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mercoledì 12 marzo 2008

Occhi umidi e chitarra a tracolla. Neil Young: Heart of Gold


Magico come sempre Neil Young. Sin dai tempi dei Buffalo Springfield, del connubio storico con Crosby, Stills e Nash, passando per l’esperienza solista e il graffiante, tesissimo rock dei Crazy Horse. Fino ai nostri giorni, la collaborazione con i Pearl Jam ed il ritorno acustico al classico folk rock. Nel 2005 la notizia sconvolgente: Neil ha un aneurisma al cervello. Incurante di tutto ciò che passa per la mente (sua e di chi lo circonda), la vita gli scorre davanti e coglie così l’occasione per un tour che spezzi il silenzio. Il risultato è questo Neil Young: Heart of Gold (2006), documentario firmato Jonathan Demme che mette insieme due serate tenute il 18 e 19 agosto 2005 al Ryman Auditorium di Nashville.


Neil è stanco, si vede. Ha passo lento e aspetto dimesso. Non certo nel cuore, dal quale sgorgano note e parole fatate. Ha avuto un buco creativo di due anni, colmato – casualità della vita – subito dopo aver saputo della malattia. Lo accompagnano archi, fiati, una band in gran spolvero. La prima parte è dedicata soprattutto al materiale recente (When God Made Me, Here For You, la toccante This Old Guitar). Nella seconda partono i classici: Harvest Moon, Old Man, I Am a Child, The Needle and the Damage Done, la ballata di Ian Tyson Four Strong Winds, Heart of Gold, ovvio. Demme segue il cantante canadese con grande attenzione. Non è mai invadente, mantiene vivo il pathos con primi piani e ralenti pacati, conclude ogni brano con una dissolvenza in nero che evoca altri luoghi, un fuori campo poetico ma anche inquietante.


Perché si respira un’aria di disfacimento lungo tutto il film, come se una morte amica fosse prossima a venire e non ci fosse più tempo. Viene in mente Robert Altman e non solo perché questi due show si sono svolti a Nashville. La stessa atmosfera di vuoto, di cupa e nostalgica dissoluzione permeava quel Prairie Home Companion (Radio America, 2006) che il maestro Altman ha lasciato come ultimo gioiello prima di andarsene. E – bizzarra coincidenza? – il nome del tour è Prairie Wind. Un tributo alla vecchia America, quella rurale e ‘selvaggia’, spontanea e viva, tradizionale e contadina.
Il finale con il teatro vuoto, Neil che suona The Old Laughing Lady e ripone la chitarra nella custodia gironzolando sul palco è un sentito e commovente tributo ad un leone del rock che non smetterà mai di ruggire.

I want to live, I want to give, I’ve been a miner for a heart of gold...

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