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È vero, i film di Jean-Pierre e Luc Dardenne sono quasi tutti uguali. Per sensibilità, struttura, stile. Qual è il problema? Domanda che viene spontaneo porsi quando si esce – scossi – dalla visione della loro ultima opera, Le silence de Lorna (2008, insensato tradurlo nello sciatto Il matrimonio di Lorna - e sorvoliamo sul doppiaggio italiano). Che prosegue nello stesso pedinamento di personaggi e situazioni tanto drammatici quanto avvolgenti. Liegi è una città luminosa, dagli squarci romantici, eppure tremendamente opprimenti. I servizi funzionano: il divorzio è pratica rapida, la droga circola come se nulla fosse, la polizia è al servizio del cittadino, la sanità gratuita e assicurata. Non ci si crede ma acquisire la cittadinanza è un affare losco, un giro di quattrini che coinvolge italiani, valloni, albanesi, russi. Sono i disastri di una Europa unita soltanto sulla carta. E i soldi che passano di mano, in bustine gialle, tra auto e negozi, distruggono anime e vite.
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Lorna è una ragazza albanese. Ha ottenuto la cittadinanza sposando per convenienza un giovane tossico belga, Claudy. Che cerca di uscire dall’eroina. Ma venirne fuori significa non poter restare vedova e risposarsi con un uomo russo, altri soldi da mettere sul conto bancario per aprire un bar con l’amato (?) fidanzato. Fabio organizza questa attività parallela, un taxista privo di senso e di scrupoli. Passano i giorni e Lorna si lega a Claudy. Non ha dimenticato di essere umana, donna. Si spoglia di tutto, dei vestiti, dei sensi di colpa, del proprio materialismo, della morale. Resta sola, con tre mariti in meno e un peso, che diventa man mano fede, speranza, fiducia, legame a qualcosa che non è mai esistito. Che forse esisterà, nel suo ventre, nella sua mente, nel suo futuro. Seduta su una panca trasformata in letto, in un bosco che è la sua nuova casa.
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