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La tristezza di una vita comunemente miserabile talvolta non è l’unica via possibile; talvolta nelle pieghe di uno scenario freddo e incolore si rintana una “luccicanza” di pensieri e soluzioni in attesa di una potenziale azione.
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Così mentre Jason Prayer (Mark Webber) consuma la sua vita di ragazzo in una miserabile cittadina statunitense tra il lavoro di benzinaio, una madre da accudire economicamente e moralmente, una malattia che gli ha fatto perdere tutti i capelli e le aggressioni immotivate di uno sconosciuto instabile, quella potenzialità di un cambiamento decisivo matura nell’alcova di una vecchia sala cinematografica in cui si proiettano solo classici, e nelle bugie di una splendida ragazza che, “rubando la vita” di Judy Garland, lo trascina nell’immaginario di un’esistenza felice.
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The Good Life (2007) è il primo lungometraggio del regista Steve Berra; presentato al Sundance Film Festival, vince il Grand Jury Prize. Un film atipico che si pone a mezz’aria tra la tradizione dell’happy end, tipica nella cinematografia hollywoodiana, e gli scenari il più delle volte drammatici del film d’autore europeo. Forse è proprio questo saper contenere insieme la tristezza e la speranza che lo rende un lavoro sorprendente, caparbio nella melanconia e nella capacità di sopravvivere a essa, o forse la sua agilità deriva tutta dall’inusualità di un Berra (sua anche la sceneggiatura) che non è un filmaker di professione. Fatto sta che la pellicola è una perla che, dopo aver trasportato lo spettatore nei meandri di un infernale comune quotidianità, lo resuscita alla luce di un’altra vita possibile. L’ascesa finale è subitanea e costruita con piccoli gesti da ripescare nell’amalgama marrone di un mondo anonimo.
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