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sabato 1 dicembre 2007
The Mean Machine. Quella sporca ultima meta
Robert Aldrich è un mito. È stato uno di quei registi americani ad imporre uno stile ed un modo di raccontare precisi, a modificare gli stilemi di genere (di tutti i generi), a giocare con essi fino a consumarli, distruggerli, farli rinascere. Un regista spesso dimenticato o sottovalutato. Da tenere in realtà sempre a mente, specie quando si parla di grandi storie e di grandi eroi. Insieme a pochi altri del suo tempo (Don Siegel, Sam Peckinpah, Samuel Fuller), ci andava giù duro con ogni sorta di racconto: western (Vera Cruz, 1954, e il tardivo Ulzana's Raid, Nessuna pietà per Ulzana, 1972, sono memorabili, non meno dell’ironico The Frisco Kid, Scusi, dov'è il West?, 1979), noir (What Ever Happened to Baby Jane?, Che fine ha fatto Baby Jane?, 1962, è un cult assoluto, così come Kiss Me Deadly, Un bacio e una pistola, 1955, da Mickey Spillane), war movie (Attack!, Prima linea, 1956, The Dirty Dozen, Quella sporca dozzina, 1967, e Too Late the Hero, Non è più tempo d'eroi, 1969, hanno ridefinito le coordinate del film bellico), avventurosi (Flight of the Phoenix, Il volo della fenice, 1965, e Emperor of the North Pole, L'imperatore del Nord, 1973, sono meravigliosi). Fino all’epica sportiva di The Longest Yard (Quella sporca ultima meta, 1974).
Paul Crewe (Burt Reynolds) è un ex campione di football. Finisce in penitenziario per aver fregato l’auto alla sua donna, seminato a velocità folle la polizia che l’inseguiva, essersi sbronzato in un bar e aver tirato un calcio nelle palle ad uno sbirro nanerottolo. In galera la vita è dura, anche se sei una superstar. Non la pensa così il direttore del carcere, che gli propone di creare una squadra di detenuti che dovrà perdere contro la squadra semi professionistica dei secondini. L’orgoglio e la dignità però sono armi da non sottovalutare…
Quella sporca ultima meta è la versione ironica e libertaria di The Dirty Dozen. È il lato anarchico e menefreghista di Fuga per la vittoria (Escape to Victory, John Huston, 1981). È l’ennesima dimostrazione di forza di un pugno di diseredati, di drop out, di perdenti. Feccia, carcerati ladri e assassini, loser: è da loro, nel confronto con un potere ipocrita e laido (il direttore del carcere Hazen e l’odioso capo dei secondini Knauer), che parte la rinascita. Perché in situazioni estreme il meglio e il peggio vengono fuori con cuore.
Aldrich dirige con una pulizia impressionante: dimora qui il grande cinema americano. Burt Reynolds è assolutamente inespressivo ma poco importa. La sequenza iniziale con la sua fuga in auto (sulle note di Saturday Night Special dei Lynyrd Skynyrd), dopo aver preso a schiaffi la sua amante, è da antologia. Così come il duro lavoro nelle paludi della Georgia, l’esaltante fase preparatoria degli allenamenti e la partita conclusiva. Ritmo e tempi cinematografici allo stato puro. Quella sporca ultima meta, il punto decisivo, è ripresa con un commovente ralenti. Figlio diretto dei precedenti split-screen e padre dei successivi fermo immagine. Sette secondi sublimati in magia, congelati, esaltati nella stima di se stessi. Sette secondi più lunghi di un’eternità.
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