find the path
martedì 18 dicembre 2007
Zitti, si va in scena. Il grande silenzio
Può sembrare un pazzo Philip Gröning. O una idea pazza quella avuta per Il grande silenzio (Die große Stille, 2005). E invece il suo documentario è affascinante ed estremo. Perché riprendere la vita di una piccola comunità di monaci che vivono riti e ritualità lontani dal mondo odierno è una scelta coraggiosa e controcorrente. La lunghezza (164 minuti, quasi tre ore) è tanto dilatata quanto 'rapida', così distante dai canoni (narrativi, stilistici, emotivi) del cinema/industria, del cinema d’autore, del documentario stesso. È un modo per riscoprire se stessi, per staccare la spina, riflettere e stare calmi, senza fretta o ansie varie.
Dopo le tematiche sociali affrontate a cavallo tra realismo e fiction in Sommer (1988), Die Terroristen! (1992) e L’amour, l’argent, l'amour (2000), Gröning segue con occhio attento, partecipe e avvolgente i vari momenti che scandiscono l’esistenza nel monastero di La Grande Chartreuse, sulle montagne di Grenoble. Il taglio e la cucitura degli abiti nuovi. La rasatura dei capelli. La preparazione e il consumo dei pasti. La semina degli ortaggi. Le rare uscite da soli o in gruppo. Le preghiere e gli inni intonati, le lunghe, solitarie meditazioni. Nessuna musica, nessun dialogo, nessuna luce artificiale, solo ambiente. Cinema come contemplazione, mistero, armonia. Per recuperare quello smarrimento, quella perdita del Sacro che sporca la nostra visione. Fede, rinuncia, contatto vero con la Natura, umana e divina. Una riflessione sulla sacralità della vita, sul rigore e l’elasticità spazio temporale.
Ritualità che formano un ciclo, una ripetizione circolare di piccoli ma immensi, significativi gesti che si alternano come il passare delle stagioni. Tutto ciò che rimane cos’è rispetto a questa Forma Eterna? Quell’aereo che vola alto nel cielo è quanto di più lontano cui si possa pensare in un luogo del genere. Un posto dove dimora il grande silenzio, la voce di Dio (o chi per lui…).
venerdì 14 dicembre 2007
Welcome to Paranoid Park
Alex è un ragazzo come tanti altri. Ama uscire con gli amici, frequentare senza molto impegno la ragazza, andare a fare skate nei posti adatti di Portland. Il divorzio dei suoi genitori non ha lasciato in lui grandi strascichi, se non la preoccupazione per il fratellino. Un personaggio incredibile per la foga, la paranoia e l’ansia con cui vive la separazione di mamma e papà. La vita scorre liscia insomma, le inquietudini sono quelle proprie dell’età, l’adolescenza. Se non fosse per una notte che si rivela fatale. Alex ha scoperto con Jared il Paranoid Park, luogo di ritrovo di skaters, drop out, disperati, umanità varia e multiforme. Non si sentiva pronto per andarci e invece è il punto ideale per se stesso, le riflessioni e l’umore che sta vivendo. Una notte, in compagnia di un ragazzo più grande, l’esperienza del salto sul treno merci si rivela drammatica: accidentalmente uccide una poliziotto privato. La sua vita si tinge di dubbi, rimorsi, buio.
Paranoid Park (2007) è tra i film di Gus Van Sant più belli, oscuri e sperimentali. Gli attori sono non professionisti e proprio per questo bravissimi. Il mondo dipinto è quello giovanile, così come fatto nella trilogia composta da Gerry (2002), Elephant (2003) e Last Days (2005). Il contorno tremendo: una ragazzina che si vuole impegnare per apparire, appena fa sesso per la prima volta lo comunica via cellulare ad una amica. Padre e madre sono figure sfuggevoli, del primo si intravedono i tatuaggi e la giovane età, della seconda le ansie del dovere in una fisionomia evanescente, sempre fuori fuoco. Del fratellino restano le chiacchiere insensate, dei compagni di scuola lo skate e le riflessioni su uscite e scopate mancate. Resta Macy, amica spesso insistente che capisce ciò che non viene detto e sarà l’artefice di un rito psicomagico (per dirla con Alejandro Jodorowsky...), una purificazione che è anche passaggio ad una nuova fase di vita.
Per tratteggiare un universo così tranquillo eppure orrendo, Van Sant mischia le carte in tavola. Gira in costante slow motion, un ralenti struggente e mai consolatorio. Sceglie una colonna sonora che passa dal punk/hardcore all’opera attraversando le arie di Nino Rota e l’intimismo di Elliott Murphy. Usa pellicola e digitale, è lucido nella fase cruda dell’evento, sgrana la visione quando il nostro occhio si confonde con quello dei protagonisti. Tutti bravi ragazzi, che portano dentro una brutalità, una potenza mortifera tremenda. Una rabbia che cova dentro, inadeguatezza, mancanza di senso. Alex sotto la doccia e la sua camminata da figura grigia in un parco luminoso sono due sequenze da mandare a memoria. Paranoid Park è un film di giovani che parla ai giovani ed è destinato ai grandi.
SOS al pianeta terra. Nella valle di Elah
La valle di Elah è il luogo in cui si è consumato lo scontro biblico tra David e Golia. Ingegno e forza. Tradotto nel gretto materialismo di oggi, democrazia e leggi tribali. Chi ha detto che la prima debba trionfare necessariamente sulle seconde? Ed è proprio tale se si afferma con modi e metodi brutali? Mai come in questo caso, il nuovo film di Paul Haggis (seconda regia dopo il premio Oscar Crash, 2004) si trova a riflettere sulle dinamiche personali e collettive di un paese, di una intera realtà. Se nel suo esordio il tema centrale era la paura post 9/11 (o più in generale il senso atavico di chiusura e diffidenza proprio di una intera popolazione), stavolta è la Storia che si dispiega alle esigenze dei singoli, è il nostro vissuto a tramutarsi in evento.
Hank Deerfield (Tommy Lee Jones, interpretazione straordinaria) è una persona rigida, ferma nelle proprie convinzioni. È certo che le guerre preventive siano giuste, che esportare benessere anche se finto sia necessario, che la sua nazione sia portatrice sana di giustizia. D’altronde faceva parte della polizia militare e ora che è in pensione inculca negli altri questo credo. In primis nei suoi figli, il maggiore morto durante una esercitazione aerea, il minore in Iraq a combattere contro un regime infame. Purtroppo Mike dovrebbe essere già rientrato dalla missione e invece è scomparso. Partono così le ricerche (coadiuvate da una bellissima Charlize Theron, giovane madre poliziotto vittima di discriminazioni sessuali che sfociano in mobbing), che condurranno ad una tremenda verità.
Paul Haggis dirige in maniera lineare, fin troppo. A volte tutto è esposto, mostrato, svelato. Qualche ‘non detto’ in più avrebbe giovato. Detto ciò, Nella valle di Elah (In the Valley of Elah, 2007) è un film necessario. Umano e toccante. Che compie una riflessione puntuale sull’oggi (interessante il film nel film che i soldati riprendono con i loro cellulari) e fa evolvere i personaggi seguendoli nel loro terribile percorso. Umano e toccante perché ci illustra un mondo spietato, che copre e occulta invece di chiarire. Manda al massacro invece di guarire e sanare le ferite. Tagli e lacerazioni che sono quelli di un padre in cerca di verità e d’aiuto, di una madre che deve rassegnarsi di nuovo al vuoto, alla perdita (piccola e al tempo stesso titanica la parte di Susan Sarandon). Di tanti ragazzi che vivono una scelta come una fuga. Fuga dal dovere per imporre istinto e forza. Proprio come David e Golia che in quella valle si sono massacrati senza pensare a chi li aveva mandati a combattere. Per cosa poi?
domenica 9 dicembre 2007
"Nuovo cinema italiano". Romanzo Criminale
“Dietro quel palazzo da ragazzini rubammo una macchina. Eravamo Libano, Dandi, io e il Grana. E il povero Andreino, che ci lasciò quella notte stessa. […] Forse quella morte era un segnale per farci capire che dovevamo stare buoni per non fare la stessa fine. Invece noi abbiamo pensato che era meglio fare quella fine, piuttosto che andare a timbrare un cartellino per tutta la vita.”
Il Freddo (Kim Rossi Stuart), uno dei protagonisti di Romanzo Criminale (Michele Placido, 2005), descrive così il perché ultimo della più sanguinosa gang della storia della Repubblica Italiana: la banda della Magliana.
A metà degli anni ’70 grazie ai soldi del sequestro Rosellini, il Libanese (Pierfrancesco Favini), il Dandi (Claudio Santamaria) e il Freddo danno vita ad una vera e propria organizzazione criminale. Con la protezione, poi, della massoneria, della mafia e dei politici, la banda riesce ad allungare i suoi tentacoli su ogni traffico illegale della capitale. Il loro unico ostacolo è l’ispettore Scialoja (Stefano Accorsi).
L’ex commissario Cattaneo, memore dei polizieschi italiani anni settanta, realizza un film in linea di massima riuscito. Solo in linea di massima, però. In realtà, la pellicola non arriva a volare molto oltre la succulenta materia prima fornita dalla storia. Colpa della regia, a tratti pretenziosa e contemporaneamente insicura, poggiata poi su di una sceneggiatura un po’confusionaria stesa da Stefano Rulli, Sandro Petraglia e Giancarlo De Cataldo (autore dell’omonimo libro da cui è tratto il film).
Bravi sono indubbiamente gli attori (Accorsi a parte!). E inappuntabile è la fotografia. Luca Bigazzi rende in modo magistrale attraverso le tonalità scure, trapassate dal fumo di infinite sigarette, l’atmosfera claustrofobica che aleggia sui protagonisti: giovani prigionieri di una vita bloccata, impossibilitata a qualsivoglia espressione luminosa. La luce arriverà, ma solo alla fine e con l’unica liberazione possibile
Il Freddo (Kim Rossi Stuart), uno dei protagonisti di Romanzo Criminale (Michele Placido, 2005), descrive così il perché ultimo della più sanguinosa gang della storia della Repubblica Italiana: la banda della Magliana.
A metà degli anni ’70 grazie ai soldi del sequestro Rosellini, il Libanese (Pierfrancesco Favini), il Dandi (Claudio Santamaria) e il Freddo danno vita ad una vera e propria organizzazione criminale. Con la protezione, poi, della massoneria, della mafia e dei politici, la banda riesce ad allungare i suoi tentacoli su ogni traffico illegale della capitale. Il loro unico ostacolo è l’ispettore Scialoja (Stefano Accorsi).
L’ex commissario Cattaneo, memore dei polizieschi italiani anni settanta, realizza un film in linea di massima riuscito. Solo in linea di massima, però. In realtà, la pellicola non arriva a volare molto oltre la succulenta materia prima fornita dalla storia. Colpa della regia, a tratti pretenziosa e contemporaneamente insicura, poggiata poi su di una sceneggiatura un po’confusionaria stesa da Stefano Rulli, Sandro Petraglia e Giancarlo De Cataldo (autore dell’omonimo libro da cui è tratto il film).
Bravi sono indubbiamente gli attori (Accorsi a parte!). E inappuntabile è la fotografia. Luca Bigazzi rende in modo magistrale attraverso le tonalità scure, trapassate dal fumo di infinite sigarette, l’atmosfera claustrofobica che aleggia sui protagonisti: giovani prigionieri di una vita bloccata, impossibilitata a qualsivoglia espressione luminosa. La luce arriverà, ma solo alla fine e con l’unica liberazione possibile
sabato 1 dicembre 2007
The Mean Machine. Quella sporca ultima meta
Robert Aldrich è un mito. È stato uno di quei registi americani ad imporre uno stile ed un modo di raccontare precisi, a modificare gli stilemi di genere (di tutti i generi), a giocare con essi fino a consumarli, distruggerli, farli rinascere. Un regista spesso dimenticato o sottovalutato. Da tenere in realtà sempre a mente, specie quando si parla di grandi storie e di grandi eroi. Insieme a pochi altri del suo tempo (Don Siegel, Sam Peckinpah, Samuel Fuller), ci andava giù duro con ogni sorta di racconto: western (Vera Cruz, 1954, e il tardivo Ulzana's Raid, Nessuna pietà per Ulzana, 1972, sono memorabili, non meno dell’ironico The Frisco Kid, Scusi, dov'è il West?, 1979), noir (What Ever Happened to Baby Jane?, Che fine ha fatto Baby Jane?, 1962, è un cult assoluto, così come Kiss Me Deadly, Un bacio e una pistola, 1955, da Mickey Spillane), war movie (Attack!, Prima linea, 1956, The Dirty Dozen, Quella sporca dozzina, 1967, e Too Late the Hero, Non è più tempo d'eroi, 1969, hanno ridefinito le coordinate del film bellico), avventurosi (Flight of the Phoenix, Il volo della fenice, 1965, e Emperor of the North Pole, L'imperatore del Nord, 1973, sono meravigliosi). Fino all’epica sportiva di The Longest Yard (Quella sporca ultima meta, 1974).
Paul Crewe (Burt Reynolds) è un ex campione di football. Finisce in penitenziario per aver fregato l’auto alla sua donna, seminato a velocità folle la polizia che l’inseguiva, essersi sbronzato in un bar e aver tirato un calcio nelle palle ad uno sbirro nanerottolo. In galera la vita è dura, anche se sei una superstar. Non la pensa così il direttore del carcere, che gli propone di creare una squadra di detenuti che dovrà perdere contro la squadra semi professionistica dei secondini. L’orgoglio e la dignità però sono armi da non sottovalutare…
Quella sporca ultima meta è la versione ironica e libertaria di The Dirty Dozen. È il lato anarchico e menefreghista di Fuga per la vittoria (Escape to Victory, John Huston, 1981). È l’ennesima dimostrazione di forza di un pugno di diseredati, di drop out, di perdenti. Feccia, carcerati ladri e assassini, loser: è da loro, nel confronto con un potere ipocrita e laido (il direttore del carcere Hazen e l’odioso capo dei secondini Knauer), che parte la rinascita. Perché in situazioni estreme il meglio e il peggio vengono fuori con cuore.
Aldrich dirige con una pulizia impressionante: dimora qui il grande cinema americano. Burt Reynolds è assolutamente inespressivo ma poco importa. La sequenza iniziale con la sua fuga in auto (sulle note di Saturday Night Special dei Lynyrd Skynyrd), dopo aver preso a schiaffi la sua amante, è da antologia. Così come il duro lavoro nelle paludi della Georgia, l’esaltante fase preparatoria degli allenamenti e la partita conclusiva. Ritmo e tempi cinematografici allo stato puro. Quella sporca ultima meta, il punto decisivo, è ripresa con un commovente ralenti. Figlio diretto dei precedenti split-screen e padre dei successivi fermo immagine. Sette secondi sublimati in magia, congelati, esaltati nella stima di se stessi. Sette secondi più lunghi di un’eternità.
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