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venerdì 24 ottobre 2008

Yumurta. O dell'assenza


Semih Kaplanoğlu. Nome da appuntare su un prezioso, sbiadito quaderno in carta di riso. Non a caso già passato a Cannes nel 2007 (alla Quinzaine des Realisateurs) e nel 2008 a Venezia in concorso. Un percorso fatto di studi, articoli e saggi, documentari e televisione, corti e primi lungometraggi (il debutto del 2000 Herpes kendi evinde, Away from Home, e il successivo Meleğin düşüşü, Angel’s Fall, 2004, presentato al Festival di Berlino). L’idea successiva è quella della trilogia Milk – Egg – Honey, viaggio a ritroso nella memoria e nella profonda esistenza di Yusuf. Yumurta (Egg, 2007) ne è il primo, intenso capitolo.


Yusuf è stato ormai divorato dall’ansia di diventare un grande poeta. Vive ad Istanbul, in un piccolo e buio negozio di libri aperto 24 ore su 24. Quando il telefono squilla e la segreteria ne raccoglie il messaggio, si mette in viaggio per tornare dopo anni al suo villaggio d’origine. Sua madre è morta. Ad attenderlo c’è solo la giovane e affascinante Ayla, ragazza che si è presa cura dell’anziana donna nei suoi ultimi anni di vita. Zehra ha espresso un desiderio: sacrificare un animale in sua memoria. Yusuf odia il lento ritmo della vita di campagna. Non ha più nulla in comune con i paesaggi sconfinati, i vecchi riti, le ristrette abitudini sociali. Nonostante tutto, lo scorrere inesorabile del tempo induce l’uomo ad una svolta: le radici hanno un’importanza maggiore di quanto sia sempre stato disposto ad ammettere.


Kaplanoğlu dirige con una purezza cristallina. Il suo è un cinema d’immagini, di silenzi. Un cinema che vive fuori campo, oltre l’inquadratura e i lunghi piano sequenza che avvolgono i nostri occhi. Un cinema trasparente, metafisico, che non ha bisogno di parole, soltanto di sguardi, volti, suoni, luci, respiri, simboli. Come il sacrificio rituale di una capra, i sogni di Yusuf isolato e immobile sul fondo di un pozzo oscuro, uno stormo di uccelli che squarcia un cielo minaccioso, un uovo che si frantuma come una vita senza più un centro. La ricerca del protagonista induce all’esplorazione di noi stessi, del passato e del presente. Sbilanciato tra una incerta (in)espressività e un deprimente senso del dovere, Yusuf è un uomo fuori sincrono rispetto a tutto ciò che lo circonda, estraneo eppure vicino, diffidente e indifferente a se stesso, alla vita. Esistenzialismo cupo cui fanno da contrasto la splendida fotografia di Özgür Eken e la regia attenta di Kaplanoğlu, plastico nel muovere la mdp tra campi lunghissimi e movimenti soffici quanto rigorosi. A tratti didascalico ed eccessivamente cerebrale, Yumurta resta comunque un esempio necessario di cinema dell’assenza.