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martedì 29 dicembre 2009

Non è più tempo di eroi, Kathryn


«La furia della battaglia provoca una forte e letale dipendenza, perché anche la guerra è una droga». E come tutte le droghe cambia con il mutare dei tempi. La contemporaneità ci ha dato la Grande Guerra, logorante e dirompente come una dose d’eroina. Poi la Seconda guerra mondiale, overdose di crack destinata a lasciare segni indelebili. Corea e Vietnam dovevano essere veloci boccate di hashish, tramutatesi in folli balletti lisergici. Ora arrivano l’Afghanistan e l’Iraq, il tempo di una bevuta di whisky e una botta da ketamina. L’elaborazione dell’invasione trova specchio nella distorsione della realtà. E della sua interpretazione. L’occhio si frantuma. Si cristallizza e scricchiola sotto i colpi di fucile. Restano l’etica individualista, il bisogno d’azione, la negazione della collettività di tanti sporchi eroi che le battaglie fagocitano e risputano in fretta.


Lo sapeva bene un Maestro come Robert Aldrich. È bellissimo rivedere oggi Too Late the Hero (Non è più tempo di eroi), anno 1970. Uno di quei film coinvolgenti, vigorosi, robusti. Con un cast a cinque stelle (Cliff Robertson, Henry Fonda, Ian Bannen, un titanico Michael Caine) e una regia che sin dalle sequenze iniziali (le bandiere giapponese, inglese e americana lacerate dal vento e dallo scorrere del tempo) mette i brividi. La dozzina è sempre sporca, anzi, in questo caso è dannatamente marcia. In un’isola delle Ebridi, fronte del Pacifico, un maggiore yankee non troppo convinto del proprio ruolo si aggrega ad una compagnia british di disertori e lavativi per far saltare una stazione radio nippo. Salvare la pelle si rivelerà impresa difficile. Tuttavia non sono il valore solidale o l’etica di guerra che Aldrich cerca. Piuttosto, ribadisce un cinismo tutto umano, che è negazione dell’associazione di persone ed esaltazione di azioni puramente individuali. Il conflitto resta come sullo sfondo, un mistero incomprensibile che unisce gli uomini, che siano americani, inglesi o giapponesi (il maggiore pacato e scaltro). La corsa finale tra il fuoco incrociato dei nemici ed il raggiungimento della status d’eroe («Ha ucciso 15 nemici; anzi 30. Faccia lei») non serve ad altro che a sconfessare l’eroismo. Perché «morire in guerra è cretino e crudele».


Quasi 40 anni dopo, è Kathryn Bigelow la sola ad animare d’azione e riflessione profonda i problemi a stelle e strisce nel Medio Oriente. The Hurt Locker (2008) è meno teorico sul punto di vista rispetto al capolavoro di Brian De Palma Redacted. Rifiuta la commozione, la ricerca ostinata di una verità storica, l’umanesimo e certa retorica di Paul Haggis in Nella valle di Elah (2007). Nell’Iraq della Bigelow si consumano i drammi antropologici del nostro tempo. I nemici non hanno un volto, non sono distinguibili. Come i confini tra realtà e rappresentazione. Siamo allo sbando, scaraventati in prima linea da una politica confusa e indifferente. L’unica soluzione per chi è al fronte è l’azione pura. La squadra speciale dell’Esercito statunitense che disinnesca bombe per professione agisce con freddezza e lucidità da professionisti. Dietro questa scorza ci sono alcol, confusione dei ruoli, drammi psicologici, tensioni e difficoltà d’adattamento. Tra buoni e cattivi non c’è più alcuna distinzione. La regia è perfetta nel combinare il rock duro e graffiante dei Ministry e tensione costante, zoom sfocati e rapida macchina a mano, l’adrenalina che pompa alle scelte che costano una vita, tante vite. La guerra è come una droga, ottunde la volontà degli uomini, ne confonde doveri e spirito di sopravvivenza. Lo stile ruvido, asciutto, muscolare della Bigelow sarebbe piaciuto tantissimo ad Aldrich. Come dire, per affrontare certi meccanismi psicologici occorre una sensibilità fuori dal comune.
War. It’s a dying business.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Ciao, davvero molto bello il tuo blog, passa anche dal mio se ti va, un bacio! ^__^ http://diariodielvira.blogspot.com/