find the path
martedì 29 dicembre 2009
Non è più tempo di eroi, Kathryn
«La furia della battaglia provoca una forte e letale dipendenza, perché anche la guerra è una droga». E come tutte le droghe cambia con il mutare dei tempi. La contemporaneità ci ha dato la Grande Guerra, logorante e dirompente come una dose d’eroina. Poi la Seconda guerra mondiale, overdose di crack destinata a lasciare segni indelebili. Corea e Vietnam dovevano essere veloci boccate di hashish, tramutatesi in folli balletti lisergici. Ora arrivano l’Afghanistan e l’Iraq, il tempo di una bevuta di whisky e una botta da ketamina. L’elaborazione dell’invasione trova specchio nella distorsione della realtà. E della sua interpretazione. L’occhio si frantuma. Si cristallizza e scricchiola sotto i colpi di fucile. Restano l’etica individualista, il bisogno d’azione, la negazione della collettività di tanti sporchi eroi che le battaglie fagocitano e risputano in fretta.
Lo sapeva bene un Maestro come Robert Aldrich. È bellissimo rivedere oggi Too Late the Hero (Non è più tempo di eroi), anno 1970. Uno di quei film coinvolgenti, vigorosi, robusti. Con un cast a cinque stelle (Cliff Robertson, Henry Fonda, Ian Bannen, un titanico Michael Caine) e una regia che sin dalle sequenze iniziali (le bandiere giapponese, inglese e americana lacerate dal vento e dallo scorrere del tempo) mette i brividi. La dozzina è sempre sporca, anzi, in questo caso è dannatamente marcia. In un’isola delle Ebridi, fronte del Pacifico, un maggiore yankee non troppo convinto del proprio ruolo si aggrega ad una compagnia british di disertori e lavativi per far saltare una stazione radio nippo. Salvare la pelle si rivelerà impresa difficile. Tuttavia non sono il valore solidale o l’etica di guerra che Aldrich cerca. Piuttosto, ribadisce un cinismo tutto umano, che è negazione dell’associazione di persone ed esaltazione di azioni puramente individuali. Il conflitto resta come sullo sfondo, un mistero incomprensibile che unisce gli uomini, che siano americani, inglesi o giapponesi (il maggiore pacato e scaltro). La corsa finale tra il fuoco incrociato dei nemici ed il raggiungimento della status d’eroe («Ha ucciso 15 nemici; anzi 30. Faccia lei») non serve ad altro che a sconfessare l’eroismo. Perché «morire in guerra è cretino e crudele».
Quasi 40 anni dopo, è Kathryn Bigelow la sola ad animare d’azione e riflessione profonda i problemi a stelle e strisce nel Medio Oriente. The Hurt Locker (2008) è meno teorico sul punto di vista rispetto al capolavoro di Brian De Palma Redacted. Rifiuta la commozione, la ricerca ostinata di una verità storica, l’umanesimo e certa retorica di Paul Haggis in Nella valle di Elah (2007). Nell’Iraq della Bigelow si consumano i drammi antropologici del nostro tempo. I nemici non hanno un volto, non sono distinguibili. Come i confini tra realtà e rappresentazione. Siamo allo sbando, scaraventati in prima linea da una politica confusa e indifferente. L’unica soluzione per chi è al fronte è l’azione pura. La squadra speciale dell’Esercito statunitense che disinnesca bombe per professione agisce con freddezza e lucidità da professionisti. Dietro questa scorza ci sono alcol, confusione dei ruoli, drammi psicologici, tensioni e difficoltà d’adattamento. Tra buoni e cattivi non c’è più alcuna distinzione. La regia è perfetta nel combinare il rock duro e graffiante dei Ministry e tensione costante, zoom sfocati e rapida macchina a mano, l’adrenalina che pompa alle scelte che costano una vita, tante vite. La guerra è come una droga, ottunde la volontà degli uomini, ne confonde doveri e spirito di sopravvivenza. Lo stile ruvido, asciutto, muscolare della Bigelow sarebbe piaciuto tantissimo ad Aldrich. Come dire, per affrontare certi meccanismi psicologici occorre una sensibilità fuori dal comune.
War. It’s a dying business.
giovedì 10 dicembre 2009
Misteri del cinema italiano. La bella gente
Misteri del cinema italiano. C'è un film, opera seconda di Ivano De Matteo. Si chiama La bella gente. Vince il festival di Annecy, partecipa all'ultimo festival di Torino, viene apprezzato in lungo e in largo per il mondo. E soprattutto non è neanche un "piccolo" film, perché vanta nel cast attori di primo piano come Antonio Catania, Monica Guerritore, Elio Germano, Iaia Forte. Eppure. Eppure non ha una distribuzione. Il che significa che per vederlo in sala (o in dvd) dovremo aspettare. Cosa poi è lecito chiederselo, vista la miopia di un sistema che - come la buona borghesia - si basa su ipocrisie e tendenze fasulle.
La bella gente è la storia di Alfredo e Susanna. Alfredo è un architetto, Susanna una psicologa. Persone borghesi e progressiste, cinquantenni dall’aria giovanile, dalla battuta pronta e lo sguardo intelligente. Vivono a Roma ma trascorrono i fine settimana e parte dell’estate nella loro casa di campagna all’interno di una tenuta privata. Un giorno Susanna, andando in paese, resta colpita da una giovanissima prostituta che viene umiliata e picchiata da un uomo sulla stradina che porta verso una strada statale. Decide di salvare quella ragazza. Quel gesto le cambierà per sempre la vita. E sconvolgerà gli equilibri della sua famiglia.
Prodotto da X Film, presentato al Torino Film Festival e vincitore del Gran Premio del Festival del cinema italiano di Annecy, La bella gente è l’opera seconda di Ivano De Matteo, un passato tra laboratori teatrali, cortometraggi, documentari e importanti ruoli da attore. Scritto da Valentina Ferlan, girato in 4 settimane con un budget esiguo (450.000 Euro) e interpretato da un cast eccezionale (Monica Guerritore, Antonio Catania, Elio Germano, Iaia Forte, Giorgio Gobbi, Victoria Larchenko, Myriam Catania), il film di De Matteo è un’opera capace di sconvolgere e turbare. Dietro la semplice linearità del soggetto, scorre una «progressione psicologica da thriller», una ferocia nel tratteggiare personaggi così “normali” da risultare anormali. Una riflessione acuta, tagliente e spietata sulla solidarietà, sull’indifferenza, sull’(in)esistenza delle divisioni e delle classi sociali.
L’ipocrisia regna sovrana in alcuni ambienti borghesi, come afferma lo stesso De Matteo: «L’ipocrisia è come il colesterolo, c’è quella buona e quella cattiva. C’è l’ipocrisia che serve per andare avanti, per non risultare magari offensivi, e quella cattiva, quella perbenista». I protagonisti del suo film valicano questo labile confine: credono di avere una certa personalità, certi ideali, certi progetti di vita. Naufragano invece nel disordine e nel caos non appena l’imprevisto si presenta. Deviazioni che conducono ad essere altro da sé e producono un individualismo esacerbato, portato alle estreme conseguenze nell’amaro finale.
Senza concessioni di sorta alla retorica o al didascalismo, De Matteo non punta il dito. Indica piuttosto una direzione, (de)componendo un affresco dell’attuale società italiana, tra false apparenze, ipocrisia dei sentimenti, schiavitù delle convenzioni. Il baratro verso cui i personaggi sprofondano è inversamente proporzionale al ritmo che la regia conferisce alla vicenda. Un’angolazione realistica e urgente per mettere in scena un pezzo di paese franato nell’autocompiacimento e nell’ingordigia, di materia e sentimenti. Perché «è difficile capire come comportarsi quando la persona a cui dai tanto inizia a prendere». La fine di un sogno che tra una lacrima, un sorriso beffardo e una porta che si chiude, fa rivivere il meglio della commedia italiana.
lunedì 23 novembre 2009
Il cinema folle ed estremo di FFC: Tetro
Oscuro, buio, opaco, tetro. Tetro come Tetrocini: Carlo, Alfredo, Angelo, Bennie. Una famiglia nella quale i segreti si mescolano agli affetti, i risentimenti e la generosità alla competizione, alla rivalsa e al distacco. Ritorno in grande stile di Francis Ford Coppola dopo il complesso, ispido, a tratti irrisolto Youth Without Youth (Un’altra giovinezza, 2007). Un ritorno che è anche un tuffo in ciò che è stato prima di successi, turbamenti e fallimenti: il cinema puro e incontaminato di The Rain People (Non torno a casa stasera, 1968) o del progenitore diretto Rumble Fish (Rusty il selvaggio, 1983), ricco di sperimentazione, svincolato da qualsiasi tipo di calamita spettacolare. Grado zero della poetica coppoliana, come il bianco e nero fulgido che domina la pellicola.
Tetro (Segreti di famiglia) è l’odissea famigliare che trapassa tre generazioni. Angelo Tetrocini detto Tetro (il volto squadrato e impenetrabile di Vincent Gallo) è uno scrittore in piena crisi, trasferitosi in Argentina per ritrovare (o perdere) sé stesso. Suo padre Carlo è un geniale direttore d’orchestra, sebbene abbia sottratto questo incredibile talento al fratello Alfie (meravigliosi i due interpreti: Klaus Maria Brandauer & Klaus Maria Brandauer). Recriminazioni e ossessioni che ritornano con l’arrivo di Bennie (Alden Ehrenreich), giovane marinaio che darà una svolta improvvisa a passato, presente e futuro. Come una luce che abbaglia, squarcia un velo e acceca una intera esistenza.
Nonostante i toni intimi, quasi sommessi, l’epica dinastia di Tetro si nutre di un cinema libero e selvaggio, ironico e autobiografico. Il bianco e nero, i quartieri popolari di Buenos Aires, le squallide eppure vive (e improvvisate) rappresentazioni teatrali, il viaggio in Patagonia, personaggi strambi che invadono la scena (su tutti, la critica Alone incarnata da una superba Carmen Maura) sono pezzi di un immaginario folle, bizzarro, delizioso. È il cinema che si (dis)fa, a volte ipocrita e falso (il premio letterario e il suo teatrino di gala, schermi riflettenti e paillette), a volte abbagliante e necessario per ricomporre un vortice che è percorso di una vita intera. È così che inaspettati arrivano flashback dove il colore esplode e nasce il melodramma, la fantasia; in quell’angolo dove Powell e Pressburger costruiscono e mettono in scena le loro Scarpette rosse.
Perché come ha affermato lo stesso Coppola, «nulla di quello che avete visto in questo film è veramente successo. Ma è tutto vero». Come è vero che Tetro è stato scritto, diretto, prodotto e distribuito negli Usa (in Italia da Bim, un applauso) dal regista. Dopo anni di sacrifici economici, fallimenti, progetti abortiti, Tetro rivive come una rinascita dal basso. La politica degli autori torna prepotente a riaffermare con il suo miglior interprete il primato ed il candore del cinema indipendente.
lunedì 16 novembre 2009
Il cinema che docu-mente: Angès Varda
«È difficile trovare la propria identità femminile nella società, nella vita privata, nei rapporti con il proprio corpo. Questa ricerca di identità ha un senso per una cineasta: significa anche girare in quanto donna». Parola di Agnès Varda. Figura centrale nella storia del cinema, non solo francese, non soltanto femminile. Nata a Bruxelles il 30 maggio 1928, è a Parigi che compie gli incontri fondamentali della propria vita. Tra questi Jacques Demy, suo futuro marito, e Alain Resnais, che la aiuta nel montaggio del primo film La pointe courte (1954). Qualcuno parla di Nouvelle Vague, etichetta sempre rifiutata dalla regista, gabbia troppo stretta da poter sopportare.
Piuttosto, nel cinema di Agnès Varda convivono elementi disparati: l’immobilità essenziale della fotografia, i piani fissi e gli spazi profondi del realismo documentaristico, la visionarietà che parte da diversi spunti quotidiani. Una ricerca linguistica che porta la regista a sviluppare il concetto di cinécriture, lo scrivere direttamente per il cinema, senza intermediazioni letterarie o teatrali, avendo già in mente scene, movimenti, stacchi. È qui che nasce un modo moderno di fare cinema, che si discosta da quello del passato (il cinéma de papa tanto avversato dai membri dei «Cahiers du cinéma») e anticipa evoluzioni narrative future. Cléo de 5 à 7 (1962) è il suo primo successo, la storia di una giovane cantante (Corinne Marchand) in attesa di una diagnosi medica che potrebbe rivelarle una tremenda malattia. La paura della morte, la (ri)scoperta di una identità profonda, l’apertura all’Altro, il ruolo delle apparenze, il timore dell’attesa. Realtà ed immaginazione si fondono, non c’è alcuna distanza tra quotidianità e finzione.
Le bonheur (Il prato verde dell’amore, 1965) è un altro capitolo soave e difficile di sentimenti ed emozioni, fotografia famigliare di felicità interrotte e ritrovate. Forti ambiguità percorrono invece Les créatures (1966), splendidamente interpretato da Michel Piccoli e Catherine Deneuve. Decisivo è l’impegno politico della Varda, testimone di un periodo sociale turbolento: nel 1968 gira Loin du Vietnam con Chris Marker, Joris Ivens, Claude Lelouch, Jean-Luc Godard, William B. Klein e Alain Resnais; del 1963 è Salut les cubains!, cortometraggio di montaggio su un viaggio a Cuba ai tempi della rivoluzione castrista. È questo il suo modo di operare: fissare una foto, un corpo, un oggetto, e immaginarne una storia, un percorso. Come per Ulysse (1982) - realizzato a partire dalla foto di un bambino in compagnia di una capra morta e di un uomo nudo di spalle, scattata nel 1964 - o per Sans toit ni loi (Senza tetto né legge, 1985), film che le fa vincere il Leone d’oro alla Mostra di Venezia. Opera dal taglio lucido e asciutto, ‘nomade’ come la protagonista interpretata da Sandrine Bonnaire, tra il documentario antropologico (senza ricatti morali di sorta) e il lirismo misterioso, con improvvisi sbalzi ironici e domande che restano (volutamente) senza risposta.
Nel 1987 dedica all’amica Jane Birkin Jane B. par Agnès Varda; con la stessa attrice realizza l’anno successivo Kung-Fu Master, vicenda morbosa in bilico tra passato e presente, familiare anche nel cast, composto da Charlotte Gainsbourg (figlia della Birkin) e Mathieu Demy (figlio della regista e di Jaques Demy). Proprio al compagno è dedicato il doloroso Jaquot de Nantes (1990), ritratto degli anni giovanili e dei ricordi legati al marito da poco scomparso, in un intreccio straziante di arte e vita. Il film fa il paio con il sentito e commosso Garage Demy (1991), percorso esistenziale che esalta l’amore per il cinema ed il suo potere evocativo. Materializzazione dei sogni che Les cent et une nuits (1995) mette in scena con delicatezza e passione: un excursus sulla storia della settima arte, affidata alle lacune di memoria di Monsieur Cinéma (Michel Piccoli) rinfrescate dalla giovane e bella Camille (Julie Gayet) e dall’amico italiano Marcello Mastroianni.
Gli ultimi anni portano in dote ad Agnès Varda un nuovo carico di idee e pulsioni creative. Les glaneurs et la glaneuse (2000) è un documentario girato con rigattieri, spazzini e robivecchi, spigolatori e spigolatrici di oggi. Persone che recuperano cose buttate da altre persone. E che proprio grazie ai rifiuti della civiltà dei consumi, hanno speranza per sopravvivere. Dall’emarginazione di ciò che filma, la regista fa emergere un potente autoritratto, perché il raccogliere di questi personaggi è come il suo filmare. Nelle parole di François De Backer, «Agnès Varda coglie l’insolito, l’ingiustizia, la miseria, ma anche la simbiosi con la natura, il piacere di vivere all’aria aperta, i gesti semplici e immemori della raccolta». Deux ans après (2002) fa da appendice a Les glaneurs et la glaneuse, quel che le persone incontrate e filmate per la precedente opera sono diventate nel corso del tempo: «un film vero, gioioso, emozionante e stimolante quanto il primo: ispirato dalla quantità straordinaria di lettere ricevute, di messaggi di ammirazione, ma anche da oggetti, fantasie e informazioni fornite dai suoi spigolatori» (Jean-Michel Frodon). Fino a giungere all’ultimo Les plages d’Agnès (2008), altro patchwork di immagini, racconti, spezzoni di film, incontri dal carattere evocativo. Stavolta sono le spiagge a fungere da brandelli di memoria per comporre un’istantanea su un piccolo, fondamentale universo privato. La Mostra di Venezia torna a premiarla con la consegna del premio “Jaeger-LeCoultre Glory to the Filmmaker”. E lei ricambia nell’Edizione 66 del 2009, regalando a Angela Ismailos umori ed impressioni dal suo cortile parigino per Great Directors.
La poetica del mentir vrai, del ‘mentire vero’, ha trovato in Agnès Varda sintomatica esposizione. Un cinema che ‘docu-mente’, perché affonda l’obiettivo della macchina da presa nella realtà, e al tempo stesso ne coglie tratti nascosti, intimi, quasi invisibili. Un cinema che ha fatto della cinécriture la sua cifra qualificativa, perché «lo stile del film non dipende dalla sceneggiatura. La cinécriture è un commento e una sceneggiatura che si scrivono senza interruzione per tutta la durata delle riprese». Riprese lunghe quanto una vita.
giovedì 25 giugno 2009
What about The Good Life?
La tristezza di una vita comunemente miserabile talvolta non è l’unica via possibile; talvolta nelle pieghe di uno scenario freddo e incolore si rintana una “luccicanza” di pensieri e soluzioni in attesa di una potenziale azione.
Così mentre Jason Prayer (Mark Webber) consuma la sua vita di ragazzo in una miserabile cittadina statunitense tra il lavoro di benzinaio, una madre da accudire economicamente e moralmente, una malattia che gli ha fatto perdere tutti i capelli e le aggressioni immotivate di uno sconosciuto instabile, quella potenzialità di un cambiamento decisivo matura nell’alcova di una vecchia sala cinematografica in cui si proiettano solo classici, e nelle bugie di una splendida ragazza che, “rubando la vita” di Judy Garland, lo trascina nell’immaginario di un’esistenza felice.
The Good Life (2007) è il primo lungometraggio del regista Steve Berra; presentato al Sundance Film Festival, vince il Grand Jury Prize. Un film atipico che si pone a mezz’aria tra la tradizione dell’happy end, tipica nella cinematografia hollywoodiana, e gli scenari il più delle volte drammatici del film d’autore europeo. Forse è proprio questo saper contenere insieme la tristezza e la speranza che lo rende un lavoro sorprendente, caparbio nella melanconia e nella capacità di sopravvivere a essa, o forse la sua agilità deriva tutta dall’inusualità di un Berra (sua anche la sceneggiatura) che non è un filmaker di professione. Fatto sta che la pellicola è una perla che, dopo aver trasportato lo spettatore nei meandri di un infernale comune quotidianità, lo resuscita alla luce di un’altra vita possibile. L’ascesa finale è subitanea e costruita con piccoli gesti da ripescare nell’amalgama marrone di un mondo anonimo.
mercoledì 8 aprile 2009
La Natura di Miyazaki
Princess Mononoke (Mononoke Hime), Hayaho Miyazaki, 1997: quando nei disegni di un autore dolce, prende forma la vita dormiente. La vita, cioè, che si manifesta allorché smettiamo di agire meccanicamente e scivoliamo nei tratti indistinti dei nostri pensieri inconsapevoli; o meglio, divenuti inconsapevoli perché sepolti dagli “incubi” di una quotidianità spesso piena di confortevole ovvietà e priva di sufficiente, vitale e naturale immaginazione.
Mononoke, lontano dall’essere il nome della principessa protagonista, significa in realtà Spiriti della Vendetta. In riferimento agli Dei della foresta che, nel racconto, si trasformano in Demoni ogni qualvolta vengono feriti mortalmente dagli uomini.
Il film racconta del Paese del Ferro costruito ai margini di una magnifica foresta e governato da Eboshi, una spietata signora. Il villaggio è atto alla costruzione di armi da fuoco e - per procurarsi le necessarie risorse - al disboscamento della foresta stessa. Si tratta, dunque, del racconto di una guerra tra gli umani e le forze della natura rappresentate dagli Dei-Animali e dalla principessa San, quella del titolo, un’umana cresciuta dai lupi. Nel mezzo delle due fazioni vi è il Principe Ashitaka.
Onirica ma splendente fiaba, La Principessa Mononoke è un racconto che si apre a molteplici livelli di interpretazione. Sicuramente narra della violenza cieca dell’Uomo nei confronti del pianeta. Ma, se si volesse osare e spingersi oltre, si potrebbe immaginare quella foresta piegata ai soprusi, come la Natura stessa degli esseri umani; una Natura spontanea - la stessa del Fanciullino, del Buon Selvaggio, dei bambini di Truffaut – che usiamo seppellire, come dicevamo sopra, sotto “convenienti” e convenzionati principi economico-sociali, dettati da un sistema che fingendo il benessere, crea un profondo stato di malessere diffuso. Quella Natura, in ultima analisi, che qualche volta reclama vendetta.
sabato 21 febbraio 2009
FUORI POST: Mushrooms
La bontà dei funghi dai tempi dei tempi è cosa rinomata. Anche perché spuntando “dal nulla” sul terreno, essi sono uno di primi alimenti di cui l’essere umano si sia cibato. Quello che forse invece è meno risaputo è che “responsabile della nascita” della specie umana, sembrerebbe essere stata proprio la bontà di un fungo.
Il frutto della Conoscenza che avrebbe trasformato Adamo ed Eva da semi-dei immortali a comuni progenitori della specie umana, non sarebbe stato affatto il fatidico pomo. Secondo alcuni studi di antropologia ed etnobotanica il frutto proibito, lungi dall’essere una mela, sarebbe stato in realtà un fungo. A testimonianza di ciò vi è l’affresco – risalente al 1200 – della cappella di Plaincourault, una località dell'Indre, nella Francia centrale. Qui l’albero della conoscenza ha le nette sembianze di un fungo, probabilmente dell’Amanita Muscaria.
Il tutto concorderebbe con le ricerche antropologiche che rintracciano lo sviluppo del senso del sacro – quindi la nascita delle religioni – nell’uso di un allucinogeno, che spesso è un fungo (la Psilocybe messicana, l'Amanita Muscaria degli Iperborei, antenati degli Europei, il Soma dei Veda indiani, l'Ergot dei Misteri di Eleusi, il Boletus dei Kuma).
Alla funzione spiritual-religiosa dei funghi è strettamente legato anche il loro potere curativo. Usati, infatti, dall’alba dei tempi, i funghi medicinali godono di proprietà immunostimolanti, antibatteriche, antitumorali. Essi controllano inoltre il colesterolo, la pressione sanguigna, la glicemia. Alcuni di questi funghi, in primo luogo shiitake e maitake, si trovano facilmente nei negozi di prodotti naturali. E si possono aggiungere alle zuppe.
Un fungo quindi è valso bene l’Eden! E credo che in linea di massima tutti i coabitanti europei possano concordare, visto anche che i funghi sono l’alimento comune a tutte le nostre tavole.
Basti pensare alla tipica steak and mushrooms pie inglese, al Ràntott Gomba ungherese, al risotto ai porcini italiano, agli champiñones al ajillo spagnoli e così via lungo tutta l’Europa.
A questo punto risulterà estremamente chiara anche la scelta fatta dai Puffi che nei funghi ci abitano o quella di Timothy Leary che a due ore dalla morte, mangia dei funghi magici.
«Beautiful», sarebbe stata la sua ultima parola.
mercoledì 7 gennaio 2009
FRIDA! Vivere una volta per tutte
Il film diretto da Julie Taymor (2002) è un elogio alla vita come una lode all’esistenza è stata la vita stessa di Frida Kahlo.
Pittrice messicana nata, secondo il suo racconto nel 1910 con la rivoluzione, rimarrà vittima durante la sua giovinezza, di un incidente d’autobus. Un corrimano di ferro le trafiggerà il bacino costringendola a indomabili pene per tutta la vita.
Ed è proprio durante la sua convalescenza che, immobilizzata nel letto, si dedicherà completamente alla pittura. Quando poi riuscirà a poggiare di nuovo i piedi per terra, si recherà coi suoi lavori dal pittore Diego Rivera. Stimato e politicizzato artista del tempo, Diego riconoscerà subito la novità del talento espresso nelle sue opere naif, colorate, intime e surreali e la accoglierà sotto la propria ala.
Nel 1929 i due si sposeranno e il loro sarà un sodalizio di pieno amore, arte, e reciproci tradimenti. Le biografie la raccontano amante del rivoluzionario russo Lev Trotsky, del poeta André Breton e della fotografa e militante comunista Tina Modotti.
Tratto dalla biografia di Hayden Herrera, Frida è un biopic attento e realistico nel suo surrealismo, perché realistica e surreale allo stesso tempo è stata l’esistenza di questa magnifica artista.
Un’esistenza presa di petto. Anche col rischio di ferirsi mortalmente di una morte lenta e lunga. Una morte che in fin dei conti, sembra essere l’origine dell’attaccamento alla vita; al pari di una sfida continua come ripicca nei confronti di Quella che sarà comunque la Vincitrice già decretata.
La regista sceglie di raccontare puntualmente la biografia dell’artista punteggiando la pellicola di affascinanti immagini delle sue opere. Immagini che prendono vita come a narrare e meglio descrivere lo stato interiore di una donna lungo la sua esistenza personale e collettiva.
Un film da vedere prima di morire.
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