In un dizionario di cinema Miami Vice (Micheal Mann, 2006) potrebbe tranquillamente e completamente riempire la voce noir contemporaneo… se non fosse per un fondamentale particolare.
L’opera di Micheal Mann non è contemporanea.
Il suo ultimo lungometraggio è in realtà un insieme di tecnica e maestria filmica che supera la contemporaneità travalicando il confine del presente.
In altre parole, Mann con questa pellicola ha decretato la via futuristica del noir. Un noir che, se volessimo azzardarne una denominazione, potremmo definire fantascientifico da un punto di vista tecnico.
L’opera di Micheal Mann non è contemporanea.
Il suo ultimo lungometraggio è in realtà un insieme di tecnica e maestria filmica che supera la contemporaneità travalicando il confine del presente.
In altre parole, Mann con questa pellicola ha decretato la via futuristica del noir. Un noir che, se volessimo azzardarne una denominazione, potremmo definire fantascientifico da un punto di vista tecnico.
Fantascienza della forma, fantascienza delle inquadrature, fantascienza della norma cinematografica. Vale a dire una via futuristica nell’uso della MdP già anticipata e sfiorata dallo stesso regista in Collateral (2004) ma completamente raffinata e consapevole in Miami Vice. La cinepresa, lungi dall’essere intimidita dal timore dell’innovazione, è al contrario usata con la sicurezza di un maestro d'armi. Un professionista esperto che conosce alla perfezione la tecnica del proprio mestiere e che è capace di piegarla alla propria volontà, riuscendo, in ultima istanza, ad ottenerne una versione personale in grado di essere nuovo paradigma per le regole del noir. La cinepresa sta addosso ai protagonisti, gli sta in faccia, li sfuoca o sfuoca la situazione, passa dalle linee limpide e nette di un’inquadratura che sembra uno specchio riflettente ad una trama grezza di una ripresa che ricorda la tela ruvida di un dipinto.
Un occhio meccanico che balza da una schietta oggettiva alla soggettiva di un protagonista, di un oggetto o di un mero e puro sentimento.
Il tutto supportato da una fotografia dove i chiaroscuri si avvalgono di una separazione netta tra il giorno e la notte senza essere netti essi stessi.
Un occhio meccanico che balza da una schietta oggettiva alla soggettiva di un protagonista, di un oggetto o di un mero e puro sentimento.
Il tutto supportato da una fotografia dove i chiaroscuri si avvalgono di una separazione netta tra il giorno e la notte senza essere netti essi stessi.
Il bianco del giorno, accordato al contenuto filmico, non potendo essere mai lucente e sereno bianco è invischiato nelle tonalità del grigio. A questo “giorno” si contrappone il nero delle riprese notturne. Un nero che, come nella migliore tradizione noir, sfocia nelle trasparenze del blu.
Uno scintillio di colori, in ultima analisi, molto più vicino alla cara Chicago dei grandi noir della storia del cinema che alla assolata Miami della serie tv.
Uno scintillio di colori, dicevamo, che si mischiano in un vortice veloce senza mai però ferire lo spettatore con il trauma dell’innovazione.
Non c’è trauma in questa innovazione perché nel momento in cui ha preso vita era già legge.
Uno scintillio di colori, in ultima analisi, molto più vicino alla cara Chicago dei grandi noir della storia del cinema che alla assolata Miami della serie tv.
Uno scintillio di colori, dicevamo, che si mischiano in un vortice veloce senza mai però ferire lo spettatore con il trauma dell’innovazione.
Non c’è trauma in questa innovazione perché nel momento in cui ha preso vita era già legge.
Nessun commento:
Posta un commento