find the path

giovedì 28 febbraio 2008

12 scimmie. Paure collettive tra realtà e immaginazione


Realtà dislocate. Sismi temporali provocati da scaglioni di zolle cerebrali in perpetuo movimento. Tempo immaginato e tempo vissuto in una dinamica dello scontro che azzera i valori del primo e annulla i paradigmi del secondo. Un viaggio avanti e indietro negli anni e/o un’escursione in circolo nella mente. Qual è la minaccia reale e quale quella indotta/immaginata? E quale la differenza tra le due in termini di psicosi personal-collettiva?
Quando Terry Gilliam gira L’esercito delle dodici scimmie (Twelve Monkeys, 1995), sono gli anni in cui il Cinema made Usa comincia a elaborare il terrore legato allo spauracchio dell’AIDS.


Nel 2035 l’umanità è stata completamente sterminata da un virus. I pochi sopravvissuti sono costretti a vivere sottoterra. L’eroe, Bruce Willis (e chi altro?), è inviato da un equipe di scienziati nel passato, nel 1996, l’anno in cui è scoppiata l’epidemia letale. La sua missione è di raccogliere informazioni per trovare una cura e permettere agli esseri umani di ripopolare il pianeta. È, però, inviato per sbaglio nel 1992 dove viene rinchiuso in un manicomio.
Certo il film non ha come soggetto principale il celeberrimo virus quanto, piuttosto, è un giro visionario nella terrorizzata mente umana, collocata in una società occidentale che si fustiga rumorosamente per la sua ipocrisia e che, di decennio in decennio, propone nuove paure. Terroristi e pedofili, oggi, l’aids, nei decenni ‘80/’90, il nucleare negli anni ’60/’70. Ventennio, quest’ultimo, de La Jeteé (Chris Marker, 1962) da cui è liberamente tratto L’esercito delle dodici scimmie, film su una catastrofe atomica con rispettivo tentativo di risalire il tempo per evitare la fine del genere umano.


Dunque sembrano essersi spesso presentati terrori collettivi. Paure prodotte da una società che si è anche assunta il compito di avere cura e difendere tutti. Le guerre si fanno, ormai, in nome dell’esistenza di tutti; si spingono intere popolazioni ad uccidersi reciprocamente in nome della loro necessità di vivere (Michel Foucault).


E le paure collettive in questi ultimi decenni sembrano essersi fatte uguali per tutti. Non più tante paure differenti di natura locale e limitata, ma una paura unica diffusa in modo capillare in tutta la società occidentale: la paura per la propria sopravvivenza messa a repentaglio da un nemico preciso. L’aids e il terrorismo sono le due forme che questo nemico ha assunto nel corso degli ultimi quarant’anni. Mentre l’atomica era quella degli anni ‘60/’70.


Il potere di esporre una popolazione ad una morte generale è l’altra faccia del potere di garantire ad un’altra il suo mantenimento nell’esistenza (Foucault).
Così in Twelve Monkeys i futuristici scienziati, che cercano di salvare il mondo, e il personale del manicomio che tengono prigioniero il protagonista, sono gli uni lo specchio degli altri.
Terry Gilliam, però, non dimentica mai la via dell’ironia, della risata, (chiara nella citazione dei fratelli Marx). Critiche reali alla pazzia dilagante messe in bocca ai “matti” carcerati nell’ospedale psichiatrico, raccontano di una follia che in realtà non è altro che una lucida analisi. Un’analisi di un’intera epoca narrata attraverso la storia personale di un eroe senza più nessuna certezza su cosa sia reale e cosa frutto esclusivo della sua immaginazione

lunedì 25 febbraio 2008

I rasoi di Monsieur Verdoux. Sweeney Todd - Il diabolico barbiere di Fleet Street


Che spettacolo! Sweeney Todd - Il diabolico barbiere di Fleet Street (Sweeney Todd: The Demon Barber of Fleet Street, 2007), ultimo tassello targato Tim Burton, è l’ennesimo, visionario gioiello della sua filmografia. Una favola gotica trasfigurata in musical, un intero immaginario che prende vita a partire da suoni e colori tanto cari al più giovane autore premiato con il Leone d’Oro alla carriera. Tratto dal musical di Stephen Sondheim (a sua volta ispirato dal testo teatrale di Christopher Bond) che enorme successo ha avuto e riscuote tuttora a Broadway, la vicenda è l’odissea di Benjamin Barker, giovane barbiere nella Londra di fine Ottocento, sposato ad una donna bellissima e padre di un’altrettanto splendida bambina. Il laido, potente e spietato giudice Turpin posa gli occhi sulle due e tramite un sotterfugio riesce ad averle, imprigionando l’incauto Benjamin. Il quale dopo aver solcato i mari del mondo torna a casa in cerca di vendetta, con un nuovo volto (quello di un fantasma assetato di sangue) ed un nuovo nome, Sweeney Todd appunto. Ad aiutarlo nell’impresa Miss Lovett, la peggiore pasticciera londinese da sempre innamorata di lui.


Facile immaginare quanto merito abbiano gli attori quando si hanno per protagonisti Johnny Depp (bellissimo nell’esacerbare il rancore e bravissimo nell’esplodere rabbia con le canzoni, così simile al Monsieur Verdoux chapliniano) e Helena Bonham Carter (occhioni e sguardi che penetrano fin dentro il cuore). Ma c’è tanto, tanto altro. Comprimari di lusso (Alan Arkin, Timothy Spall, un inedito Sacha Baron Cohen nel divertente ruolo del falso barbiere italiano Adolfo Pirelli); una regia che prende alla gola, allo stomaco e al petto per arrivare dritta all’animo (la sequenza animata per le viuzze di Londra è incredibile); costumi eccezionali, che evocano un mondo dark mai così vivo dai tempi di Edward mani di forbice (Edward Scissorhands, 1990) - film per altro evocato dai rasoi/artigli di Todd -; musiche che fanno subito colpo per potenza e passione.


Sweeney Todd diventa una delle opere più compiute di Tim Burton. Un tuffo nel nostro essere fanciulli, in quei sentimenti senza tempo e senza senso che sono universali e ingredienti essenziali di ogni storia. Uno Shakespeare dei nostri giorni, un cantore oscuro e divertito di delicatezza e bassezze, avventura, amore e morte. Che con i tortini di carne umana pone anche l’accento su un concetto a volte scomodo di giustizia sociale, per poi tuffarsi incosciente come un bambino dentro le sue creature. La fine della storia forse è nota ma è una pagina di cinema che scuote e fa piangere. Lacrime di sangue, ovvio.

mercoledì 20 febbraio 2008

Odio e follia sotto la terra. There will be blood


Sontuoso ed imperfetto There Will Be Blood (Il petroliere, 2007), ultimo, attesissimo film di Paul Thomas Anderson. Sontuoso perché in buona parte dei suoi 159 minuti si assiste ad uno spettacolo magniloquente, cinema allo stato puro, grado zero della narrazione. La sequenza iniziale è degna dei grandi maestri del passato: nessun dialogo, solo suoni, rumori, un accompagnamento musicale sinistro, stridente, a tratti addirittura sgradevole nell’alternanza di vuoti e pieni (gran merito al lavoro di Jonny Greenwood). Macchina narrativa che lavora ancora una volta su frammenti, su spaccature, come già accaduto per Magnolia. Ma se allora era la polifonia il mezzo espressivo utilizzato, qui sono il volto, le gambe, la schiena curva di Daniel Plainview (un magnifico Daniel Day-Lewis) il fulcro della pellicola.


Il petroliere diventa una parabola sin troppo evidente ed esplicita sul tema ricchezza/cupidigia/solitudine/follia. E nella rappresentazione dell’utopismo sociale di Upton Sinclair (dalla cui opera il soggetto è tratto) risiede l’imperfezione del film. Troppo esposto, troppo lungo, troppo corposo nel dar vita alla parabola di questo magnate delle trivellazioni, che da semplice minatore diventa invidiato uomo d’affari, salvo sacrificare famiglia (il figlio reso sordo da un’esplosione di gas e poi disconosciuto, il finto fratello scoperto e ucciso, l’assenza totale di una figura femminile), relazioni (il vuoto è ciò che ricerca e gli spetta), fede (il massacro del giovane predicatore - ottimo Paul Dano - a colpi di birilli da bowling).


Daniel Day-Lewis divora completamente la scena, vampiro che si nutre di ogni situazione, di ombre e buio, di ogni singolo frammento. C’è poco spazio per gli altri, è Daniel il soggetto privilegiato della macchina da presa. Obiettivo che si sporca di petrolio, fango, alcol, che gira vorticoso nel ricercare increspature, piegamenti, minime variazioni della sua espressione. Complice la suggestiva, spettacolare fotografia di Robert Elswit. Ciò che è un limite diviene così anche un pregio, che fa di There Will Be Blood un grande film. Perché nei difetti che possiede risaltano la maestria di Anderson e del protagonista. Un uomo distrutto e reso arido come la terra che scava.

martedì 19 febbraio 2008

Imagine all the people… The U.S. vs. John Lennon


Passionale e toccante il documentario girato da David Leaf e John Scheinfeld, The U.S. vs. John Lennon (U.S.A. contro John Lennon, 2006). Il film oltre ad essere una ricognizione sulla vita di un grande artista, è soprattutto uno spaccato su un periodo storico particolare, gli anni della controcultura, del dissenso, del pacifismo e della protesta non violenta. John Lennon ne diventa simbolo: da membro dei Beatles ad attivista in tutto e per tutto, utilizzando come soli mezzi arte, ironia, cultura. Lennon d’altronde è un uomo che non riesce a dimenticare la propria infanzia (rimasto orfano di padre, abbandonato poi dalla madre), il ribellismo giovanile, la fuga dalla realtà in una rock’n’roll band. Con Paul, George e Ringo raggiunge il successo, scrive canzoni memorabili, diventa più famoso di Gesù (e in America per questa ragione vengono bruciate le icone che lo rappresentano).


Si sente comunque insoddisfatto. Capisce che il mondo sta prendendo una brutta piega e che è il momento di agire. Le intemperanze lo porteranno allo scontro diretto con il governo Nixon. Conseguenza diretta di un pensiero che si trasforma, complici la guerra in Vietnam, la mutata realtà politica, l’incontro con Yoko Ono. Nasce così l’idea del bed-in, pace nella testa e pace nel letto. Iniziano gli incontri con i politici radicali Jerry Rubin, Abbie Hoffman, il leader delle Pantere Nere Bobby Seale, il guru psichedelico John Sinclair, per la cui libertà si adopera in un mega concerto nel 1971. Esperienze queste narrate con stile asciutto e sentito, tramite tantissime testimonianze di prestigio, da Noam Chomsky a Carl Bernstein, da Gore Vidal a Ron Kovic e Walter Kronkite.


Il pregio di Leaf e Scheinfeld è quello di non calcare mai la mano, di non essere patetici o buonisti, perché il rischio di cadere nella retorica peace & love è sempre dietro l’angolo. I due tengono alto il ritmo della narrazione, specie quando indagano sull’infame lotta dell’FBI di Hoover contro gli oppositori, fino all’assassinio sistematico. John Lennon sente pressione, diventa paranoico, viene pedinato, tanto che le sue azioni sono seguite dal senatore Thurmond e dall’assistente di Nixon Halderman. Una situazione insostenibile che sfocia nel decreto di espulsione dagli States, nella successiva dichiarazione di libertà tramite la creazione dello stato di Nutopia e nella lotta per far valere diritti inalienabili, sostenuta dall’avvocato Leon Wildes. Solo quando Nixon sarà rieletto (per poi dimettersi dopo lo scandalo Watergate), John vincerà la sua battaglia e troverà pace. È il giorno del suo compleanno, il giorno in cui nasce Sean. Arriva una nuova vita, un’esistenza serena in famiglia, interrotta bruscamente da uno sparo, il 9 dicembre del 1980. Una drammatica veglia funebre ne celebra il mito e ne rende eterni la figura, il messaggio, le canzoni. Più attuali che mai.

War is over! If you want it.

giovedì 14 febbraio 2008

But it did happen… Magnolia


Due padri, due figure/mostro che tutto divorano e vomitano.
Il primo è il produttore Earl Partridge (Jason Robards), uomo volgare e dispotico in fin di vita, sposato con una donna più giovane (Julianne Moore) che lo ha scopato, ne ha preso i soldi, salvo pentirsene giunta ormai alla fine, quando gli psicofarmaci che assume hanno già preso il sopravvento. Earl è curato dal tenero e imbranato infermiere Phil (Philip Seymour Hoffman), cui spetta l’arduo compito di rintracciarne il figlio Frank (Tom Cruise), una specie di guru del sesso e della seduzione, patetica icona di machismo e fragilità.
Il secondo è il conduttore televisivo Jimmy Gator (Philip Baker Hall), cancro terminale e vizio dell’alcol, marito di una donna sempre tradita e papà di una figlia, Claudia (Melora Walters), distrutta dall’abuso di cocaina e vittima di questo padre padrone. Di Claudia si innamora Jim (John C. Reilly), poliziotto che possiede tutto ciò che a virtuosi e viziosi manca. A questo coro si uniscono altri genitori/figli in difficoltà - l’arido Rick Spector (Michael Bowen) che vuole sfruttare il successo in un quiz del suo piccolo genio Stanley (Jeremy Blackman) - e un talento ormai soffocato (William H. Macy) in cerca soltanto d’amore.


Non è una polifonia di Robert Altman, né una fredda e ironica ricognizione di affetti ed emozioni targata Im Sang-soo. È Magnolia (1999), il film più ambizioso, difficile, estremo di Paul Thomas Anderson. È una pellicola lunga (ben 188 minuti), articolata, densa, che nonostante la durata scorre e travolge come un fiume in piena. Perché ai personaggi ci si attacca, ci si affeziona, anche se siamo al cospetto di una tossica, di un pagliaccio che inneggia al cazzo o di un bambino che ha completamente perso (cui hanno fatto perdere) il senso dell’infanzia. Anderson gira con una estrosità senza limiti, coglie l’attimo, il momento unico dei singoli individui per poterli rappresentare in pieno. Muove i protagonisti come burattini animati dal caso, escogita soluzioni visive impressionanti (la pioggia di rane rimarrà per sempre nella storia del cinema), ci parla di solitudine, fedeltà, alienazione, freddezza, amore con un impeto raggelante. Una giornata qualunque che è la proiezione di noi stessi, del nostro vissuto e di un passato che per quanto lontano torna. Torna sempre. Tanto inaspettato quanto surreale.

But it did happen…

lunedì 11 febbraio 2008

Puro metallo urlante. Heavy Metal


Oggetto di culto per tutti gli amanti dei fumetti e del rock duro, Heavy Metal (Gerald Potterton, 1981) nasce come risposta statunitense alla rivista francese Métal Hurlant. Magazine pubblicato dalla casa editrice Les Humanoïdes Associés dedicato a science fiction e horror, ospita sulle sue pagine autori e disegnatori del calibro di Moebius, Philippe Druillet, Richard Corben, Milo Manara e Enki Bilal. Giusto per ricordarne alcuni. Proprio Corben porta negli States questa ‘rivoluzione’, perché si tratta di storie dedicate ad un pubblico adulto, nelle quali i super eroi smettono per un attimo di compiere grandi azioni ed iniziano a sfatare tabù e miti sociali. Con disegni maturi, vicende che riguardano sesso e violenza (inserite comunque in un contesto di genere), tavole che sperimentano nuove forme e colori.


Inevitabile una trasposizione in cartone animato, una volta giunto il prodotto oltre oceano. Merito soprattutto del regista Gerald Potterton e del produttore Ivan Reitman (che sfrutta come voci alcuni fedeli compagni come John Candy, Harold Ramis e Eugene Levy). I due affidano la sceneggiatura a Daniel Goldberg e Len Blum che adattano sei storie tratte da altrettanti albi di Richard Corben, Juan Giménez, Angus McKie, Dan O'Bannon e Bernie Wrightson. Evidente dunque la differenza di stile e disegno, tenuta unita da una regia attenta e inventiva e da una vicenda base che fa da collante. Un astronauta torna a casa da una difficile missione portando in dono alla figlia una pietra preziosa. In realtà è il temibile Loc-Nar, sfera verde che sprigiona una terribile energia negativa. L’anima della pietra racconta così alla ragazzina terrorizzata la sua genesi e le apocalittiche conseguenze che la bramosia di potere genera negli uomini.


Fantascienza adulta dunque, mischiata con frammenti horror, comici, dark, erotici e fantasy. Una rivoluzione in piena regola per un cartoon. Per quanto possano risultare stantii, l’animazione ed i disegni di Heavy Metal hanno fatto scuola. Nonostante non tutti gli episodi si mantengano su livelli elevati. I migliori sono senza dubbio quelli del cinico tassista Harry Canyon, del nerd mutato nel muscoloso uomo invincibile Den, il zombie war movie B-17 e il conclusivo Taarna, nel quale John Bruno inventa la mitologia dei Tarackiani e omaggia Moebius. Citazione che si aggiunge alle altre sparse lungo tutto il film, da Close Encounters of the Third Kind (1977) all’Enterprise di Star Treck passando per H.P. Lovecraft e Robby il Robot che vende un hot dog a Harry Canyon. In tale contesto si inserisce il prezioso score di Elmer Bernstein e soprattutto un pugno di brani hard & heavy targati Black Sabbath, Blue Öyster Cult, Journey, Cheap Trick, Grand Funk Railroad, Nazareth, Sammy Hagar, Devo e altri ancora. Si intuisce facilmente perché tanti metal heads siano in fissa con questo piccolo gioiello di arte grafica.


Notazione finale sulla quale non è possibile soprassedere: i piloti alieni che nell’episodio So Beautiful and So Dangerous sniffano la plutodroga sono qualcosa di semplicemente eccezionale.

domenica 10 febbraio 2008

Delitto e Castigo by Woody Allen


Niente di nuovo, né qualcosa di personale sul fronte londinese. Il terzo capitolo, Sogni e Delitti (Cassandra’s Dream, 2007), di quella che è già definita la trilogia britannica (dopo Match Point - 2005 - e Scoop - 2006 -) di Woody Allen non riserva tuffi al cuore. E non ci sono nemmeno piacevoli sorprese derivanti dall’inconfondibile tocco umoristico di Allen, umorismo che in questa occasione pare aver defezionato. In realtà ad essere singolare è giusto la voglia, che può sopraggiungere, di guardare l’orologio per calcolare quanto ancora si deve restare seduti davanti al film.
La storia narra di due fratelli, Ian e Terry (Ewan Mecgregor, Colin Farrell), che conducono una vita senza infamia e senza lode, sognando, però, la celeberrima svolta. E la possibilità di cambiare le sorti del loro destino qualunque sembra essere nelle mani del ricchissimo fratello della mamma, Howard. E, in effetti, i due non si sbagliano.


Lo zio d’America (Howard possiede un paio di celeberrime cliniche di chirurgia plastica in California) arriva nella capitale inglese a far visita alla sua sorellina proprio nel momento in cui i due hanno un disperato bisogno dei suoi soldi. Terry, un meccanico bonaccione senza particolari doti intellettive appassionato di whisky, psicofarmaci e gioco d’azzardo, ha perso una somma strabiliante a poker. Il fratello Ian, intrappolato nel ristorante del padre dal suo affetto per il genitore, ha conosciuto un’altrettanto strabiliante ragazza ed è deciso ad abbandonare tutto e andare a vivere con lei in California, dove ha per le mani dei possibili investimenti immobiliari.


Howard sembra pronto a realizzare i sogni dei nipotini “per amore della famiglia”, a patto che anche i nipotini gli facciano un favore, sempre naturalmente per il medesimo amore parentale. I due ragazzi devono uccidere una gola profonda decisa a mandarlo in prigione completamente rovinato.


Ian e Terry accettano e da quel momento in poi le loro vite, anche se non come si aspettavano a causa del profondo rimorso di Terry, non saranno più le stesse.
La trama ha qualcosa di già sentito. Il tormento per un delitto commesso e le sue conseguenze ha radici narrative antiche che partono dall’Antigone, toccano il Machbeth, passano per quell’illimitato capolavoro che è Delitto e Castigo e arrivano a intessere sovente le trame dei film siano esse opere da due soldi come Quale amore (Maurizio Sciarpa, 2006) o immense pellicole come La donna del ritratto (Woman in the Window, Fritz Lang, 1944). Le nobili origini di un sentimento talmente umano non nobilitano però il film di Allen, piuttosto lo rendono vecchio e consueto. Il tutto intrappolato in una regia che, seppur apprezzabile, non convince del tutto e di una sceneggiatura che non riesce a portare lo spettatore dentro al film, lasciandolo nell’imbarazzo di esser scoperto mentre cerca l’orologio di cui sopra.
Il The End è un sospiro di sollievo.

sabato 9 febbraio 2008

English Humor's Funeral Party


Funeral Party (Death At a Funeral, 2007): AH, AH! (per dirla con le parole di Nelson Muntz – I Simpson).
L’idea, siamo sinceri, era promettente: beffardi e incredibili imprevisti di una cerimonia funebre orchestrati dal celeberrimo humor britannico. E cosa, per il genere comico/grottesco, potrebbe essere più appropriato di qualche grassa risata dinanzi a una bara? Poco o niente, non trovate?
Ma.
Le danze hanno inizio quando a casa del defunto arriva il morto sbagliato. Ad accoglierlo e a rimediare all’errore è il figlio, Daniel, un uomo costretto a destreggiarsi tra le richieste della moglie di una vita migliore (lontano dalla suocera) e le mancanze del fratello, un borioso scrittore di successo sempre sfuggito alle responsabilità familiari. In ordine arrivano al funerale, la cugina Martha che deve annunciare all’incontentabile padre il suo fidanzamento con Simon. Quest’ultimo, spaventato dall’incontro con il futuro suocero, che già lo odia, per calmarsi prende un valium a casa del fratello di lei. Troy è uno studente di farmacia e contemporaneamente uno spacciatore di successo che sintetizza da sé le sue droghe.


Naturale che nella boccetta di valium non ci sia il suddetto medicinale bensì un potente allucinogeno. All’arrivo a casa del patriarca defunto, Simon già vede inesistenti farfalle volare e pieno di gioia, ficca la testa in tutte le siepi che incontra e non solo.


Dopo di loro arriva l’auto dello sfigato Howard, un personaggio tanto insicuro quanto inopportuno con tutti a cui ovviamente non ne va mai bene una. Tant’è che tocca a lui andare a prendere il terribile zio Alfie. Un anziano sulla sedia a rotelle pronto ad elargire insulti e parolacce a chiunque gli capiti sotto tiro. Ad accompagnare Howard c’è il suo amico Justin, interpretato da Ewen Bremner (il fantastico Spud di Trainspotting, Danny Boyle, 1996).


A Justin, in realtà, non importa niente del morto né del funerale, vi partecipa unicamente per cercare di conquistare la cugina Martha di cui, secondo la sua labile opinione, è profondamente innamorato. Ciliegina sulla torta l’apparizione di un nano che nessuno conosce e che nasconde un terribile segreto sul morto.


Eh già, gli ingredienti ci sarebbero tutti. Ma qualcosa nel film non riesce proprio a decollare. Non la regia affidata all’eccellente Frank Oz e illuminata dalla fotografia finemente colorata e luminosa di Oliver Curtis. E neppure l’interpretazione degli attori che funzionano bene sia singolarmente che nella coralità della storia. Quello che forse intoppa in gola è la sceneggiatura di Dean Craig, che seppur fa un buon lavoro con il soggetto, pecca parecchio nella sua stesura. Così le grasse risate iniziali dello speranzoso spettatore lasciano a poco a poco il posto, prima, a un’espressione sorridente rimasta in volto più per inerzia che per spontaneità e, poi, a una tipica faccia ebete di chi è pronto a ridere ma non trova nessun motivo per farlo.

giovedì 7 febbraio 2008

Amori e illusioni. Fever Pitch


Nick Hornby è uno scrittore di culto non per caso. Chi adora musica, ragazze, calcio e cinema (ce ne sono molti in giro…) ha ritrovato il proprio universo nelle pagine dei suoi libri. Non solo i più noti (Alta fedeltà, Febbre a 90º, Un ragazzo), anche quelli meno pubblicizzati o mai ‘vittime’ di adattamenti (Non buttiamoci giù, Come diventare buoni, 31 canzoni). Alcuni lo criticano per la leggerezza, altri per certi aspetti frivoli. In realtà il talento di scrittura risiede proprio nella semplicità, nel dire con candore e schiettezza tante di quelle verità da far impallidire. I punti di vista si frammentano, la vita scorre come una giornata qualsiasi, amori ed emozioni diventano storie che fanno crescere, cambiare, maturare.


Il cinema ovviamente ha attinto molto dallo scrittore inglese. About a Boy (Chris e Paul Weitz, 2002) è un film piacevole e disimpegnato, High Fidelity (2000) è invece il miglior risultato, soprattutto perché dietro la macchina da presa c’è un certo Stephen Frears e davanti il signor John Cusack (senza per questo dimenticare Jack Black e un istrionico Tim Robbins). Qui però ci preme parlare di Fever Pitch (Febbre a 90º, 1997), pellicola di David Evans che riproduce fedelmente su schermo il bel libro di Hornby. Che è poi la sua storia personale, quella di un ragazzo cresciuto dal padre nel culto dell’Arsenal e diventato “uomo” (virgolette necessarie) con questa passione malata che lo divora, tanto da fargli sbattere il muso contro la vita vera. Nick è Paul e Paul è un bellissimo Colin Firth, con la sua aria sbadata da eterno ragazzino, maglietta dei Gunners, birra alla mano e sabato fisso allo stadio. L’incontro con la collega insegnante Sarah (Ruth Gemmell) gli farà cambiare priorità e stile di vita. Forse…


Va subito detto che il libro batte il film 3-0. Impresa impossibile catapultare quel complesso di sensazioni, dubbi, risate che la pagina scritta evoca. Detto questo, Evans dimostra che il suo passato teatrale e televisivo conta e ci concede ampie dosi d’ironia e una regia vivace, veloce, concentrata, molto british. Chi ama il calcio in modo spasmodico non può che scompisciarsi vedendo Paul che cerca di convincere l’amata Sarah a comprare casa insieme a Highbury, la zona dello stadio. E non può non esaltarsi con le immagini della Premier League anno 1988-89 e la vittoria per 2-0 sul campo del Liverpool che consentì alla squadra londinese di vincere il titolo. L’urlo al ralenti dell’amico Steve è un momento che rimane impresso. D’altronde il calcio è giusto un pretesto per parlare d’altro: rapporti genitori-figli, lavoro, responsabilità, legami, affetti. È questo il bello del gioco. E di uno scrittore come Hornby, capace come pochi di proiettare noi stessi nelle sue esperienze.

Dedicato a tutti quelli che non contano la vita in anni, bensì in stagioni.

venerdì 1 febbraio 2008

The sound of Istanbul. Crossing the Bridge


Fatih Akin ha fatto il giro dei festival e delle sale d’essai soprattutto grazie a La sposa turca (Duvara karsi ,2004) e al recente Ai confini del paradiso (Auf der anderen seite, 2007). Pellicole sinuose e delicate, poetiche e al tempo stesso crude nel raccontare conflitti culturali, identità violate, vite on the road, aspri drammi quotidiani. Il miglior esito del suo cinema dimora però altrove. Nelle strade brulicanti, nei vicoli bui, nei silenzi e nei rumori sconfinati, nelle contraddizioni della sua Turchia. Un paese ricreato in musica nel bellissimo documentario Crossing the Bridge – The Sound of Istanbul (2005). Akin compone un totale, devoto ritratto della sua terra usando il riferimento musicale come mezzo.


Alexander Hacke, bassista dei maestri tedesci Einstürzende Neubauten (ripassare Halber Mensch – 1985 – e Fünf Auf Der Nach Oben Offenen Richterskala – 1987 – per capire di chi si parla) e autore di alcune musiche per La sposa turca, è l’occhio e il corpo del regista. È lui ad essere ‘pedinato’ in giro per la metropoli, spetta a lui scoprire questo alternarsi di umori, questo andirivieni di sensazioni. Oriente e Occidente, tradizione e innovazione, felicità e sofferenza. Tutto passa da qui, da un pugno di note.
Il tour di Hacke si apre e si chiude con i Baba Zulu, psych band che lo invita a suonare su un cutter nel Bosforo. Attraversa la scena rock underground: i beat e i bassi profondi degli Orient Expressions, il grunge rabbioso dei Duman, il ‘civilized noise’ dei Replikas, la storia dissacrante del primo rocker turco Erkyn Korai. Da garage, festival, club fumosi e bar di periferia si sposta alla world music derviscia di Mercan Dede e all’hip-hop di Ceza, meslum politico e ‘contro’ che passa anche per il free style urbano. Di qui ci si inoltra nella tradizione sufi e mevlevi, poi con Selim Sesler nella zona rom del Kesam. Si recuperano le radici degli anni ’40 e ’50 con l’opera filologica della folk singer canadese Brenna MacCrimmen. Ci si immerge nelle piazze, nel cemento, nelle voci profonde e nel disagio con i musicisti di strada Siyasiya. Giù e giù, fino alle nenie curde intonate da Aynur, agli sperimentalismi saz della star Orhan Gencebay (l’Elvis dell’arabesque) e al ritorno della canzone popolare con Müzeyyen Senar e Sezen Aksu. Il duetto tra Hacke e la Aksu con vecchie foto in bianco e nero di Istanbul che scorrono sullo schermo è un momento di grande poesia.


Akin ha talento e sensibilità nel coinvolgerci lungo tratti di storia e costume del suo paese. La camminata dinoccolata di Alexander resta impressa nella memoria e se il suo viaggio non svela i misteri di questa città, di sicuro ci esorta a visitarla e ad essere meno sicuri delle nostre (apparenti) certezze.