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The Big Lebowski (Joel e Ethan Coen, 1998) è una tragicommedia su un modo tra i tanti di prendere la vita. Apparentemente il fim sembra un teatrino dell’assurdo iperreale e onirico sul cui palcoscenico si dipana una sorta di insensato hard-boiled . Nonostante, però, la tinta surreale e grottesca compia dei voli certamente pindarici, essa riesce a congiungersi alla realtà proprio nei punti surreali e grotteschi che questa è capace generare, in quelle intersezioni che ospitano le vie di fuga da una Normalità tanto ipotizzata quanto assolutamente inafferrabile nel concreto.
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Dude (Drugo nella versione italiana) è la persona più pigra del mondo, un hippie pacifista direttamente vomitato dagli anni settanta eppure, per una mera coincidenza del destino, viene implicato in una storia di complotti e rapimenti. Unica sua “colpa” è l’omonimia con un ricco e potente concittadino a cui sequestrano la moglie. Così, il nostro eroe, novello Humprhey Bogart, aiutato dai suoi due fedelissimi amici, Walter e 'Donny', si ritrova detective al soldo del potente Jeffrey Lebowski col compito di ritrovare la sua congiunta.
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E come ne Il grande sonno (The Big Sleep, Howard Hawks, 1946) anche qui il potente ha una figlia fatale e bellissima che seduce il protagonista.
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Attenti conoscitori del Cinema nelle sue più mirabolanti sfaccettature i fratelli Coen applicano agli standard dettati dalla classicità innovazioni del tutto originali e contemporanee. Ritroviamo così un eroe fantasmagorico e “inopportuno” alle prese con i più intramontabili parametri noir.
Uno che vive in un proprio personalissimo spazio ritagliato da quella suddetta normalità con due uniche occupazioni: bere white russian e giocare a bowling.
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Un perdente secondo quegli sguazzatori di normalità che hanno così tanto da fare che non fanno mai niente (Claudio Lolli, Ho visto anche degli zingari felici). Persone a cui, se solo fosse a conoscenza della loro esistenza, il Drugo non direbbe altro che: Have you ever seen the rain?
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