Prima che il clamore dell'edizione 2007 cominci (dopo Cannes, durante Venezia) inauguriamo il blog con questa sorta di piccola retrospettiva.
Il concetto chiave è: il glamour passa, i film restano.
Quel che rimane della prima edizione della Festa del Cinema di Roma è un insieme scomposto di luci ed ombre. Aspetti migliorabili in futuro, ma non è ciò che ci interessa (almeno non adesso). A parlare sono i film, le loro azioni e reazioni. Immagini fiume che centrano i nodi scoperti della vita politico sociale, umana e morale. Il mondo d’oggi e i suoi conflitti, irrisolti e a volte irrisolvibili perché innati nella natura dell’uomo. Come l’acqua, elemento che tutto travolge e tutto crea.
Elemento essenziale perché fondante e distruttivo, forza che è al centro di uno dei film più estremi presentati in concorso, Nightmare Detective di Tsukamoto Shinya. Proseguono incubi e visioni post moderne, alienazioni e contaminazioni. Il percorso iniziato con Tetsuo e Tetsuo II, portato alle estreme conseguenze da Tokyo Fist, Bullet Ballet, A Snake Of June e Vital. Il tiro stavolta è spostato sull’horror e la ‘detection’, ma è un puro pretesto per parlare d’altro. Gli incubi dell’infanzia, i meandri della mente, i labirinti onirici. Ma soprattutto il conflitto (eterno in Tsukamoto) tra gli elementi costitutivi delle odierne metropoli, uomo e metallo, donna e cemento. E l’inadeguatezza che spinge all’annullamento, il senso di impotenza, la mancanza sociale di un ruolo, vera onta nella cultura giapponese. L’assassino che invade i sogni è Shinya, è il demiurgo, è il vampiro che succhia il nostro sangue, colui che alimenta la nostra vita di immagini e suoni (crepitii, squarci, loop soffocanti). Bestia armata di coltello, sventra il nostro stomaco per alimentare la nostra mente, scava a fondo per toccare il nulla e ripartire da zero.
Come la parabola che dipinge Otar Iosseliani in Jardins en automne, suo ultimo film, forse non uno dei suoi migliori ma ugualmente significativo. Vincent (Séverine Blanchet) è un potente ministro che sembra avere tutto dalla vita: ricchezza, fama, amore. Ma gli imprevisti sono dietro l’angolo e persa la sua importante carica non smarrisce il suo ottimismo. Questa svolta è per lui l’inizio di una nuova vita.Potere (i suoi passaggi che diventano mancanza) e dovere (ma quale in realtà?), vita e morte, povertà e ricchezza. Gioca tutto sul terreno della rivalsa/riscoperta il regista georgiano, dispensatore di consigli, anima di bozzetti teneri e tremendamente umani. Tutto sembra sfuggire, il tempo scorre inesorabile, perché in fondo ci sono sempre ‘i giardini in autunno’. Simboli e uomini che corrono (e si rincorrono), a volte stancamente, altre con graffiante ironia. È possibile una scappatoia, un altro mondo? Il regista non lo svela (è un vuoto nel cuore di tutti?), restano soltanto tanti animali (un ‘bestiario’ che ‘tormenta’ da sempre la sua opera) che vivono e si confondono agli esseri umani. Semplicemente perché più umani.
Se la contemporaneità è sbandamento, perdita di senso, il recupero dell’identità è una delle chiavi per leggere il presente. È il passo (eterno) che compie Robert Guédiguian nel suo Le voyage en Armenie. Film sottotono rispetto a precedenti opere quali Marius e Jeannette, Á l’attaque e La ville est tranquille ma comunque di impianto solido, come le scelte che il regista francese assegna ai suoi personaggi. Barsam (Marcel Bluwal) scopre di essere gravemente malato e corona il suo sogno di tornare nella terra natia, l’Armenia. Non prima di aver lasciato qualche insegnamento in eredità alla figlia Anna (Ariane Ascaride, premiata dalla giuria della Festa come migliore interprete femminile), che dopo questa esperienza si troverà cambiata. Riflette sulla propria terra d’origine Guédiguian, guardando al genocidio armeno (“non sono le leggi che fanno la realtà ma i dati incontestabili che fanno le leggi”, ha dichiarato), all’odio che alimenta le banlieue, alla vicinanza/lontananza turca, all’ormai insostenibile dittatura economica delle multinazionali. E lo fa attraverso la ricerca di una identità che passa per processi di occidentalizzazione coatti, ritorni alle radici e sensi di appartenenza inimmaginabili. Anche perché proprio le diaspore dei popoli sono elementi da studiare da vicino “per capire il problema dell’identità, quella sognata e quella reale”.
Eredità e colpe da assolvere, generazioni a confronto dunque. Intreccio che ritorna, carne che pulsa e corpi che vibrano in Fu zi – After This Our Exile del maestro di Hong Kong Patrick Tam. Un ritorno in grande stile con un film intenso, sofferto, un legame forte e disperato al tempo stesso tra un padre e un figlio. Vincolo che si sfalda quando il ragazzo è costretto a rubare per poter pagare i debiti del genitore. Si ritroveranno dieci anni dopo, quando molte cose sono ormai cambiate. Incrocio di destini (tremendi), Fu zi è anche un potente affresco famigliare, tocca corde universali, pone domande che lascia volutamente irrisolte. È una tragedia che si consuma ogni giorno, profonda crisi dei rapporti di sangue e della (obbligatoria? obbligata?) necessità di far proseguire ciò che è stato. La paura del vivere è giustificabile? Quanto lasciamo (sacrifichiamo) di noi negli altri? Tutte domande che Tam rivolge a se stesso e allo spettatore, in una spirale di azioni e contraddizioni: chi fugge nonostante ami profondamente il proprio, unico figlio, le memorie dell’infanzia che tornano a galla, la redenzione possibile, voluta ma respinta. La macchina da presa apre il cuore e lo tocca profondamente. Come nella migliore tradizione del cinema di Hong Kong, una cinematografia in crisi da diversi anni ormai.
Ancora padri e figli, ancora generazioni in crisi (di identità, di prospettive diverse su nascita e crescita). Il film è Nacido y criado - Born and Bred di Pablo Trapero. I paesaggi assoluti e desolati della Patagonia fanno da sfondo alle vicende di Santiago, sconvolto dalla morte della propria famiglia e alle prese con un viaggio verso il nulla. Quel nulla che è grembo materno, punto in cui (ri)nascere e riappropriarsi nel dolore della propria identità, del rapporto con Madre Terra. Una fuga che è anche fuga dalla società civile, da obblighi che non appartengono, ai quali però si è spesso vincolati. Come un figlio è legato al proprio padre, un uomo prima o poi sarà genitore di qualcuno. I fantasmi del passato riaffiorano, il gelo assale uomini, paesaggi e oggetti, è impossibile continuare a comunicare. I confini sono quelli del mondo, interiore ed esteriore, sono la deriva di una esistenza, di un mondo che ha smesso da tempo di vivere. Un ricordo che si infiamma, immagine che prosegue a girare nella mente, nel corpo. Come l’illusione del cinema, che affronta storie e le riflette, ce le offre e ci inganna, in un meccanismo di duplicazione della realtà che è la nostra stessa vita, la nostra stessa morte. Fino a quando non cala il silenzio, più forte di tante grida e di tanta azione, e nel cuore (di Santiago, di Trapero, dello spettatore) cala il buio. Il silenzio della sala, l’oscurità solitaria della proiezione. L’inganno costruito dalla macchina da presa, l’impossibilità di accettare il lutto come eclissi di un pianeta (audio visivo) che da tempo ha smesso di comunicare. Ma che paradossalmente, muto/a e cambia. Parlando(ci) più di quanto si possa credere.
Ennesima variazione sullo stesso tema è Wu Qingyuan - The Go Master di Tian Zhuangzhuang. Uno dei film meno compresi della kermesse, è la storia di Wu Qingyuan, il più importante giocatore al mondo dell’antico Go. Attraverso le sue vicende il regista tratteggia in modo toccante e poetico oltre cinquant’anni di storia del Giappone, dai conflitti politico razziali con la Cina alla Seconda Guerra Mondiale, dalle bombe di Hiroshima e Nagasaki all’apertura odierna verso l’occidente. Sensibilità profonde che si inseguono, culture che si incrociano in un andirivieni di immagini soavi e profonde che non possono non ricordare il maestro Kurosawa. Lo stile elegante di Zhuangzhuang è funzionale alla narrazione, una vita ‘esemplare’ per capire cosa significhi la fede nell’esistenza di un uomo. Dedizione anima e corpo in un’impresa titanica per liberarsi dagli aspetti materiali del mondo, rispettando se stessi e gli altri. Un tratto comune di tutta cultura orientale (cinese, giapponese, coreana che sia), tanto ignorata o incompresa nello sfavillante e vuoto occidente. L’illuminazione, la coscienza di sé e dell’altro da sé, la distanza tra paesi così vicini eppure così lontani. Il Go pone rimedio, scandaglia l’animo e insegna ad osservare, a prendere possesso (non in senso materiale, ovvio) delle cose. Perché la vita è nel tutto, nell’equilibrio che governa l’intelletto e l’esperienza, le pietre che si affrontano (bianco e nero, yin e yang, l’armonia perfetta che scaturisce dai segni) come gli uomini che si battono per le strade di Tokyo e di Pechino. Ma la sfida ha un sapore e un senso diversi, è l’allargamento dei propri confini, dell’essenza interiore, di una riflessione profonda sul dono divino, ‘la via degli dei’ che si segue e improvvisamente, tremendamente si abbandona. La vita e la fede nel gioco del Go, riflessione profonda sul senso dell’esistere e del confronto con il diverso.
Cardine di uno dei migliori film visti alla Festa di Roma (Festa o Festival? Anche qui conflitto - volutamente - irrisolto), L’Héritage - The Legacy di Gela e Temur Babluani. Un’opera piccola ma preziosa, folgorante proprio nella sua cercata, ostentata semplicità, nel suo tremendo minimalismo. Caratterizzata da una fotografia realistica tanto da risultare ‘surreale’, la pellicola è un road movie atipico, così diverso e scostante da differenziarsi anche da 13 (Tzameti), brillante esordio dietro la macchina da presa di Gela. Due ragazze e un ragazzo francesi ereditano un maniero in Georgia, raggiungono con il loro interprete il luogo, ma il viaggio in pullman non è facile e a condividere il loro destino è presente una umanità varia e assortita. Tra i passeggeri, due uomini - nonno e nipote - che si stanno recando presso il villaggio nemico dove il vecchio sarà sacrificato affinché il conflitto esistente fra famiglie rivali cessi per sempre. Disperazione e allegria, svuotamento e fatalismo. L’oggi non ha un senso se non nel vivere il destino (tragico) con curiosità e una bottiglia di vodka. Impossibile comprendere per tre occidentali le antiche leggi e gli arcani rituali che popolano i villaggi dei monti georgiani. Presunzione di ingabbiare con una telecamera una faida che prosegue da anni, un cerchio che finalmente si chiude. D’altronde l’immagine è falsa, come un muto che si finge tale e un conflitto rappresentato, non vissuto. La disperazione è quella che i popoli dell’est hanno (avuto?) nel cuore dopo la caduta del muro di Berlino. La libertà è un sentimento ignoto, la modernità convive con la tradizione. Un sentimento di morte si avvicina minaccioso, imprigionato nella macabra danza finale. Un fotogramma che si ferma, beffardo ed eccentrico. Che senso ha la vita? Che senso ha il vivere d’oggi? Babluani si pone nel mezzo, tra vita e morte, giovinezza e vecchiaia, tradizione e rinnovamento. Non pretende di capire né di rappresentare, come il suo interprete, irreale e grottesco, fissato in un istante che rimane per sempre. Come il mal di vivere che attanaglia il nostro mondo. È davvero tutta una festa?
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