find the path

giovedì 28 aprile 2011

Cinematic music for cinematic people (Part III): Grails - Deep Politics


I Grails avevano dato il meglio di se stessi nell'ep Take Refuge in Clean Living (2008). E lo avevano fatto sintetizzando in soli cinque brani quanto espletato dagli inizi di carriera in dischi affascinanti (e spesso incompiuti) come Burden of Hope (2003), Redlight (2004), Burning Off Impurities (2007) ed i tre volumi di Black Tar Prophecies (2006). Doomsdayer's Holyday (2008) era stato un ulteriore passo in avanti; l'esperienza di Black Tar Prophecies vol. 4 (Self-Hypnosis resta uno degli apici compositivi della band di Portland) ha invece condotto a questo nuovo gioiello, Deep Politics (Temporary Residence Limited, 2011).
I Grails sono una bande à part. Se The Cinematic Orchestra interpreta l'ossessione della psichedelia cinematica come ribaltamento di prospettiva (prendi una colonna sonora, la destrutturi con l'elettronica e la ripassi a suon di soul e jazz), i Grails elaborano la materia così come uscita dal genio creativo dei grandi compositori per il cinema. Immaginate Ennio Morricone, Bruno Nicolai, Armando Trovajoli e Piero Piccioni alle prese con un ensemble acido e sfrontato. Che ha vissuto lo splendore degli anni 60, la creatività esplosiva dei 70, il riflusso degli 80, la nuova ondata di exploitation e nichilismo dei 90 e l'approccio strumentale e post dei 2000.


Dalle ariose aperture di Future Primitive all'oscurità di All the Colors of the Dark è un brivido immediato: come Sergio Martino e le iniziazioni esoteriche di Edwige Fenech. Il tutto con una perizia strumentale invidiabile ed i consueti arrangiamenti struggenti. Corridors of Power attraversa l'elettronica gentile e vellutata per lanciare la sinfonia morriconiana della title track, una vera e propria apoteosi, delizia per cuore e cervello. All'impasto strumentale generatore di tale avvincente maelström contribuiscono ulteriori, imponenti tasselli. Il piano sinuoso di Daughters of Bilitis. L'approccio ironico di Almost Grew My Hair (David Crosby che fa a cazzotti con Terry Riley in uno spaghetti western). Il climax emotivo di I Led Three Lives (il culmine in un crescendo pinkfloydiano da pelle d'oca). Il finale toccante di Deep Snow, avvio acustico che si scioglie in aperture acido sinfoniche sbalorditive (è qui che emerge in modo evidente la collaborazione con il compositore Timba Harris).
Metti una sera a cena con i Grails? I giorni del cielo si apriranno e grazie a loro anche noi, per un attimo, potremo diventare Intoccabili.



mercoledì 27 aprile 2011

Cinematic music for cinematic people (Part II): Alexander Tucker - Dorwytch


Alcuni l'hanno definito doom chamber-pop. Altri minimalist folk. Resta soltanto una certezza: Alexander Tucker è uno dei geni della contemporary music. Lo conferma il nuovo album Dorwytch, il primo edito da Thrill Jockey. Abbandonati il finger-picking estremo e la vena sperimentale degli esordi, da Old Fog (2005) a Furrowed Bow (2006) fino ai progetti Jackie O Motherfucker e Ginnungagap, Tucker ha costruito tassello dopo tassello un favoloso universo sonoro. Che ha trovato in Portal (2008) il suo capolavoro. Maggiore inclinazione alla melodia, apertura al folk pastorale, ampie dosi di psichedelia liquida e oscura. La vena drone è passata al side project Imbogodom, nel quale esplorare in compagnia di Daniel Beban gli orizzonti della dissezione sonora operata a suo tempo da artisti come Terry Riley e Steve Reich (obbligatorio l'ascolto di The Metallic Year, 2010, sempre su Thrill Jockey).


In Dorwytch i tempi si dilatano. Alexander Tucker riparte dal bellissimo ep Grey Onion e come con la Decomposed Orchestra ci consegna 14 canzoni che sembrano suonate da un ricco ensemble. Vocals sognanti, chitarre delicate e sinuose, uso di effetti elettronici e qualche accenno ritmico sono la pasta che fa da collante alle composizioni, mai così ammalianti. Pura scrittura cinematografica, un film lungo una vita. Un tempo di scrittura durato tre anni e che vede collaborare Paul May alle percussioni, l'amico Duke Garwood, il cantautore Jess Bryant ed il polistrumentista e produttore Daniel O'Sullivan (Guapo, Æthenor, Miracles, Ulver).


Si può suddividere Dorwytch in quattro grandi tronconi. I primi tre brani riprendono lì dove aveva lasciato la Decomposed Orchestra e sono un inizio prodigioso. Tre piccoli capolavori, dominati dalle splendide armonie di Matter. Riflessioni metafisiche, trascendenza (in)organica, ritorno ad una quotidianità a tratti dolorosa. La visione folk psicotropa di Michelangelo Antonioni alle prese con la fantascienza distopica. Hose e Gods Creature sono folk puro, che fa pensare ad uno strano miscuglio tra Curved Air e David Crosby, ribaltato dalla psych sintetica di Half Vast. Pearl Relics (per inciso, una delle canzoni più commoventi degli ultimi anni) riapre il sipario sull'acid folk da cipolla grigia e ci prepara al magnetico, dolente blues di Atomized e Skeletor Blues. Altra pausa strumentale (Dark Rift / Black Road) e ci si avvia verso il gran finale, nel quale dominano l'epica da glockenspiel di Sill e il trip rurale di Jamie. Il miagolio di un gatto ed il piano di Craters pongono Dorwytch nell'alveo di quel dischi da ascoltare senza alcun pregiudizio. Soltanto con la mente aperta e disposta ad assorbire la sostenza organica dei sogni.

Organic matter growing instead of lives...

martedì 5 aprile 2011

Cinematic music for cinematic people: Earth - Angels of Darkness, Demons of Light


Cinque perle nere che causano in chi le coglie emozione e immenso pathos. Sono le cinque canzoni che componogo il primo dei due capitoli di Angels of Darkness, Demons of Light (Southern Lord, 2011), nuovo magnum opus degli Earth, assurti con gli ultimi tre lavori alla carica di menestrelli della polverosa, cinematica, sempre più inquietante contemporaneità. Perché se vivere oggi è difficile, lo è ancora di più pensando al futuro. Da qui giunge la necessità di produrre musica non volendo parlare solo a se stessi, bensì al cuore di chi si pone all'ascolto. E medita sulla forza emotiva dei passaggi strumentali, sull'essenzialità delle linee tracciate dalla chitarra di Dylan Carlson, sulla complicità creata dalle ritmiche lente e pastose di Adrienne Davies (batteria) e Karl Blau (basso), sugli inserti di cello magici e al tempo stesso inquietanti di Lori Goldston.
Un album dalla purezza sconvolgente, di una linearità cristallina e tersa. Un disco che si pone come ideale prosecuzione del viaggio intrapreso a partire da Hex: or Printing in the Infernal Method (2005) e proseguito con sapienza e brillantezza in Hibernaculum (2007) e The Bees Made Honey in the Lion's Skull (2008). La prima parte di Angels of Darkness, Demons of Light è epitome e superamento critico di questa ricerca.


Inevitabile pensare a Jim Jarmusch, Johnny Depp e Neil Young che in Dead Man (1995) si incrociano sul finire dell'Ottocento nelle sinistre e desolate lande di Machine. Tuttavia qui c'è molto di più. Quello che è stato definito da più parti come minimalistic doom è in realtà psichedelia folk nel senso ampio del termine: chitarre rarefatte, tensioni acide che imbevono il cuore, sperimentalismo ultracorporeo, delle rovine rumorose dalle quali si emergere puntando verso una nuova transizione. È come una sposa che si spoglia delle distorsioni per regalarsi al piano di Lamonte Young. Dove cielo e inferno si sfiorano e si toccano. «Riff sciolti nel tempo», quanta verità.
Quando la linea di chitarra di Old Black diventa wah-wah è pura estasi. I passi notturni di Father Midnight sono rarefatti e cinematici; la stasi avvolgente di Descent to the Zenith scatena calde lacrime; i canyon che Hell's Winter materializza sono proiezioni mentali così vibranti da essere reali, concrete. I venti minuti conclusivi della title track sono il compendio paradisiaco di un gruppo che compone uno dei brani doom più naturali e antiteorici degli ultimi tempi.
Sono passati 20 anni da Extra-Capsular Extraction, 15 da Phase 3: Thrones and Dominions. E gli Earth compiono un ulteriore passo in avanti. Sempre più verso la perfezione.
Un disco che tutti gli amanti della buona musica e del buon cinema devono possedere nella propria collezione.


Per saperne di più: www.thronesanddominions.com
Photo credits: Sarah Barrick