respira.
Occhi coperti, occhi analizzati, occhi dall’interno, occhi sbarrati. Occhi morti. Occhi per purificare il nostro animo.

lunedì 24 settembre 2007

FUORI POST (variazioni sul Tema): altro che procedural drama. Un giorno in pretura.


Ma avete visto qualche puntata della nuova stagione di Un giorno in pretura? No, nulla contro la conduttrice Roberta Petrelluzzi (anzi, la sua aria da professoressa di liceo ci riporta con la mente alla vecchia televisione, quella che educava e informava). Nulla contro i modi (ormai le riprese televisive dei processi sono un dato di fatto) o la formula (diretta, lineare, stringata, essenziale). A sconvolgere e inorridire è proprio la sostanza della trasmissione: i fatti. Crudi, tremendi, dannatamente reali. Fatti di sangue, che impressionano e (purtroppo) appassionano.


Un ragazzo di 17 anni ruba il motorino ad una ragazza. Per sua sfortuna si tratta della figlia di un boss locale (siamo nella Napoli più desolante e disperata). Il padre – istigato dalla figlia – prende e spara al ragazzo. Tre colpi. Così, a bruciapelo. Lo uccide. Poi fugge e resta latitante per mesi, fino a quando non viene acciuffato dai carabinieri. Almeno secondo la ricostruzione del Pubblico Ministero. Mentre la difesa ribatte con una versione della vicenda che per quanto garantisti si possa essere non può non far sganasciare dalle risate. Un ghigno, è più corretto. Perchè all’inizio si ride, si ride di brutto. Già per i modi, le vicissitudini e le palle tremende che si inventa l’imputato. Poi per la sfilza di testimoni che raccontano (o non ricordano, o inventano) fatti accertati, frutto di testimonianze, intercettazioni ambientali, interrogatori. È tutto molto comico. Gli amici cocainomani del colpevole (il tribunale lo ha condannato a 30 anni, in attesa del ricorso in appello) sono uno spasso assoluto. In particolare colpisce uno, che afferma: 1. di non ricordare se ha mai visto/conosciuto l’imputato; 2. di esserne compagno di sniffate, ma solo quando lavorava in officina (e no, la coca mica gliela dava lui, era un regalo dei clienti che parcheggiavano le auto!); 3. di aver avuto una colluttazione con l’imputato del tutto amichevole (se essere preso a randellate con una mazza di legno e ricavarne due denti volati via è amichevole…). Per poi concludere lo show chiedendo dell’acqua perchè ha la gola secca.


Ma PM e giudice non sono da meno. Si incazzano come bestie, urlano, hanno un’urgenza, una fame di giustizia innegabile. L’avvocato della difesa è invece triste. Vestito da damerino, con il suo vocabolario più rigido di un busto, si esprime peggio di un burocrate creato dalla fantasia di Gogol’. E qui la risata di pancia si tramuta in ghigno. Perchè è tutto vero: i reati, i testimoni, i giudici, gli avvocati. Più vero della realtà. Altro che procedural drama, legal thriller, avvocati in divisa e trionfo della verità. Roba che nemmeno nei romanzi di John Grisham e Scott Turow o nei film di Sidney Lumet e Alan J. Pakula. Non c’è socio o cliente che tenga. Quando si dice che l’immaginario non riesce a star dietro al corso degli eventi.

Tutto ciò è molto triste.

sabato 22 settembre 2007

FUORI POST (variazioni sul Tema): legends of America. Biografia di Billy the Kid


Densi di piacere sono i sapori dell’Ovest che si stagliano dalla romantica figura di Billy the Kid.
Ogni volta che un fuorilegge ha incarnato lo spirito di libertà per una data collettività, c’è da scommettere che questa stava attraversando una crisi di fondo, costretta a prendere coscienza di se stessa e a scegliere (magari controvoglia) tra responsabilità e caos.
Il Kid è un bandito, ma è anche un bambino. Una mistura di violenza e incoscienza formidabile, cresciuto per di più senza punti di riferimento, senza paradigmi, senza la protezione di qualcuno che gli insegnasse come si fa a essere uomo. Senza padre.
L’assenza di colui che spiega e insegna le regole generò il suo rifiuto di ogni autorità e la sua diffidenza mista ad attrazione per le figure di patriarchi ed anziani. Ed è proprio questa fondamentale mancanza che segnerà la sua via, a cominciare dal primo delitto. Con una coltellata Billy uccise un fabbro, colpevole di aver insultato la madre. Un omicidio dalle potenti risonanze edipiche, un episodio che mostra i germi nascituri della sua essenza, i quali si faranno forti e maturi a causa di quell’avvenimento che fece di lui un bandito: la morte di Tunstall.


John Tunstall, caro amico di uno dei due re del bestiame, Mc Sween (l’altro era Murphy), era un inglese liberale, per cui Billy lavorò nella contea di Lincoln. Costui, però, non fu solo un datore di lavoro per il bandito-bambino, quanto piuttosto un Riferimento. L’assassinio scatenò la guerra del bestiame che coinvolse inevitabilmente il Kid, il quale offrì alla memoria del proprio Protettore la sua cieca Vendetta.
Divenuto un fuorilegge, un nuovo padre gli offre il perdono e gli indica la via. Il generale Lew Wallace (l’uomo dai baffi grigi autore di Ben Hur, il romanzo).
Incaricato di dargli la caccia, Wallace chiede un colloquio con il Kid e lo ottiene: “Credevo di trovare un uomo più anziano, più disperato. Ti immaginavo molto bruno, con occhi penetranti, e trovo un giovane dal volto fresco e simpatico. Billy, ho trentaquattro anni più di te, potrei essere tuo padre, lascia che ti avverta: sto per proclamare un’amnestia per tutti coloro che furono implicati nella guerra Murphy-Mc Sween. Il presidente Hayes mi ha mandato a stabilire la pace nel Nuovo Messico. Perché non ti stabilisci da qualche parte, e dimentichi tutte queste lotte?”.
Perché,” gli risponde Billy, “se io li dimentico, i miei nemici non mi dimenticheranno. Anche se volessi cambiare vita, sarebbe troppo tardi. Ho ucciso troppa gente. Non scommetterei sul mio avvenire; posso sopravvivere un anno o due, come posso essere ucciso tra cinque minuti”.
Un fatalismo nero, questo che fa di lui un tipo di infanzia che non si evolverà, rimanendo tale per sempre. Una specie di angelo decaduto che non può fare a meno di legarsi solo ed esclusivamente all’hic et nunc, senza poter permettersi un sogno che abbia qualche possibilità di realizzarsi.


L’incontro con il generale Wallace avvenne nel 1878 a Fort Stanton e in quel particolare periodo il fatto che il bandito-bambino percepisse pienamente il suo ruolo di perdente, era inevitabile.
Billy the Kid rappresentava il colpo di coda ribelle di una società che si era, a malavoglia, arresa alle responsabilità che non poteva più rifiutare di prendersi. Come ben sappiamo, infatti, erano gli anni in cui, alla prima fase, rappresentata dalla colonizzazione dei territori vergini da parte dei pionieri, seguiva il necessario assoggettamento di questi - non più pionieri ma coloni - allo stato e alle sue leggi, anche economiche. Ma l’offerta di inserirsi nel sistema, trasformandosi da elemento di disturbo in elemento integrato alla società, non poteva essere accettata dal bandito. Il mito non poteva cambiare la sua natura, l’uomo non poteva più essere separato dalla sua leggenda.
In realtà quella del Kid è una storia che parla del Passaggio epocale di una nazione, gli Usa. E quando il cambiamento in corso volge al termine in nome di un’acquisita stabilità, sul tappeto rimangono sempre dei cadaveri.
La morte del Kid fu necessaria come quella della vecchia pelle del serpente.
Una Morte che gli fu inflitta dal sistema vigente per mano di Pat Garret.


Chi è Pat Garrett? Il vecchio amico, lo sceriffo incaricato di dargli la caccia, l’ennesimo padre.
E i padri, è certo, si vendicano inevitabilmente dei figli ribelli.
Così questa leggendaria creatura che sapeva essere fragile e verde - “una possibilità su un milione” (era la sua frase preferita) - come un bambino, diventò anacronistico e finito come un morituro per aver preferito ad ogni ipotesi di maturazione, una buona uccisione.


venerdì 21 settembre 2007

John Ford


L’eroe western è il suo itinerario. Il discorso è semplice quanto potente, come un film degli anni migliori di John Ford. Una questione lineare. E noi ci sentiamo sazi dinanzi a Ombre Rosse (Stagecoach, 1939) proprio grazie alla completa armonia con cui il discorso filmico è stato organizzato: ogni parte ha un peso e un contrappeso che danno all’opera un equilibrio limpido. Se immaginiamo un qualsiasi film come un campo di forze, riscontreremo nei western di Ford, i rapporti più equilibrati e definiti tra le componenti Filmiche (personaggi, sceneggiatura, scenografia, luce). Tutto è ben sistemato, e lavorato con cura e precisione. Ford è indubbiamente IL regista-artigiano, IL mastro artigiano.
Nato e cresciuto (cinematograficamente parlando) insieme a Hollywood, sapeva come far venire alla luce, dal rapporto tra la macchina da presa e quello che le stava davanti, un grande film. Ed è per questo che i suoi western sono come proporzioni matematiche inopinabili.
La poesia di Ford è generata dalla sua “materialità”, dal suo senso pratico. I personaggi, poi, caratterizzati con semplicità e schiettezza, si danno immediatamente e completamente allo spettatore, come fossero nudi, senza alcuna complicazione psicologica.


Il Cinema di John Ford è un’arte concreta non evanescente che comincerà a complicarsi solo negli ultimi anni, quando il regista-padre di Hollywood inizierà ad avvertire un senso di isolamento e un desiderio insoddisfatto che gli rodeva nell’animo - cit. Lindsay Anderson, John Ford, Ubulibri, Milano, 1985 - . Sono gli anni dei film del trapasso: Sentieri Selvaggi - The Searchers, 1956 - o L’uomo che uccise Liberty Valance - The Man Who Shot Liberty Valance, 1962 - (per fare i due massimi esempi), naturalmente belli, ma di una bellezza diversa rispetto alla produzione precedente. Una bellezza sconsolata e decadente.


... Ford aveva delle certezze e queste non fanno altro che stagliarsi dai suoi film. Sono convinzioni romantiche, come la tradizione, la famiglia, l’esercito. Le stesse convinzioni su cui poggiavano gli Usa mentre erano intenti a conquistare il mondo. Convinzioni difficili da condividere, ma sicuramente efficientissime come punti di riferimento, come semi di quercia, come portatori di sicurezza. Convinzioni che godevano della completezza dell’ “ingenuità”.
Ford era una sorta di Padrino positivo: sapeva come fare, possedeva le soluzioni. Soluzioni che, però, come le suddette convinzioni, non tarderanno a sgretolarsi insieme al sogno americano.

Umanononumano. Il figlio


Francis è un ragazzo problematico. Ha infatti un passato turbolento, anni rinchiuso in un riformatorio per aver ucciso un bambino durante una rapina. Ha scontato la sua pena e viene avviato al lavoro. Olivier è un falegname, insegna il mestiere proprio a gente che si riaffaccia alla vita. C’è un solo problema: il bambino ammazzato da Francis era suo figlio… Se Le Fils (Il figlio, 2002) fosse stato girato a Hollywood il risultato sarebbe stato di sicuro un film sul topos della vendetta. O quanto meno una (ipocrita?) rinascita (spirituale, morale, magari economico sociale). E invece Jean-Pierre e Luc Dardenne dipingono ancora il volto di una Europa cupa, incapace di adattarsi ai feroci cambiamenti del mondo. Con un’eccezione fondamentale però, tipica del loro cinema: la voglia di uscirne, di darsi una scossa, di smuovere l’individualismo sfrenato che ci governa.


Il loro è un nuovo, toccante umanesimo. Che si concretizza nel finale della vicenda, con l’esplosione fisica di Olivier (sempre bravo e teso Olivier Gourmet, Palma d’Oro a Cannes per questa interpretazione). Cosa ci resta se azzeriamo totalmente l’altro da noi stessi? È impossibile nella società di oggi concepire una parola come perdono? Dove arrivano la rabbia, la solitudine? Sono queste le domande che ci pongono i Dardenne, quesiti esistenziali ai quali è difficile dare una risposta. La loro macchina da presa pedina i personaggi, scende per le strade di una città malinconica, scarna, priva di qualsiasi speranza. Se non nell’ambiente del lavoro (che paradosso), dove Olivier educa i suoi ragazzi ad una nuova esistenza. È una sorta di 'neo neorealismo': macchina a mano, primi piani, lunghi piani sequenza, una fotografia asciutta. Uno stile crudo, spesso minimalista, che rallenta volutamente il ritmo della narrazione per concentrarsi sui mille rivoli nei quali gli animi si perdono, si ritrovano, si smarriscono di nuovo.


Può piacere o meno, risultare fin troppo eccessivo, ma lo sguardo dei Dardenne sul mondo è doloroso e necessario. Sono pochi i registi europei di oggi (ci vengono in mente Ken Loach, Laurent Cantet, Géla Babluani, Cristian Mungiu, Matteo Garrone) ad avere tanto coraggio, rigore e lucidità.

martedì 18 settembre 2007

Bellezza e macerie. La ragazza del lago


Intrecci, legami. La ragazza del lago (2007), opera prima di Andrea Molaioli, è un film di vincoli affettivi, di sentimenti. Che vengono alla luce dietro una vicenda tragica nella quale i confini tra giallo, beghe di paese e leggenda (il lago del serpente) si confondono. È difficile anche per il commissario Sanzio indagare (un intenso, scorbutico, umano Toni Servillo, nell’ennesima interpretazione straordinaria). C’è una ragazza, Anna. Giocava a hockey, era molto bella. L’hanno trovata morta, sulla riva del lago. Nuda, come addormentata. È arduo scoprire la verità, perché tutti hanno avuto con lei dei rapporti. Attenzione, non sessuali. Anna è morta vergine. Dei rapporti profondi, empatici. Come la purezza innocente di un bacio.


Un padre quasi morboso, un fidanzato bugiardo e incompreso, una sorella non tale, il viscido allenatore della squadra locale di hockey. La famiglia Canali per la quale la ragazza faceva da babysitter. E poi Mario, il matto del paese, e il suo burbero padre paralitico (intenso Omero Antonutti). Segreti, rapporti tesi, pronti ad incrinarsi da un momento all’altro. Sui quali è difficile venire a capo, anche per una persona metodica come il commissario (e il suo fedele assistente Alfredo… amore non corrisposto?). Perché c’è dolore, c’è lacerazione. Prima di tutto nel cuore di Sanzio, che si ritrova con una moglie affetta da una malattia nervosa degenerativa e una figlia con cui è difficile parlare, spiegarsi, aprirsi.


È questo ciò che piace di La ragazza del lago. Prende il soggetto dal romanzo Lo sguardo di uno sconosciuto dell’autrice norvegese Karin Fossum. Sandro Petraglia ne trae un sceneggiatura attenta, pulita. Molaioli dirige in modo denso, avvolgente, rarefatto. Servito dalle ottime musiche di Teho Teardo. Sfruttando tutti i meccanismi di genere (sembra di assistere a una vicenda di Simenon, Maigret o Chabrol) per parlarci d’altro. Di noi, del nostro profondo, della sottrazione alla vita, dell’assenza e delle pause dall’essere. Del dramma che si consuma nella profonda provincia italiana. Che in tal caso diventa quella del Nord Est, il Friuli, la Carnia. Luoghi quasi magici, imbevuti di presente (laghi, boschi, viuzze strette e solitarie) e passato (ancora vive sono le tracce nelle foto dei terremoti). Posti dal respiro ampio, che si sposano con il taglio nero della vicenda. Senza alimentarne l’oscurità però, solo i vuoti che l’esistenza lascia. Quella reale, vissuta, non quella finta e posticcia che la televisione ci spaccia per tale.

Qui ci stanno di mezzo i sentimenti Alfre', chiunque l’ha messa in quella posizione le voleva bene.

P.S. Ah, qualcuno deve spiegare anche a me perché le donne quando litigano, litigano di spalle.

lunedì 17 settembre 2007

LA POSTA DEL CUORE: lettera a Paolo Di Giannantonio


Paolo Di Giannantonio sei un mito. Sei la salvezza di tutti i Tg nazionali delle reti in chiaro italiane. A te va tutta la mia stima e il mio massimo rispetto. Sei l'unico che riesce a trasformare tutte quelle trasmissioni intimidatorie seriali in qualcosa di guardabile. Dici che ho esagerato usando il termine intimidatorio affiancato a Tg? Forse hai ragione tu. Forse sarà colpa di tutta quella musica bizzarra che a causa di due miei amici, sto ascoltando in questo periodo. Sai di quelle musiche metalliche, i cui suoni sono lame taglienti sporche perfette.


Hai capito quale? E forse, ti dirò, sarà proprio a causa di questa musica malevola, che ho pensieri strani sui telegiornali. Però a me è capitato di notare che l'ottanta per cento delle notizie riguardano catastrofi. Diversi tipi di catastrofi. Sono due, ad esempio, gli sfaceli maggiormente in voga adesso. Si tratta di calamità di tipo familiare. Genitori - medici e biondi - uccidono figlia - piccola e bionda. Fidanzato sufficientemente innocuo ammazza fidanzata sufficientemente bella. Storie incredibili, con trame da romanzo giallo. Storie vere che, però, forse, cominciano un po' a diventare una fiction poliziesca seriale. Ma forse, ripeto, è colpa della musica (?).
Un dieci per cento, poi, delle notizie trattano di politica e altri tipi di fantasmagorie. Vi risparmio anche solo il commento sulle notizie politiche e sulla politica in generale. Anche perché dovrebbe essere un commento lunghissimo che ci porterebbe dritti a parlare di Finanza. E non mi riferisco alla GdF. Il discorso diventerebbe troppo cupo e serio.


Quindi, dicevamo, altri tipi di fantasmagorie, come quella della Banca del Dna. A sostegno della quale c'è sempre la solita vecchia storia: "Gli altri paesi europei ce l'hanno!". Embé. Cazzi loro.
Le rimanenti parti del Tg sono invece dedicate a notizie prese dallo scemenziario. Di solito cani che ereditano miliardi, gatti che stappano bottiglie coi denti, orsi morti, pinguini volanti, uccelli salvati, delfini, ippopotami, serpenti guardiani di scarpe diamantate. Insomma animali. Lo scemenziario del Tg2 straborda nel settore animali. Io, infatti, sostengo convinta la tesi che l'idea dello scoiattolo scorreggione, gli autori della pubblicità l'abbiano avuta proprio guardando il Tg2!
Lo scemenziario del Tg1 credo invece vada forte con le notizie che riguardano il Papa. Cosa ha fatto il Papa, cosa ha detto il Papa, dove ha mangiato il Papa, dove si fa gli abiti il Papa, le ricette del Papa.


Altro argomento di cui è molto fornito lo scemenziario del Tg1 è la vita dei bambini obesi, lo sport e le attività fisiche che dovrebbero fare i bambini… per non diventare obesi; ma anche quello che i bambini dovrebbero o non dovrebbero mangiare… per non diventare obesi!


Paolo scusa se mi permetto di metter bocca anche sul Tg che ti dà da mangiare, però…
Però, non preoccuparti che quando ci sei tu in video, io cerco di non perderne uno. Non potrei mai rinunciare ai tuoi giochi di linguistica da novello Totò, che trasformano le "conferenze stampa" in "conferenze stanza". E nemmeno al modo in cui punisci i tuoi colleghi per gli insostenibili servizi che preparano. Vale a dire quella nonchalance con cui storpi parecchi dei loro nomi, quando annunci il servizio.
E infine non potrei mai rinunciare ai tuoi commenti sulle notizie. Gli altri si limitano a delle espressioni del viso, al massimo arrischiano una parola o due. Credo che lo facciano perché sono convinti che un presentatore del Tg debba comunque dare un'impressione di imparzialità…
Ma tu. Tu sei magnifico. Quelli che fai tu sono veri e propri commenti completi alle notizie. Però, non voglio deificarti così tanto, sembrerebbe che esagero, e dunque, devo anche ammettere che non lo fai tutte le volte. Però quando lo fai, sei insuperabile. Come sei insuperabile in tutto ciò che fai quando sei in onda.
Caro Paolo tvb.

domenica 16 settembre 2007

La magnificenza oscura. Voglio la testa di Garcia


L'immagine di presentazione scelta da una/o dei due è inequivocabile. Bring Me the Head of Alfredo Garcia (Voglio la testa di Garcia, 1974) di Sam Peckinpah (inchino) è un testo di frontiera. In tutti i sensi del termine. Estetico e fisico. È la fine dei sogni, il termine ultimo del coraggio, una visione dell'esistenza malinconica, estrema, dannatamente vitale. Da ultima sigaretta. Passione, disperazione, tenerezza e terrore si fondono nella vicenda di Elita e Bonnie (un immenso Warren Oates, che vive una mimesi totale mettendo nel suo personaggio Peckinpah stesso). Due perdenti. È bello scriverlo per questi due emarginati. Un puttana che spera (splendida Isela Vega), un pianista fallito che spara. Spara perché c'è un ricco fazendero (El Jefe, Emilio 'El Indio' Fernandez) che darà un mucchio di soldi a chi gli porta la testa di Alfredo Garcia, l'uomo che ha messo in cinta sua figlia. Peccato che il buon Alfredo sia già morto...


È il film più crudo, nero, macabro, definitivo del regista americano. Una di quelle opere che cambiano il corso delle cose. Gli occhiali da sole perennemente sul volto (anche di notte), l’abuso di alcolici quasi a placare rabbia e delusione, il disagio fisico e psicologico, il desiderio di riscatto che si trasforma in totale distruzione. È questo Bonnie. "Una natura perdente", come viene definito in una battuta. Una storia d'amore che si tramuta in esplosivo martirio.

La ricerca e la consegna della testa di Alfredo Garcia assumono i connotati della ricerca del Santo Graal, della ricerca del vello d'oro: tratteggiano una nuova mitologia, oltre ogni logica di genere. Vita e morte si intrecciano incessanti, l'una dietro l'altra, anche se il film continua a darle per separate in modo sardonico e beffardo. I dialoghi grotteschi con la testa mozzata di Garcia (vero motore dell'azione) preludono al caos finale, la sparatoria martirio nella sfarzosa villa di El Jefe. Il tutto connotato con i tratti di un rituale da tragedia (vittime, carnefici, coro di lamenti). L'istinto, le componenti ferine si scatenano. È l'olocausto definitivo dei propri valori, presa di coscienza che si ritorce contro se stessa. La morte è tornata trionfante e immotivata. Oltre la vita non resta che il foro fumante della canna di un fucile. Sublimato dal rabbioso e perverso fermo-immagine "directed by Sam Peckinpah".


Gli spari, il buio. L'oscurità e la rinascita di uno stile. Sam osa e si supera nell'intensità drammatica dei primi piani. Nel ralenti rimesso a nuovo e fatto esplodere in modo acuto in fasi di apparente tranquillità (intensifica il ritmo, altera il tempo per modificare in pieno lo spazio). Nella fusione di generi. Nella velocità della narrazione. Nella creazione di un mondo mostruoso, di un universo (narrativo) parallelo. Che ha mostrato soprattutto il volto vulnerabile dell'uomo. Capolavoro.

sabato 15 settembre 2007

Un blog di napoletani. Quel ragazzo della curva B


Questo è un blog di NAPOLETANI. Tifosi. E questo va detto. Quel ragazzo della curva B (1987) di Romano Scandariato (attenzione!!! Sono sue le sceneggiature di Emanuelle e gli ultimi cannibali, La via della prostituzione, Sesso profondo e Zombi Holocaust... mica patatine!) è un film di merda ma è anche un manifesto. L'ispirazione giunge così, vedendolo per l'ennesima volta su Tele Capri. Prima di andare a bere con una/o dei due. Il bello è che questo film si può vedere anche senza ascoltarlo, non a caso in sottofondo c'erano prima il 'morbido riff' di Return Trip, poi la psichedelia ancestrale di Ivixor B / Phase Inducer e Solarian 13. Il doom lisergico targato Electric Wizard (Come my fanatics...).


Un po' come Diego Armando che gonfia la rete. Le vie della classe (e della droga). Una sua giocata e via, Tacconi si gira senza rendersi conto di un cazzo e il pallone è in porta. Magie del calcio. Emozioni. Come Nino D'Angelo col suo mitico caschetto che vuole cacciare i pusher dallo stadio (titanico il grezzo col nasone), il prete che mette la sciarpetta del Napoli per dire messa, uno scatenatissimo Biagio Izzo che sforna battute dementi e incomprensibili una dietro l'altra, Gennaro 'Palummella' Montuori in lacrime (napulitane), Antonio Allocca tirchione, i camei di Bruscolotti, Carnevale, Giordano, Pesaola. Però parlare di camei, di recitazione, di regia... per un 'film' del genere fa ridere! Anche perché è montato malissimo e nelle scene 'calcistiche' i raccordi sono tutti sbagliati. Quando il Napoli segna la curva è immobile, quando c'è una azione normale esplode. E allora niente, via con l'emozione, con i ricordi, con quello che quel Napoli (il Napoli) significa per chi nel 1987 aveva 7 o 8 anni. Tra l'altro, durante il liceo un amico ci prestò la videocassetta con l'unplugged dei Pearl Jam. Ad un tratto (mentre Eddie Vedder canta Even Flow) si sente "Angelaaa, Angelaaaa!!" e una voce stridula che risponde "mghgdhwlllllasciamii!". Grasse risate.

Tornando a noi, e concludendo. Ezequiel, noi crediamo in te.

giovedì 13 settembre 2007

Vogliamo un cinema con numeri dispari. Grindhouse e i finti trailer


Pensate che paradosso: dove la distribuzione cinematografica non arriva giunge You Tube. Bizzarro no? È il caso di Grindhouse, progetto di Robert Rodriguez e Quentin Tarantino elaborato come un omaggio alle visioni underground di genere (horror, thriller, kung fu movies, slasher, spaghetti western, blaxploitation, porno splatter) che hanno caratterizzato la loro giovinezza durante gli anni '70 e '80. Per ora abbiamo apprezzato soltanto Deathproof del buon Quentin, tra non molto uscirà Planet Terror del compare Rodriguez. La cosa interessante però è un'altra: tra i due film - in originale un unico, lungo flusso di oltre tre ore - ci sono dei finti trailer diretti da Rob Zombie, Eli Roth, Robert Rodriguez e Edgar Wright (più l'annunciato ma non presente nella versione finale Cowgirls in Sweden di Quentin Tarantino). Trailer che forse nelle nostre sale non vedremo. Ed è un peccato mortale perché si tratta di qualcosa di favoloso. Ecco dunque You Tube accorrere in soccorso.


Cominciamo proprio da Robert Rodriguez. Machete è il killer Danny Trejo, volto di pietra che i fan del regista conoscono molto bene. Cita se stesso il simpatico Robert, lanciare coltelli era ciò che Navajas faceva in Desperado (1995), il film che lo ha lanciato. Il gioco metacinematofico tira in ballo anche Sergio Martino, Mannaja era Maurizio Merli in un western piuttosto modesto (Mannaja, 1977). E da lì si riparte con il solito stile torrido, frenetico, ironico, divertito. Nulla di eccezionale, una sana dose di cattiveria, azione forsennata e gusto tex mex.



Divertentissimo è Thanksgiving di Eli Roth. Di ironia nei suoi film ce n'è sempre molta, a partire da Cabin Fever (2002) fino ad arrivare a Hostel: Part II (2007). Sulla qualità dei prodotti si può discutere, su questo finto trailer no. Fa ridere, fino alla morte. È eccitante, perverso, denso. Ma fa ridere, fa tanto ridere. Una pellicola non reggerebbe novanta minuti di tale demenza, questi due minuti scarsi sono invece un pugno nello stomaco. O forse è meglio dire una carezza, un dolce solletico. È così che vogliamo Eli per i suoi prossimi film. Sempre problematico d'accordo, con tanta (auto)ironia però.



Rob Zombie è uno dei migliori registi horror degli ultimi tempi. Lo hanno dimostrato House of 1000 Corpses (2004) e soprattutto il bellissimo Devil's Rejects (2005). Werewolf Women of the S.S. mischia il filone nazi erotico (avete presente Ilsa She Wolf of the SS di Don Edmonds, 1973, Love Camp 7 di Lee Frost, 1975, La svastica nel ventre di Mario Caiano, 1977, o Le lunghe notti della Gestapo di Fabio De Agostin, 1977), la licantropia e Barbarella: Queen of the Galaxy (Roger Vadim, 1967), condendo il piatto con divertito sadismo, truculenti effetti da quattro soldi e tre attori da urlo: la compagna Sheri Moon che interpreta Eva Krupp, il diabolico Udo Kier e uno spassoso Nicolas Cage nei panni di Fu Manchu (impossibile non pensare a Christopher Lee). Cultura di genere allo stato puro.



Don't di Edgar Wright. L’autore di Shaun of the Dead (2004) e Hot Fuzz (2007) ci sorprende. Se questo trailer venisse ben sviluppato, probabilmente saremmo di fronte ad un capolavoro horror. Le atmosfere 'fulciane' rendono i due minuti psichedelici e visionari, un delirio che cresce a dismisura fino al climax conclusivo. Un omaggio all'horror britannico post declino Hammer, al thriller italiano, al cinema psicologico e trasgressivo del mai troppo compianto Curtis Harrington.



Infine, il tocco di classe. Dopo aver bandito il concorso SXSW's Grindhouse Trailer Competition, la palma dell'esordiente con miglior trailer è andata a Jason Eisener, con Hobo With a Shotgun. Due minuti esagerati, dal taglio realista, iper violenti e al tempo stesso allucinati. Con una colonna sonora super funk che lascia senza fiato. Se le premesse sono così di questo Eisener ne sentiremo parlare presto.



mercoledì 12 settembre 2007

FUORI POST (variazioni sul Tema): Infascelli, Gino e l'alfetta


Alex Infascelli... Mmmhh... Mah... Boh... Forse è un po' sopravvalutato? Almost Blue (2000) è un buon film: ben girato (anche se dal taglio troppo televisivo), tensione al punto giusto, conoscenza dei meccanismi di genere. Il siero della vanità (2004) rivela già qualche crepa, nonostante soggetto e sceneggiature siano tosti (dietro ci sono Niccolò Ammaniti e Antonio Manzini). H2Odio (2006) è fiacco, di una noia mortale e - cosa gravissima - spreca le fantastiche, ossessive, conturbanti atmosfere create dalle musiche di Steve Von Till con il suo progetto Harvestman (chi non sa chi sia Von Till in ginocchio sui ceci ad ascoltare Enemy of the Sun, Times of Grace e A Sun that Never Sets dei Neurosis).


Detto questo, di Infascelli non piace nemmeno la veste di conduttore. Lo diventa per Mtv quando gli viene affidato Brand:New, programma già odioso di per sé perchè ostenta questa sua etica indie e invece è l'ennesima baggianata per i ggggiovani. Il povero Alex si trova invischiato nella politica del divano e non riesce neanche ad uscirne con la brillantezza del comunicatore, causa evidenti difetti di pronuncia (ma cos’ha in bocca, una lingua doppia??).


Cosa rimane dunque? La sua attività da regista di videoclip, nella quale eccelle davvero. Una marea di video girati per svariati artisti (Kiss, Pearl Jam, Michael Jackson, Cocteau Twins e tanti altri), tra gli ultimi Gino e l'alfetta di Daviele Silvestri. La canzone è carina, poggia su ritmi quasi dance, è ballabile e fa riflettere, nel finale sfoggia una parte strumentale pulsante, con un basso pompato e ritmiche in evidenza. Ma Gino e l'alfetta è soprattutto un brano che mette in gioco la nostra sessualità, pregiudizi vecchi e sempre presenti. È una sfida alle certezze. Infascelli ha girato il clip in una notte, a Roma. Durante il Gay Pride (la canzone ne è diventata l’inno). È geniale l’idea di Roma, una città oscura, anonima, abbandonata. Animata dallo sbirro Liotti e dal suo compagno Mastandrea, che con la sua espressione assente, stralunata, marmorea, così tremendamente umana esprime i dubbi, le incertezze, la mancanza di sicurezza. Una vita senza identità che il montaggio secco e preciso del regista esalta al meglio, fino alle finali esplosioni di colori e diversità. E quell’aranciata bevuta tutta d’un sorso con sorriso beffardo è più liberatoria di mille parole.

Maria sei sempre mia
sei l’unica possibile
ma di Gino io mi fido un po’ di più…