find the path

sabato 29 marzo 2008

Bruce e John all'assalto. Enter the Dragon


Per l’unico film di produzione americana, Bruce Lee ha fatto le cose in grande. Non poteva essere altrimenti, considerando il suo immenso talento nelle arti marziali trasposto con superba efficacia nella spettacolarità cinematografica. Regia di Robert Clouse (una vita nell’action movie, non a caso dirigerà anche il postumo Game of Death - L'ultimo combattimento di Chen, 1978), musiche (fantastiche) di Lalo Schifrin, comprimari di lusso del calibro di John Saxon, Jim Kelly e i cattivissimi Shih Kien e Bolo Yeung. Il risultato è Enter the Dragon (Long zheng hu dou, I 3 dell’Operazione Drago, 1973), concentrato dinamitardo di azione e violenza.


La vicenda è piuttosto scontata: Lee è un maestro di kung fu inviato dai servizi segreti su un isolotto di Hong Kong per incastrare il temibile Han, il quale maschera con un triennale torneo di arti marziali un traffico di droga e donne. Bruce è anche in cerca di vendetta per la sorella poiché il gorilla di Han, O’ Harra, ne ha direttamente procurato il suicidio. Sull’isola, il giovane si allea con il debosciato Roper (Saxon) e l’orgoglioso Williams (Kelly). Le conseguenze saranno botte per tutti. A prescindere dal soggetto dunque, ciò che conta è la tensione narrativa, tenuta sempre su livelli elevatissimi. Inutile citare i combattimenti, che vedono Bruce padrone incontrastato della scena.


Il tema di Schifrin incalza senza alcuna sosta con le sue evoluzioni funk (fu), la regia di Clouse è diligente (d’altronde basta seguire i movimenti degli atleti attori e il gioco è fatto), ogni qualvolta Lee compare è una goduria per gli occhi. Memorabili la sequenza notturna con il serpente controllato come fosse un gattino innocente e lo scontro conclusivo con Han nella stanza degli specchi, trovata geniale che lascia senza fiato. L’ultima immagine con l’artiglio incastrato suggella la fine di un’era. E la definitiva plasticità di un certo tipo di immagine. Enter the Dragon va visto anche per questo, è stato uno dei pochi prodotti ad unire in maniera omogenea la spy story all’americana, il classico film d’azione e i temi portanti del kung fu movie. Se ci si pensa bene non è cosa da poco.

venerdì 28 marzo 2008

Il segno di Dio è dentro di te, è tutto intorno a te. Stigmata


Scherza con i fanti ma lascia stare i santi. Non fa altrettanto padre Andrew Kiernan, sacerdote/scienziato mandato in Brasile ad indagare sulla morte di padre Alameida, a seguito della quale accadono eventi inspiegabili razionalmente (una madonna piange vero sangue, colombe bianche tornano nel luogo di culto, candele si spengono e si accendono all’improvviso). Il rosario del missionario viene recapitato come dono a Frankie, giovane parrucchiera atea dalla vita disordinata. Quasi per scherzo la vita inizia a cambiare. Il suo corpo diventa un mezzo, tramite di un messaggio tremendo. Lo spirito le si manifesta attraverso le stigmate, i cinque segni del martirio di Cristo. Ferite su polsi e piedi, frustate alla schiena, i segni della corona di spine, la lancia nel costato. Padre Kiernan accorre nonostante le interferenze delle alte sfere. Ed è proprio seguendo questa pista che scoprirà una scomoda verità, un Vangelo mai riconosciuto dal Vaticano (quello gnostico di Tommaso), il vero Verbo di Gesù.


È questo il canovaccio di Stigmata (Stigmate, 1999), horror dall’afflato mistico di Rupert Wainwright. Un buon prodotto di genere, capace di tenere alta la tensione, di far riflettere su un paio di tematiche importanti (la perdita di senso della realtà, la passione, il credo), di elaborare con stile concetti visivi difficili. Wainwright cade spesso in un eccesso di estetismo, con inquadrature barocche ed effetti ridondanti da videoclip (i flou su volti e gocce di sangue così come i ralenti sembrano una autentica ossessione). Tuttavia partendo da uno spunto noto – che sa tanto di The Exorcist (L’esorcista, William Friedkin, 1973) – riesce a costruire una vicenda forte e tesa. Basandosi soprattutto sui due protagonisti (ottimi Gabriel Byrne e Patricia Arquette), un uomo diviso tra fede e scienza, una donna incredula di fronte al divino.


Senza remore, Stigmata sferra anche una dura accusa alla Chiesa come istituzione, legata ai beni terreni e alle conquiste del potere. E riafferma al tempo stesso gli antichi valori del Cristianesimo, la presenza di Dio in ogni cosa e la benevolenza di Cristo. Seppur in chiave molto statunitense, è lanciato un messaggio non facile, affrontato con un intrecciarsi costante di sacro e profano. Peccato sia rimasto un caso isolato nella filmografia di Wainwright, persosi nelle nebbie della mediocrità con l’inutile remake di un classico dell’horror, il cult di John Carpenter The Fog (1979).

giovedì 27 marzo 2008

Roma spara Maurizio Merli risponde. Paura in città


Fiumi di piombo per il commissario Murri. Paura in città (Giuseppe Rosati, 1976) è un poliziesco italiano minore che sfrutta tutti i luoghi comuni del genere. C’è una banda capeggiata dal temibilissimo Lettieri (bella tosta la faccia di Raymond Pellegrin, per una infame invece che sbirro), i suoi uomini hanno compiuto un colpo e alcuni ‘soffia’ li hanno incastrati. Evadono da Regina Coeli e compiono la vendetta, massacrando i malcapitati. Di qui una serie di furti e rapine, che costringono il questore (attore di razza James Mason) a richiamare a Roma il commissario Murri, un classico Maurizio Merli cui hanno ucciso moglie e figlia e la cui vendetta personale non tarda ad arrivare.


Rosati non si lascia sfuggire nulla: c’è la capitale colta nei suoi momenti di massima tensione, ci sono inseguimenti a tutto spiano (girati bene quelli in moto e la sparatoria al Verano), il sostituto procuratore che ‘perseguita’ i poliziotti per i loro metodi bruschi, musiche (di Giampaolo Chiti) nervose e ossessive, tutta una serie di facce storiche del periodo (Fausto Tozzi, Giovanni Elsner, Franco Ressel, persino un interprete di livello come Cyril Cusack). Manca ovviamente la violenza esasperata e il ritmo forsennato di un Enzo G. Castellari o di un Umberto Lenzi, così come i sottotesti politici di altre pellicole quali La polizia ringrazia (Steno, 1972) o il bellissimo, sottovalutato La polizia sta a guardare (Roberto Infascelli, 1973).
Allora perché parlarne? Perché per quanto sia ‘medio’ e gradevole (a parte il finale piuttosto brutto e sciatto), Paura in città sintetizza una serie di caratteristiche che hanno reso grande questo tipo di cinema. La paura del quotidiano, le crisi del sistema carcerario, la mancanza di sicurezza. E non ce ne frega niente del giustizialismo spicciolo e fascista di un Maurizio Merli che dopo aver ucciso a bruciapelo un criminale davanti ad un sacerdote esclama “tu non puoi capire, prete, io sparo anche per quelli come te, per salvarvi la coscienza”. Prima di ogni cosa c’è l’azione, la lotta dell’uomo contro l’uomo, sempre e comunque.

venerdì 14 marzo 2008

Blue Seattle. Singles


Manifesto della cosiddetta Generazione X, Singles (Singles – l’amore è un gioco, 1992) è da vedere per diversi motivi. Innanzitutto perché dopo l’acerbo debutto Say Anything... (Non per soldi... ma per amore, 1989) ha lanciato Cameron Crowe come uno dei registi più attenti alle dinamiche e agli universi giovanili. In secondo luogo perché è stato un fenomeno di culto per gli amanti del grunge, il suono di Seattle che quasi vent’anni fa ha rilanciato il rock dopo il grigiore degli ’80. Infine, perché di un bel film stiamo parlando. Crowe passa infatti in rassegna le incertezze, le paure, gli slanci di una serie di personaggi cui ci si affeziona e nei quali si proiettano ansie e debolezze comuni. Non senza un eccessivo semplicismo, difetto che si riscontra nel regista anche nelle future, migliori opere come Almost Famous (2000) e Elizabethtown (2005). Con sincerità però, poiché l’attaccamento alla materia è vivo e sentito.


Un condominio nel centro della città ospita cinque giovani che vivono turbamenti e scosse sentimentali. Steve (Campbell Scott) e Linda (Kyra Sedgwick) si incontrano ad un concerto degli Alice In Chains. Si piacciono, stanno insieme, si allontanano, affrontano un aborto, il lavoro, la mancanza di sicurezza, le possibilità del caso. Debbie (Sheila Kelley) è una svampita single in cerca dell’uomo ideale, da trovare con un annuncio per cuori solitari. Cliff (Matt Dillon) e Janet (Bridget Fonda) si inseguono e si trascurano a vicenda, salvo ritrovarsi in un ascensore e capire tutto di loro stessi. Sullo sfondo la Emerald City del 1991, piena esplosione grunge. Il clima, l’abbigliamento, i locali, ogni situazione rimanda a quel fervore e a quel periodo così pulsante. Inevitabile per un ex critico rock come Crowe (che si prende in giro rivestendo il ruolo del giornalista che intervista Cliff, singer dei fantomatici Citizen Dick) intingere la pellicola di richiami: vinili, serate live, manifesti sui muri, la gigante scritta inneggiante i Mother Love Bone che campeggia fuori il bar dove Janet lavora.


Numerosi sono i cammei degni di nota: a partire da Alice In Chains e Soundgarden colti on stage, Chris Cornell che apprezza l’impianto stereo di Cliff, Jeff Ament, Eddie Vedder e Stone Gossard che interpretano i restanti Citizen Dick (e sono assolutamente esilaranti quando seguono con somma attenzione un documentario sulle api). Senza dimenticare il regista che realizza l’orrenda clip acchiappa uomini per Debbie, un certo Tim Burton. Menzione d’obbligo per la colonna sonora, ovvia appendice ad una simile ricognizione filologica. Alice In Chains, Soundgarden, Pearl Jam, Mother Love Bone, Mudhoney, Jane’s Addiction, Screaming Trees e Smashing Pumpkins i noti. Truly e TAD i meno diffusi, altrettanto validi e fondamentali. Roba da vedere con le orecchie insomma.

mercoledì 12 marzo 2008

Occhi umidi e chitarra a tracolla. Neil Young: Heart of Gold


Magico come sempre Neil Young. Sin dai tempi dei Buffalo Springfield, del connubio storico con Crosby, Stills e Nash, passando per l’esperienza solista e il graffiante, tesissimo rock dei Crazy Horse. Fino ai nostri giorni, la collaborazione con i Pearl Jam ed il ritorno acustico al classico folk rock. Nel 2005 la notizia sconvolgente: Neil ha un aneurisma al cervello. Incurante di tutto ciò che passa per la mente (sua e di chi lo circonda), la vita gli scorre davanti e coglie così l’occasione per un tour che spezzi il silenzio. Il risultato è questo Neil Young: Heart of Gold (2006), documentario firmato Jonathan Demme che mette insieme due serate tenute il 18 e 19 agosto 2005 al Ryman Auditorium di Nashville.


Neil è stanco, si vede. Ha passo lento e aspetto dimesso. Non certo nel cuore, dal quale sgorgano note e parole fatate. Ha avuto un buco creativo di due anni, colmato – casualità della vita – subito dopo aver saputo della malattia. Lo accompagnano archi, fiati, una band in gran spolvero. La prima parte è dedicata soprattutto al materiale recente (When God Made Me, Here For You, la toccante This Old Guitar). Nella seconda partono i classici: Harvest Moon, Old Man, I Am a Child, The Needle and the Damage Done, la ballata di Ian Tyson Four Strong Winds, Heart of Gold, ovvio. Demme segue il cantante canadese con grande attenzione. Non è mai invadente, mantiene vivo il pathos con primi piani e ralenti pacati, conclude ogni brano con una dissolvenza in nero che evoca altri luoghi, un fuori campo poetico ma anche inquietante.


Perché si respira un’aria di disfacimento lungo tutto il film, come se una morte amica fosse prossima a venire e non ci fosse più tempo. Viene in mente Robert Altman e non solo perché questi due show si sono svolti a Nashville. La stessa atmosfera di vuoto, di cupa e nostalgica dissoluzione permeava quel Prairie Home Companion (Radio America, 2006) che il maestro Altman ha lasciato come ultimo gioiello prima di andarsene. E – bizzarra coincidenza? – il nome del tour è Prairie Wind. Un tributo alla vecchia America, quella rurale e ‘selvaggia’, spontanea e viva, tradizionale e contadina.
Il finale con il teatro vuoto, Neil che suona The Old Laughing Lady e ripone la chitarra nella custodia gironzolando sul palco è un sentito e commovente tributo ad un leone del rock che non smetterà mai di ruggire.

I want to live, I want to give, I’ve been a miner for a heart of gold...

sabato 8 marzo 2008

Big (rotten) Apple. State of Grace


Facile dire che di film come State of Grace (Stato di grazia, 1990) non se ne fanno quasi più. Facile perché è la verità. Se non fosse per i pochi autori rimasti e per qualche raro guizzo di genere, la deriva pulp e l’ottusità blockbuster avrebbero già inghiottito tutto. E invece solo qualche tempo fa uscivano ancora pellicole come questa, oscura e disperata ricognizione di inferni sulla terra, mancate integrazioni, passati tormentati, vite estreme, condotte ai margini e divorate dalla sete di potere. Particolare poi che un’opera del genere giunga da un regista come Phil Joanou, emerso da produzioni indipendenti fino a Final Analysis (Analisi finale, 1992) passando per il documentario sugli U2 Rattle and Hum (1988).


New York, quartiere irlandese di Hell’s Kitchen. Terry Noonan (un nervoso, fragile, esplosivo Sean Penn) torna a casa, nella sua banda, dopo aver passato tanti anni a Boston. Anni durante i quali è diventato in realtà uno sbirro. La sua gang è capeggiata da Frankie Flannery (Ed Harris) e dal fratello Jakie (ironico, eccessivo, (s)fatto Gary Oldman), amico di vecchia data. La famiglia Flannery è completata da Kathleen (Robin Wright), per la quale Terry ha sempre avuto un debole. La missione è infiltrarsi nel gruppo e carpire informazione per porre fine al giro criminale dei Flannery. Tra il dire e il fare ci sono di mezzo omicidi, ripensamenti, fughe, sigarette e alcol a fiumi, fino ad un finale splendido che fa esplodere in un ralenti magnifico (come zio Sam (Peckinpah) ha insegnato) corpi e sentimenti.

Joanou conosce bene i meccanismi del mafia movie, prende da Scorsese, De Palma, Cimino, Coppola (The Godfather è citato apertamente). Ma senza esagerare, mosso da una sana passione. Per la storia cruda e violenta, per le origini di un paese come gli Stati Uniti, nato sul/dal sangue, dagli scontri tra irlandesi e italiani, da tradizioni diverse che trovano strani, bizzarri punti d’incontro. State of Grace resta impresso soprattutto grazie ad un cast a cinque stelle, capeggiato dai suddetti Penn, Oldman, Harris e Wright ed arricchito dai vari John Turturro, John C. Reilly, Joe Viterelli e R.D. Call. Da sottolineare anche le musiche di Ennio Morricone, stranianti, sinistre, tese come il volto e le azioni di Terry.