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lunedì 5 maggio 2008

Non chiamiateli poliziotteschi


C’era una volta il grande sporco poliziesco italiano. La rabbia, le pallottole, la magnifica Giulia Alfa Romeo. Erano gli anni ‘70 e nei cinema della penisola a pellicole del calibro di Indagine su un cittadino… (Elio Petri, 1970) , Il caso Mattei (Francesco Rosi, 1972), Giù la testa (Sergio Leone, 1972), Suspiria (Dario Argento, 1977) si affiancavano storie di spietati criminali e poliziotti violenti. Erano lavori messi su con poche lire e costituivano, in linea di massima, un’evoluzione dello spaghetti western. La brutalità, l’eroe sempre più cinico anti-eroe, la violenza come mezzo ultimo e primo si trasferirono dal polveroso west al tessuto urbano: Milano calibro 9 (Fernando Di Leo, 1972), Roma a mano armata (Umberto Lenzi, 1976) , Napoli violenta (Umberto Lenzi, 1976).


Alcuni fecero in fretta a tacciare questi film di fascismo, in realtà, era evidente, in simili opere, la costruzione di un vero e proprio disordine scagliato contro una società manovrata dal Sisde, dalla politica del garofano piglia tutto, dagli scudicrociati alzati a proteggere le volontà vaticane. Un disordine che si poneva, dunque, ben lontano dalle fiammelle tricolore ed era, piuttosto, specchio di un pensiero anarchico come risposta alla “strana” democrazia all’italiana. I loro autori - citiamo su tutti Lenzi, Bava (Cani arrabbiati, 1974), Castellari (Il cittadino si ribella, 1974) e Di Leo - erano mastri artigiani che alla penuria economica contrapponevano l’inventiva di chi è cresciuto col grande cinema americano di Lumet, Lang, Aldrich, Fuller. Fenomenale la mdp piazzata sulle ruote delle auto lanciate all’inseguimento oppure sopra il cruscotto a riempire lo schermo con le facce di Maurizio Merli (Il cinico, l’infame, il violento, Umberto Lenzi, 1977), Luc Merenda (La polizia accusa: il servizio segreto uccide, Sergio Martino, 1975) Tomas Milian (Milano odia: la polizia non può sparare, Umberto Lenzi, 1974), Henry Silva (Il Boss, Fernando Di Leo, 1973).


Un grande capitolo di cinema, dunque, al cui confronto le pretese autoriali di un Romanzo criminale (Michele Placido, 2005) fanno a tratti sorridere.

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