find the path
martedì 23 dicembre 2008
Buon Natale figli di puttana. La proposta di Bad Santa
Consigli cinematografici sotto l’albero. Avvertenza numero uno: sentimentalismi, cinepanettoni e blockbuster da evitare come la peste. Alla bontà delle feste ci pensa il grande centro commerciale vicino casa vostra, quello dove prima c’erano tanti alberi e quel grosso prato verde. Un po’ come il city mall di Phoenix, luogo scelto da Willie e Marcus per l’ennesima scorpacciata natalizia. È Bad Santa (Babbo bastardo, Terry Zwigoff, 2003) il vero film di Natale: scorretto, cattivo, scomodo, irriverente, acido, nichilista. Proprio per questo commovente. Perché umano. Billy Bob Thornton è un Babbo Natale da prendere a cazzotti: è uno scassinatore disadattato che beve come una spugna, vomita, ha un linguaggio a dir poco sconcio e strani gusti sessuali. Riversa la propria rabbia di vita su un moccioso che non sembra proprio normale. Il classico nerd vittima dei bulli di quartiere. Sarà la sua sfiga a far cambiare Willie, nei limiti di quanto gli risulti possibile. Una commedia di pessimi sentimenti, ideata e prodotta dai fratelli Coen (e così tante cose quadrano), diretta con acume da Zwigoff (da rivedere il suo Crumb dedicato al mitico fumettista Robert e il graffiante Ghost World), interpretata alla grande da Thornton, il ‘nano negro’ Tony Cox e da due caratteristi che urge ricordare. In primis John Ritter, scomparso poco dopo le riprese e cui il film è dedicato. Poi Bernie Mac (morto lo scorso agosto), spassoso capo della sicurezza dalle equivoche tendenze sessuali. Tiri di sigaretta a mille e arance succhiate con espressione impassibile restano impressi nella memoria.
Se Bad Santa pigia sul tasto del grottesco con uno profondo strato d’umanesimo a commuovere sinceramente, The Proposition (La proposta, John Hillcoat, 2005) è cinismo e disillusione allo stato puro. Un western crepuscolare, particolare perché diretto da un regista spesso sottovalutato (procurarsi Ghosts... of the Civil Dead per capire), scritto e musicato da Nick Cave (non c’è bisogno di aggiungere altro, se non che lo score è anche opera di Warren Ellis), ambientato in un contesto insolito come l’Australia di fine Ottocento e interpretato da un cast a cinque stelle.
Danny Huston è Arthur Burns, lurido fuorilegge che fa banda con i fratelli Charlie (Guy Pearce) e Mikey (Richard Wilson). Stanley (magnifico Ray Winstone) è un capitano inglese che si è messo in testa di civilizzare a modo suo questa terra selvaggia e senza Dio. Dopo aver catturato Mikey e Charlie, porge a quest’ultimo una proposta: o gli porterà Arthur oppure il fratello minore Mikey sarà giustiziato. Cosa c’entra il Natale in tutta questa storia? Semplice, il tempo che Charlie ha a disposizione sono nove giorni. Proprio i nove giorni che precedono Natale. Anche se non sembra, perché il sole picchia duro, il deserto ha le sue trappole e si rimane incantanti a rimirare degli splendidi tramonti. Un western anomalo, affascinante proprio per le tematiche, le musiche, gli interpreti (da aggiungere una ammaliante Emily Watson e un bounty killer che risponde al volto folle di John Hurt), la violenza cruda ed esibita, la sensibilità per il tema eterno della cultura anglosassone mondo selvaggio/mondo civile, finalmente declinato senza ipocrisie. Uno dei migliori western degli ultimi anni, spettrale e malinconico, sporco quanto critico e romantico. Un punto di vista inedito e differente anche sul mondo aborigeno e la sua progressiva dipartita. Una ballata moderna ideale per trascorrere con sensibilità la vostra notte di vigilia.
Buon Natale figli di puttana.
martedì 16 dicembre 2008
Russian circles. Nuovi cortometraggi a confronto.
Dall’arte del cortometraggio (una forma particolare, slegata, unica di cinema) spesso si capisce molto di più di quanto dicano lunghi e documentari sullo stato di salute di una intera cinematografia. Idee che volano ed espressioni libere, svincolate dal dovere del contenuto e della narrazione ad ogni costo. Un elogio alla Casa del Cinema di Roma e al Nuovo Cinema Aquila che nell’arco di tre giorni (6, 7 e 9 dicembre 2008) hanno organizzato il terzo Festival del Cinema Russo, dal titolo «Padri e figli. Due generazioni a confronto». Per ribadire che oltre Ejsenstejn, Vertov, Tarkovskij, Sokurov e Michalkov – tra i soliti noti quando si parla di cinema sovietico – c’è molto altro. Innanzitutto le famiglie Naumov – Vladimir e figlia Natalia – e Proshkin – Alexandr e figlio Andrej –. Omaggiate con le proiezioni di La gioconda d’asfalto (2007), il doloroso Anno del cavallo – Costellazione dello Scorpione (2004), Vivi e ricorda (2007) e Il Decameron dei soldati (2005).
Ma soprattutto la serata conclusiva del 9, emblematicamente ribattezzata Caleidoscopio Russo. Undici corti girati tra il 2007 e il 2008 che esprimono desideri, voglie e tendenze dei nuovi autori sovietici. Ragazzi che escono da università prestigiose (San Pietroburgo su tutte) e già all’esordio hanno qualcosa di significativo da dire. Tre i blocchi in cui i film sono stati raggruppati.
«Corti d’animazione» ne racchiude a sua volta tre. Dožd’ sverchu vniz (La pioggia dall’alto in basso) è una animazione toccante e dal tratto soffice, opera di Ivan Maksimov, noto disegnatore e illustratore. In un villaggio di montagna, animali e uomini convivono, in pace e nelle difficoltà. Una pioggia torrenziale spazza via tutto, nel disastro il senso di solidarietà degli ‘ultimi’ (piccoli elefanti, una bambina e un cagnolino) si rivela il punto dal quale ripartire. V maŝtabe (In scala) è un corto di Marina Moŝkova dallo humor brillante e contagioso: un uccellino pur di sfamare il proprio figlioletto provoca disastri e catastrofi nel mondo umano. Basandosi sul proverbio «Dopo di me, venga pure il diluvio», l’animazione della Moŝkova unisce riferimenti alti (il disegno tecnico in scala) e bassi (schizzi da vignetta). Il migliore del blocco si rivela Tri istorii ljubvi (Tre storie d’amore) di Svetlana Filippova. La vicenda di un poeta che, partito dalla campagna per trasferirsi in città, si mette alla ricerca di un amore impossibile. Liberamente ispirato alla biografia di Majakovskij e alla pittura e grafica degli artisti russi di inizio 900, Tre storie d’amore diverte e commuove. È visionario, melanconico, originale. Perché fonde con sapienza il nero opaco delle chine e la quotidianità del materiale d’archivio degli anni 30, toni ironici e impennate drammatiche. Realismo e fantasia insomma, proprio come nella migliore tradizione della letteratura sovietica.
Secondo blocco di cortometraggi è «Corti cinema-letteratura». Due le rivisitazioni, diverse per forma ed espressione. Da Nostalgia di Čechov è tratto Odin (Solo) di Aleksandr Reuckij. Adattamento premiato al Festival di San Pietroburgo nel 2007, è il dramma tutto privato di Michail, tassista che ha appena perso il figlio. Nessuno sembra dargli retta, perché la vita moderna ha ben altre priorità (?). Solo al chiuso della sua scassata auto Michail troverà qualcuno con cui condividere il proprio dolore. Se la rappresentazione malinconica e melodrammatica di San Pietroburgo riesce bene, ciò che manca a Reuckij è la compattezza di racconto. Odin si incarta qua e là in un ritmo monocorde, sicuramente voluto, altrettanto tedioso. Ritmo cui contribuiscono anche le musiche di Aleksandr Smirnov. On i ona (Lui e lei) di Marija Muat rilegge Proprietari di vecchio stampo di Gogol, protagonisti due burattini animati in stop motion. Una storia commovente tra anziani prossimi alla morte. Divorati dal pensiero della solitudine, cercano una via di fuga che si rivela impossibile. Visioni e suoni dal perturbante diventano però messaggio di speranza, la ricerca di una pace (esteriore ed interiore) da ricercare nelle piccole cose.
Infine, prima nota di merito ad Aleksandr Karavaev per il bellissimo Staraja novaja Rossi (Vecchia nuova via Rossi). Una San Pietroburgo crepuscolare filmata in un magnetico bianco e nero da Nikolaj Bogačev, per un racconto di formazione che attraversa le giovani vite di due fratelli dai caratteri diversi (Aleksandr e Filipp Eršov). Particolarmente riuscita la partitura musicale che alterna Bach, Strauss e Vivaldi, toni solenni che inseguono le erosioni e i difficili equilibri di una famiglia spezzata. La scomparsa del padre, la fatica della madre, l’improvvisa morte della donna mettono i due di fronte alle proprie responsabilità. Promesse da mantenere e vocazioni da intraprendere saranno per sempre legati ad un segreto indissolubile, forte come il legame che li unisce. Non altrettanto bene si può dire di Pustota (Il vuoto, Aleksandr Kargal’cev) e Freski snov (Frescoes of Dreams, Tatjana Danilyants): se il primo ha una buona idea – l’estetica che diventa pian pano nuova etica – mortificata da una realizzazione che indugia sulla piattezza da videoclip (nonostante sia una scelta voluta e cercata), il secondo annega in impeti visionari d’accatto, come un David Lynch venduto al discount un tanto al chilo. Unica curiosità la presenza di Cecilia Dazzi come protagonista, per altro abbastanza irritante. Nella media sono invece gli altri: Pjatnaški (Rincorrersi, Natal’ja Uglickich) è una commedia innocua, divertita più che divertente, onesta seppur vista mille volte; Nenužnyi podarok (Un regalo inutile, Stepan Živov) è una riflessione intelligente sul senso e il destino di luoghi e oggetti che ha come pecca una realizzazione davvero sciatta; God/Čas (Anno/ora) pigia troppo sul tasto ormai abusato del ‘tempo che passa’, nonostante lo spunto di Andrei Stvolinskij di riprendere stagioni, climi e persone che passano dalla finestra del suo appartamento moscovita risulti intrigante.
Un panorama ampio e caleidoscopico dunque, per sfatare luoghi comuni e ribadire ancora una volta che il cinema russo non è solo quella ‘cagata pazzesca’ di La corazzata Potemkin.
Lost In Translation: everyone wants to be found
L’insonnia come affinità elettiva è un’idea deliziosa su cui costruire un film. Un delizioso, romantico, divertente e allo stesso tempo drammatico anello di congiunzione, in questo caso, tra un uomo e una ragazza persi nella più occidentale e fashion delle metropoli del Far East, Tokyo.
Lost in Translation (2003), secondo lungometraggio di Sofia Coppola dopo The Virgin Suicides (1999), racconta di un attore 50enne, Bob Harris (un favoloso Bill Murray) e di una giovane donna, Charlotte, (un’incantevole Scarlett Johansson) appena laureata in filosofia.
Lui si trova in Giappone per uno strapagato spot e lei è “in compagnia” del sempre assente marito fotografo. Charlotte e Bob alloggiano nello stesso albergo e soffrono del medesimo disturbo del sonno: è così che si trovano di notte nel bar dell’hotel.
I due iniziano a frequentarsi e a essere attratti ma non arrivano quasi mai toccarsi. (La mano di lui che stringe il piede di lei sarà a lungo la stupefacente, unica forma di contatto fisico).
Quella che instaurano è una relazione fatta di profonda confusione personale e reciproca comprensione. Una connessione stillata da una penetrante corrispondenza tra due solitudini che si svegliano di notte pretendendo di essere colmate. Ma anche un ironico scambio di linfa vitale tra persone che hanno perso di vista loro stesse e che per questo non possono godere di un sonno ragionevole.
In ultima analisi, questo è un film prezioso, costruito su inquadrature molto spesso pittoriche e raffinate, supportate dalla valida ed efficace fotografia di Lance Acord. Fotografia che lo stesso Arcord renderà praticamente perfetta nella pellicola successiva della Coppola, Marie Antoniette (2006).
Lost in Translation è come la Sinfonia Piano Concerto n 26 di Mozart: delicato, allegro, piacevole e pulito senza niente di più e niente di meno di quel che serve.
martedì 25 novembre 2008
Our love will not stop there. Nijekraj
Tempo d’attesa cinque anni. E Vinko Brešan è tornato dietro la macchina da presa. Lo avevamo lasciato nel 2003 con Svjedoci (Witnesses), adattamento dal romanzo di Jurica Pavičić Ovce od gipsa, duro film di guerra sull’involontaria uccisione di un contrabbandiere serbo da parte di tre soldati croati di ritorno dal fronte di Karlovac. Riflessioni su tensioni e (mancata) concordia che avevano contraddistinto anche i suoi esordi, dall’ironico spaccato sul conflitto jugoslavo di Kako je počeo rat na mom otoku (How the War Started On My Island, 1996) alla black comedy Maršal (Marshal Tito’s Spirit, 1999), riflessione satirica sulle reazioni di comunisti irriducibili e nuovi capitalisti alla notizia dell’apparizione del fantasma del Maresciallo Tito in una piccola isola adriatica.
Nijekraj (Will Not Stop There, 2008) conferma il talento di Vinko Brešan, alle prese con una vicenda divisa tra stretta attualità e macabro umorismo. Voce narrante ed elemento di raccordo per introdurci in questo strambo universo è il pornodivo serbo Djuro. ‘Vittima’ della sua anomalia fisica e mancato musicista, ci racconta la storia di Martin e Desa: il primo è un ex militare divenuto detective privato, la seconda ex moglie di un potente signore della guerra divisa tra alcol e film porno. È proprio vedendo un suo dvd che Martin si innamora perdutamente della ragazza. Scopre così che è ‘proprietà’ dello squallido Stevan. Riscattarla e ridarle vita sarà impresa ardua, oltre ogni limite immaginabile. Anche perché la madre di Martin ha bisogno di un trapianto di reni e lui stesso scoprirà una tremenda verità sul suo conto. La relazione con Desa diventa sempre più strana, ricca di passione e di incomprensioni.
Brešan gira con stile eclittico, mischia generi (commedia, war movie, dramma, schegge hard boiled, impennate melò), valorizza personaggi e situazioni, accumula finali. Tanto che l’intreccio conclusivo sembra chiuso un po’ troppo in fretta. Ci restituisce la sostanza di un microcosmo in cui sopravvivono tensioni e fraintendimenti, nel quale i fantasmi del passato vivono sia sottopelle che in superficie. Il rapporto tra croati e serbi è ancora burrascoso e al limite, la sordida criminalità post bellica prospera così come la cattiva gestione della vita pubblica (splendido il personaggio del medico che con assoluta non curanza diagnostica cancri, cure e terapie). Brešan fa dello humor il proprio cavallo di battaglia. Djuro (volto meraviglioso quello di Predrag Vusovic) è un relitto in un universo in disfacimento. Un freak che (se ne) fotte e va avanti per la sua strada, perché recitare in filmini porno è l’unico modo per sfamare i suoi figli. La popolarità che incontra è un danno, non certo un riconoscimento. Simile il destino di Desa e Martin (di una bellezza disarmante Nada Sargin, specie quando scalcia nella palle Ivan Herceg, lui sì un chiaro caso di miscasting), due solitudini destinate a ritrovarsi, anche solo per pochi attimi. Nel mezzo, papponi dalle basette improbabili, zie fameliche, poliziotti ridicoli e una suonata di naso che resta impressa nel cervello (tanto di cappello alle musiche di Mate Matisic). Insomma, la bizzarra umanità che fluttua in quel lembo di terra ai confini dell’Europa. Irrazionalità e drammi comuni in un mondo sull’orlo del baratro. Seppellito da una sardonica risata.
mercoledì 19 novembre 2008
Annegati in un fiume di solitudine. Mar Nero
Una casa come tante, una quotidianità fatta di semplici gesti, scandita dal ritmo dei rituali soliti del vivere. Nella semplicità di un’abitazione frutto di sacrifici e sudore si consuma la storia di due donne, tanto diverse per età, ceto, cultura, tradizioni, e che per ragioni diverse si trovano a condividere gli stessi spazi, lo stesso cibo, la stessa tv. Nessuna delle due ne ha voglia, entrambe ne hanno necessità. Gemma (Pardo per la migliore interpretazione femminile a Ilaria Occhini all’ultimo Festival di Locarno), un’anziana rimasta vedova e con qualche acciacco di troppo, ha bisogno di assistenza. Angela, giovane rumena, da poco in Italia, ha bisogno di racimolare quei soldi che le permetterebbero di avere una propria vita, nel proprio paese, in una propria casa, con il proprio uomo che l’attende in Romania.
Mar Nero (2008) è il primo lungometraggio di Federico Bondi. Il regista utilizza uno stile nitido, senza fronzoli, caustico, per narrare un racconto autobiografico, ma che in realtà non è difficile incrociare nelle storie di qualsiasi famiglia italiana di oggi. In un momento storico che vede proprio Italia e Romania al centro di un dibattito politico e sociale ad altissima valenza culturale oltre che di attenzione mediatica, sorprende la capacità dell’autore (coadiuvato dalla preziosa scrittura di Ugo Chiti) di lasciar parlare le immagini. I dialoghi sono essenziali, Bondi non cede alla tentazione di articolare analisi, tratteggiare stili e modalità di vita differenti, né di inquadrare negli stereotipi di razzismo l’Italia del 2008 o l’assioma «rumeni brava gente». Nessuna sentenza, solo i sentimenti di due donne che si sciolgono nella conoscenza reciproca, nella scoperta dell’ “altro” anche attraverso un viaggio in terre intraviste solo sul piccolo schermo. Terre nelle quali, si ritrovano i cavalli, i carretti e le strade sterrate, la miseria e la volontà di sopravvivenza, che forse si possono ricordare solo in un altro viaggio, quella della memoria dentro l’infanzia di una Gemma qualunque.
Al di là del semplice racconto di un rapporto improbabile iniziato con ostilità e sfociato in una (prevedibile) amicizia, il pregio di Mar Nero sta nella volontà di raccontare vicinanze piuttosto che differenze perché in fondo il tendere ultimo delle protagoniste è la ricerca di un affetto, sia esso proveniente da un’amica, da una sorella, da una nuora o più semplicemente da un compagno o da un figlio.
Per gentile concessione di Antonella Ciccolella
sabato 15 novembre 2008
Oltre la frontiera. Laila's Birthday
Presentato al Festival di Toronto 2008 nella sezione Contemporary World Cinema e vincitore del Premio Amore e Psiche all’ultima edizione del MedFilm Festival di Roma, Eïd miled Laïla (Laila’s Birthday, 2008) è l’ultimo tassello del mosaico personale costruito ad arte dal regista palestinese Rashid Masharawi. Storia particolare quella di Rashid: nato nel 1962 nel campo profughi di Shati nella striscia di Gaza, studia cinema da autodidatta, esordisce con Curfew (1994) ottenendo il Premio UNESCO al Festival di Cannes, e continua il proprio percorso artistico con Haifa (1996) – con il quale inizia il sodalizio con l’attore e regista Mohammad Bakri –, Ticket to Jerusalem (2002) e Waiting (2005). Tutte storie difficili, che mettono in scena con taglio forte eppure fresco le difficili condizioni di vita all’interno dei campi profughi palestinesi. Dal folle protagonista di Haifa alla coppia di Ticket to Jerusalem passando per il regista Ahmad di Waiting.
Laila’s Birthday prosegue sullo stesso tracciato. Abu Laila (il solito formidabile Mohammad Bakri) è un ex giudice. Il cambio di governo non ha giovato affatto alla sua carriera. Così l’unica risorsa che gli resta è prendere in prestito l’auto del cognato e diventare tassista. Il giorno del settimo compleanno della figlia, fa di tutto pur di tornare a casa con un bel regalo ed una torta. Abu Laila non ha nient’altro in mente: la felicità della propria famiglia. Ma la vita di tutti i giorni in Palestina non è così facile e prima di tornare a casa può accadere – e accade… – di tutto. Tra esplosioni, incontri improvvisi e un cellulare dimenticato in taxi che squilla in continuazione, Masharawi ci trascina tra le strade di Ramallah. Una città blindata, luogo di ritrovi e scontri, una sorta di fortezza da espugnare per tornare a casa sani e salvi. Con qualche soldo in tasca.
Il paradosso è quello di un tassista con una mentalità da giudice che non permette ai suoi passeggeri di avere armi in macchina e di farsi portare nei pressi della frontiera. O di fumare – perché spesso, come sostiene un ex prigioniero politico, sorta di coscienza storica palestinese, in questo posto è l’unico modo per passare il tempo – e sedere davanti senza cintura. Paradossale è anche la ricerca di giustizia che anima Abu Laila. «Mr. Justice» lo ribattezza sarcasticamente un passeggero. Non è forse un paradosso pensare ad un ministero in uno stato che non è uno stato? Le mura che gravano sulla città restano comunque sullo sfondo. Masharawi ha il grande pregio di girare con uno stile secco e asciutto (sin troppo documentaristico), combina musiche tradizionali (di Kais Sellami) e rumori ossessivi (splendida la sequenza iniziale con la rottura dei vetri e il risveglio improvviso di Abu), evita con agilità le secche di una inconveniente retorica, coglie l’autenticità di sentimenti, odio e rispetto compresi. Ma soprattutto, tinge la vicenda di ironia, sfiorando a tratti il grottesco. Che per un’opera girata in un contesto tanto drammatico è autentica manna dal cielo. Il monologo di Bakri a seguito dell’esplosione che scombina tutti i suoi piani è un pezzo di cinema che resta nel cuore. E il finale aperto ad una forte speranza colpisce e commuove.
domenica 2 novembre 2008
Miami Vice: "fantascienza" noir
In un dizionario di cinema Miami Vice (Micheal Mann, 2006) potrebbe tranquillamente e completamente riempire la voce noir contemporaneo… se non fosse per un fondamentale particolare.
L’opera di Micheal Mann non è contemporanea.
Il suo ultimo lungometraggio è in realtà un insieme di tecnica e maestria filmica che supera la contemporaneità travalicando il confine del presente.
In altre parole, Mann con questa pellicola ha decretato la via futuristica del noir. Un noir che, se volessimo azzardarne una denominazione, potremmo definire fantascientifico da un punto di vista tecnico.
L’opera di Micheal Mann non è contemporanea.
Il suo ultimo lungometraggio è in realtà un insieme di tecnica e maestria filmica che supera la contemporaneità travalicando il confine del presente.
In altre parole, Mann con questa pellicola ha decretato la via futuristica del noir. Un noir che, se volessimo azzardarne una denominazione, potremmo definire fantascientifico da un punto di vista tecnico.
Fantascienza della forma, fantascienza delle inquadrature, fantascienza della norma cinematografica. Vale a dire una via futuristica nell’uso della MdP già anticipata e sfiorata dallo stesso regista in Collateral (2004) ma completamente raffinata e consapevole in Miami Vice. La cinepresa, lungi dall’essere intimidita dal timore dell’innovazione, è al contrario usata con la sicurezza di un maestro d'armi. Un professionista esperto che conosce alla perfezione la tecnica del proprio mestiere e che è capace di piegarla alla propria volontà, riuscendo, in ultima istanza, ad ottenerne una versione personale in grado di essere nuovo paradigma per le regole del noir. La cinepresa sta addosso ai protagonisti, gli sta in faccia, li sfuoca o sfuoca la situazione, passa dalle linee limpide e nette di un’inquadratura che sembra uno specchio riflettente ad una trama grezza di una ripresa che ricorda la tela ruvida di un dipinto.
Un occhio meccanico che balza da una schietta oggettiva alla soggettiva di un protagonista, di un oggetto o di un mero e puro sentimento.
Il tutto supportato da una fotografia dove i chiaroscuri si avvalgono di una separazione netta tra il giorno e la notte senza essere netti essi stessi.
Un occhio meccanico che balza da una schietta oggettiva alla soggettiva di un protagonista, di un oggetto o di un mero e puro sentimento.
Il tutto supportato da una fotografia dove i chiaroscuri si avvalgono di una separazione netta tra il giorno e la notte senza essere netti essi stessi.
Il bianco del giorno, accordato al contenuto filmico, non potendo essere mai lucente e sereno bianco è invischiato nelle tonalità del grigio. A questo “giorno” si contrappone il nero delle riprese notturne. Un nero che, come nella migliore tradizione noir, sfocia nelle trasparenze del blu.
Uno scintillio di colori, in ultima analisi, molto più vicino alla cara Chicago dei grandi noir della storia del cinema che alla assolata Miami della serie tv.
Uno scintillio di colori, dicevamo, che si mischiano in un vortice veloce senza mai però ferire lo spettatore con il trauma dell’innovazione.
Non c’è trauma in questa innovazione perché nel momento in cui ha preso vita era già legge.
Uno scintillio di colori, in ultima analisi, molto più vicino alla cara Chicago dei grandi noir della storia del cinema che alla assolata Miami della serie tv.
Uno scintillio di colori, dicevamo, che si mischiano in un vortice veloce senza mai però ferire lo spettatore con il trauma dell’innovazione.
Non c’è trauma in questa innovazione perché nel momento in cui ha preso vita era già legge.
venerdì 24 ottobre 2008
Yumurta. O dell'assenza
Semih Kaplanoğlu. Nome da appuntare su un prezioso, sbiadito quaderno in carta di riso. Non a caso già passato a Cannes nel 2007 (alla Quinzaine des Realisateurs) e nel 2008 a Venezia in concorso. Un percorso fatto di studi, articoli e saggi, documentari e televisione, corti e primi lungometraggi (il debutto del 2000 Herpes kendi evinde, Away from Home, e il successivo Meleğin düşüşü, Angel’s Fall, 2004, presentato al Festival di Berlino). L’idea successiva è quella della trilogia Milk – Egg – Honey, viaggio a ritroso nella memoria e nella profonda esistenza di Yusuf. Yumurta (Egg, 2007) ne è il primo, intenso capitolo.
Yusuf è stato ormai divorato dall’ansia di diventare un grande poeta. Vive ad Istanbul, in un piccolo e buio negozio di libri aperto 24 ore su 24. Quando il telefono squilla e la segreteria ne raccoglie il messaggio, si mette in viaggio per tornare dopo anni al suo villaggio d’origine. Sua madre è morta. Ad attenderlo c’è solo la giovane e affascinante Ayla, ragazza che si è presa cura dell’anziana donna nei suoi ultimi anni di vita. Zehra ha espresso un desiderio: sacrificare un animale in sua memoria. Yusuf odia il lento ritmo della vita di campagna. Non ha più nulla in comune con i paesaggi sconfinati, i vecchi riti, le ristrette abitudini sociali. Nonostante tutto, lo scorrere inesorabile del tempo induce l’uomo ad una svolta: le radici hanno un’importanza maggiore di quanto sia sempre stato disposto ad ammettere.
Kaplanoğlu dirige con una purezza cristallina. Il suo è un cinema d’immagini, di silenzi. Un cinema che vive fuori campo, oltre l’inquadratura e i lunghi piano sequenza che avvolgono i nostri occhi. Un cinema trasparente, metafisico, che non ha bisogno di parole, soltanto di sguardi, volti, suoni, luci, respiri, simboli. Come il sacrificio rituale di una capra, i sogni di Yusuf isolato e immobile sul fondo di un pozzo oscuro, uno stormo di uccelli che squarcia un cielo minaccioso, un uovo che si frantuma come una vita senza più un centro. La ricerca del protagonista induce all’esplorazione di noi stessi, del passato e del presente. Sbilanciato tra una incerta (in)espressività e un deprimente senso del dovere, Yusuf è un uomo fuori sincrono rispetto a tutto ciò che lo circonda, estraneo eppure vicino, diffidente e indifferente a se stesso, alla vita. Esistenzialismo cupo cui fanno da contrasto la splendida fotografia di Özgür Eken e la regia attenta di Kaplanoğlu, plastico nel muovere la mdp tra campi lunghissimi e movimenti soffici quanto rigorosi. A tratti didascalico ed eccessivamente cerebrale, Yumurta resta comunque un esempio necessario di cinema dell’assenza.
venerdì 26 settembre 2008
Il silenzio di Lorna
È vero, i film di Jean-Pierre e Luc Dardenne sono quasi tutti uguali. Per sensibilità, struttura, stile. Qual è il problema? Domanda che viene spontaneo porsi quando si esce – scossi – dalla visione della loro ultima opera, Le silence de Lorna (2008, insensato tradurlo nello sciatto Il matrimonio di Lorna - e sorvoliamo sul doppiaggio italiano). Che prosegue nello stesso pedinamento di personaggi e situazioni tanto drammatici quanto avvolgenti. Liegi è una città luminosa, dagli squarci romantici, eppure tremendamente opprimenti. I servizi funzionano: il divorzio è pratica rapida, la droga circola come se nulla fosse, la polizia è al servizio del cittadino, la sanità gratuita e assicurata. Non ci si crede ma acquisire la cittadinanza è un affare losco, un giro di quattrini che coinvolge italiani, valloni, albanesi, russi. Sono i disastri di una Europa unita soltanto sulla carta. E i soldi che passano di mano, in bustine gialle, tra auto e negozi, distruggono anime e vite.
Lorna è una ragazza albanese. Ha ottenuto la cittadinanza sposando per convenienza un giovane tossico belga, Claudy. Che cerca di uscire dall’eroina. Ma venirne fuori significa non poter restare vedova e risposarsi con un uomo russo, altri soldi da mettere sul conto bancario per aprire un bar con l’amato (?) fidanzato. Fabio organizza questa attività parallela, un taxista privo di senso e di scrupoli. Passano i giorni e Lorna si lega a Claudy. Non ha dimenticato di essere umana, donna. Si spoglia di tutto, dei vestiti, dei sensi di colpa, del proprio materialismo, della morale. Resta sola, con tre mariti in meno e un peso, che diventa man mano fede, speranza, fiducia, legame a qualcosa che non è mai esistito. Che forse esisterà, nel suo ventre, nella sua mente, nel suo futuro. Seduta su una panca trasformata in letto, in un bosco che è la sua nuova casa.
L’umanesimo dei fratelli Dardenne è sempre un pugno nello stomaco. Alle nostre certezze, alle nostre sicurezze, al nostro benessere, alla placida tranquillità borghese. Campi medi e lunghi, densi piano sequenza interrotti dai bruschi stacchi del montaggio. Una sceneggiatura che prende svolte improvvise e si sviluppa sotto la pelle dei protagonisti. Volti che attraversano lo schermo, lo squarciano, rimandano ad un fuori campo lacerato ed esasperante. Un pedinamento costante, sulle orme di Bresson e Rossellini. Alla ricerca di una fede smarrita, in un mondo lurido e insensato. Arta Dobroshi è un volto e un corpo meravigliosi. Jérémie Renier (Bruno dell’Enfant) un fantasma che si aggira tra stanze vuote e spazi ossessionanti. E quando di spalle si scorge il volto di Olivier Gourmet – commissario di polizia che indaga sulla morte di Claudy – il gioco di rimandi è completo. Le silence de Lorna si manifesta per quello che è: un film bellissimo e toccante.
lunedì 22 settembre 2008
Central Idiocy Agency. Burn After Reading
Un film sul nulla. Sul vuoto pneumatico che ci divora, che ci circonda. Burn After Reading (2008) è l’ultimo tassello di un universo a pezzi. Dominato dal nonsense e da una sceneggiatura tanto intricata quanto veloce e graffiante, l’ultima opera di Joel e Ethan Coen si consuma come un sacchetto di pistacchi. Col sorriso sulle labbra, col cervello che gode, con gli occhi languidi e una vocina nella testa che sui titoli di coda (occhio ai Fugs e alla loro CIA Man) urla «ancora! ancora!». D’altronde è difficile resistere al fascino cool di un cast che comprende John Malkovich, George Clooney, Tilda Swinton, Brad Pitt (mai così divertente!), Frances McDormand e J.K. Simmons.
Una commedia d’altri tempi, corrosiva e volutamente ingarbugliata. Proprio perché costruita su qualcosa che non esiste, di cui si preserva la memoria per un tempo limitato di cinque secondi. Passato il quale, ci si dimentica di tutto senza affatto pretendere di ricordare ciò di cui si stava parlando. E senza neanche pretendere di capire. Come fa il capo della Cia (splendido il volto attonito di J.K. Simmons), al quale viene esposto il fattaccio. Osbourne ‘Ozzy’ Cox è un analista dell’agenzia che viene deposto dal suo lavoro. Lui non ci sta e si licenzia. Sua moglie (fredda, stronza e spocchiosa) disapprova, lei che già da tempo se la fa con un altro essere piuttosto ambiguo, un tale che lavora per il Tesoro e nel garage di casa riproduce bizzarre macchine per il piacere. Quando Ozzy decide di scrivere un libro di memorie per scuotere il palazzo, il cd con tutto il materiale finisce perso in una palestra nella quale lavorano una donna ossessionata dal passare degli anni e da un corpo perfetto e un fantastico fesso (un buon samaritano…) che non si capisce per quale ragione, recuperato il dischetto, voglia ricattare Cox per farglielo riavere.
Una sceneggiatura sopra le righe e carica di assurdità dunque. Che è però il ritratto di un modo personale e anarchico di comprendere e rappresentare il mezzo cinema. Il Caso che regna su cause ed effetti. Ciò che alla fine rimane impresso nella nostra memoria è un mosaico di schegge: un nosferatu distrutto dall’alcol che esce di casa (una barca…) in vestaglia brandendo un’accetta; un idiota palestrato che pensa di fare un inseguimento in bicicletta; una maniaca della forma che crede il Muro di Berlino non sia ancora crollato (o al limite ci siano sempre i cinesi…); un impostore preda di pensieri paranoici; un sito per incontri che si chiama staywithme.com e un finto, plastificato re dell’insalata. Burn After Reading è il ritratto dell’idiozia del mondo di oggi.
domenica 17 agosto 2008
Neil Jordan: here's Ireland!
Ci sono, talvolta, delle “radici” nel cervello che legano, in qualche modo, la creatività anche la più evanescente e immateriale, alla propria terra d’origine. E sia che questa terra la si tenga davanti agli occhi per sempre, sia che la si lasci invece alle proprie spalle, essa finirà comunque impressa in tutti coloro che, a suo tempo, vi hanno poggiato i piedi mentre questi crescevano in grandezza.
Ed è grazie a questa inalienabile legge che Neil Jordan ha potuto girare tre delle sue più belle opere.
The Crying Game (1992), Michael Collins (1996) e Breakfast on Pluto (2006) sono infatti tutti avvinghiati a quell’incredibile, verde e martoriata sua isola che è l’Irlanda.
In altre parole è l’Irlanda con le propie bombe rivoluzionarie a muovere, in ultima analisi, i fili delle storie. Responsabile quasi involontaria del destino di un uomo in The Crying Game. Unica ragione di vita e di morte in Michael Collins.
Ed è grazie a questa inalienabile legge che Neil Jordan ha potuto girare tre delle sue più belle opere.
The Crying Game (1992), Michael Collins (1996) e Breakfast on Pluto (2006) sono infatti tutti avvinghiati a quell’incredibile, verde e martoriata sua isola che è l’Irlanda.
In altre parole è l’Irlanda con le propie bombe rivoluzionarie a muovere, in ultima analisi, i fili delle storie. Responsabile quasi involontaria del destino di un uomo in The Crying Game. Unica ragione di vita e di morte in Michael Collins.
Troppo stretta e violenta in Breakfast on Pluto.
Così la vediamo nel primo film responsabile di un legame tra un soldato dell’esercito inglese fatto prigioniero dall’IRA, Jody (Forest Whitaker), e il suo carceriere, Fergus (Stephen Rea), al quale è stato dato il compito di giustiziarlo. Legame che spingerà Fergus, morto Jody, a cercare la sua donna (che poi donna non è) e a costruire con lei un vincolo più forte di quello delle ragioni della sua terra.
Oppure la guardiamo combattere per l’affermazione della propria identità in Michael Collins (Liam Neeson) o, infine, la scorgiamo, durante gli anni 70, matrigna apparentemente crudele quando a cercare la propria via, lontano da lei, è lo splendido trans Patrick/Gattina (Cillian Murphy) con i suoi colori intensamente vivaci.
Oppure la guardiamo combattere per l’affermazione della propria identità in Michael Collins (Liam Neeson) o, infine, la scorgiamo, durante gli anni 70, matrigna apparentemente crudele quando a cercare la propria via, lontano da lei, è lo splendido trans Patrick/Gattina (Cillian Murphy) con i suoi colori intensamente vivaci.
Tre storie raccontate da un regista - autore anche delle sceneggiature e dei soggetti - con una sapienza tecnica e una maestria nei contenuti capaci solo a chi sa perfettamente cosa stia dicendo.
lunedì 7 luglio 2008
Il grande 'Dude' Lebowski
The Big Lebowski (Joel e Ethan Coen, 1998) è una tragicommedia su un modo tra i tanti di prendere la vita. Apparentemente il fim sembra un teatrino dell’assurdo iperreale e onirico sul cui palcoscenico si dipana una sorta di insensato hard-boiled . Nonostante, però, la tinta surreale e grottesca compia dei voli certamente pindarici, essa riesce a congiungersi alla realtà proprio nei punti surreali e grotteschi che questa è capace generare, in quelle intersezioni che ospitano le vie di fuga da una Normalità tanto ipotizzata quanto assolutamente inafferrabile nel concreto.
Dude (Drugo nella versione italiana) è la persona più pigra del mondo, un hippie pacifista direttamente vomitato dagli anni settanta eppure, per una mera coincidenza del destino, viene implicato in una storia di complotti e rapimenti. Unica sua “colpa” è l’omonimia con un ricco e potente concittadino a cui sequestrano la moglie. Così, il nostro eroe, novello Humprhey Bogart, aiutato dai suoi due fedelissimi amici, Walter e 'Donny', si ritrova detective al soldo del potente Jeffrey Lebowski col compito di ritrovare la sua congiunta.
E come ne Il grande sonno (The Big Sleep, Howard Hawks, 1946) anche qui il potente ha una figlia fatale e bellissima che seduce il protagonista.
Attenti conoscitori del Cinema nelle sue più mirabolanti sfaccettature i fratelli Coen applicano agli standard dettati dalla classicità innovazioni del tutto originali e contemporanee. Ritroviamo così un eroe fantasmagorico e “inopportuno” alle prese con i più intramontabili parametri noir.
Uno che vive in un proprio personalissimo spazio ritagliato da quella suddetta normalità con due uniche occupazioni: bere white russian e giocare a bowling.
Un perdente secondo quegli sguazzatori di normalità che hanno così tanto da fare che non fanno mai niente (Claudio Lolli, Ho visto anche degli zingari felici). Persone a cui, se solo fosse a conoscenza della loro esistenza, il Drugo non direbbe altro che: Have you ever seen the rain?
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