Presentato in anteprima all'International Film Festival di Rotterdam, Future Lasts Forever (Gelecek Uzun Sürer) segna il ritorno di Özcan Alper a tre anni dal debutto Autumn (Sonbahar). Nel mezzo, il cortometraggio Moto Guzzi, episodio lieve e leggero realizzato per il film collettivo Tales from Kars (Kars Hikayeleri), nel quale la città della Turchia nord-orientale era stata rappresentata con toni teneri e fanciulleschi. Future Lasts Forever abbraccia una narrazione forte, robusta, necessaria. Sumru ha 28 anni e vive ad Istanbul. Dalla metropoli si sposta a Diyarbakır, cuore del Kurdistan turco. Il motivo del suo viaggio è una ricerca. Nella forma, quella della sua tesi, basata sulle elegie musicali dell'Anatolia. Nella sostanza, quella della sua stessa esistenza, giunta ad un bivio nel viaggio più lungo mai intrapreso nella propria vita. Lungo le strade che conducono verso abissi inesplorati, incontra Ahmet, giovane appassionato di cinema che vende film per strada, organizza cineforum e sogna Mastroianni, Belmondo, De Niro.
In una chiesa fatiscente il vecchio Antranik ricorda persone e luoghi, lacrime del tempo passato che conducono fino al villaggio di Hakkari, dove persino gli animali hanno subito torti atroci. Perché questo villaggio? Perché qui, perché adesso? Sumru affronterebbe un ritorno infinito, Ahmet è travolto dalla paura, seppure sia la cosa più simile alla vita che gli sia capitata dagli anni Novanta. I tremendi anni Novanta. Come il Philip Winter di Lisbon Story (apertamente citato lungo tutto l'arco narrativo della vicenda, ricca di echi wendersiani), Sumru raccoglie e (ri)crea suoni tra le vie di Diyarbakır, ricostruendo pezzi di una memoria negata e sconosciuta. Lo stato delle cose è una guerra senza nome, un capitolo dimenticato di storia (Kurdistan e PKK) che Alper descrive con lucido e commovente lirismo. Il cavallo di Hakkari, impaurito dai proiettili, scavalca le recinzioni e si precipita verso un altrove che ha il vero sapore della libertà. La ricerca delle testimonianze di un'oppressione durissima (il campo/controcampo delle interviste ai parenti delle vittime, quanto di più crudo e toccante il cinema turco abbia affrontato negli ultimi tempi) fa da contraltare a toni da road movie che sfociano in una love story meditabonda e pudica. Rovine e miserie del nostro tempo, di un passato recente il cui sangue è impossibile lavare. La fotografia evocativa di Feza Çaldıran e le musiche dolorose di Mustafa Biber sono ulteriori tasselli di un'incrostazione del vissuto chiamata futuro.
«Ora che ho visto cos'è la guerra, cos'è la guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: E dei caduti che facciamo? Perché sono morti?» (Cesare Pavese, La casa in collina)