find the path
lunedì 28 aprile 2008
FUORI POST (variazioni sul Tema): coraggio, fatti abbracciare!
La vita regolata dal caso. La vita segreta (delle parole), le vite degli altri. Capita. Almeno così dicono. Capita di trovarsi seduti e imbattersi in una luce che ti squarcia la vita. Come cambiare direzione all’improvviso. Come scegliere il bianco piuttosto che il nero. O essere scelti. Come il doppio gioco (Criss Cross, 1949) di Anna (Yvonne De Carlo) nel noir di Robert Siodmak. Stefano (Burt Lancaster – che tenerezza quando Steve si trasformava in tal modo nel doppiaggio, idem Pete/Pietro e Vince/Vincenzo, innocenza perduta…) è vittima della Forza, quella del Destino. Alla stregua di Ed Crane (Billy Bob Thornton), l’uomo che non c’era dei fratelli Coen. Il suo intimo viene fuori poco a poco, fotografato in un bianco e nero da lacrime.
Succede anche che al semaforo (rosso sangue) ci si imbatta per caso nel Dottore, in Bisturi e in 32. Virtù dell’uomo comune che dovrebbero emergere nelle difficoltà, mentre vengono nascoste e sostituite da una forte, misteriosa ambiguità. Quella di chi prende duecento milioni e ne richiede altri tre (non di milioni, di miliardi). Sono i cani arrabbiati di Mario Bava, professionisti senza scrupoli, che compiono la propria missione fino in fondo. Fuori l’obiettivo magari la valigetta con i soldi si sarà aperta e i motori di un aereo avranno fatto volare le banconote ovunque. Domandate a Johnny Clay (Sterling Hayden), il braccio della rapina a mano armata di Stanley Kubrick. Lui ve ne saprà dire qualcosa. La fatalità colpisce sempre, chiunque, ovunque. È il gioco delle parti, il nichilismo di Ernst Lubitsch, l’acidità corrosiva di Billy Wilder. Dalla commedia alla tragedia il passo è breve.
Cosa occorre per mettersi a riparo? Nulla. Lasciarsi trasportare. Innocenti nell’età adulta, maturi nell’infanzia. Fare una passeggiata, comprare un’icona di Snake Plissken, mangiare un panino con mozzarella e carciofi (peccato non ci fossero i cetriolini…). E cercare l’ufficio brevetti più vicino, non si sa mai dovessimo diventare miliardari…
mercoledì 23 aprile 2008
Gimme shelter, Marty. Shine a Light
Gli ingredienti sono facili e a portata di mano. Prendi una delle più grandi rock’n’roll band della storia, i Rolling Stones. Prendi uno dei maggiori registi degli ultimi quaranta anni, Martin Scorsese. Il risultato non può che essere un signor film, specie per chi ama il gruppo inglese e l’autore americano. Shine a Light (2008) riprende due date del tour A Bigger Bang e compie l’ennesima incursione di Marty nella storia della musica (che si intreccia con cultura, memoria, passione). Dai tempi di Woodstock (per il documentario di Michael Wadleigh era stato assistente alla regia e supervisore al montaggio) passando per il toccante tributo a The Band di The Last Waltz (L’ultimo valzer, 1978), il viaggio alle radici del suono affrontato in From Mali to Mississippi (The Blues - Dal Mali al Mississippi, 2002), per giungere al padre dei padri, Bob Dylan, omaggiato con ricerche e studi sul campo in No Direction Home (2005).
Gli Stones sono gli Stones e Scorsese ne è consapevole. Realizza una sorta di enciclopedia dei quattro di Londra, un compendio che trova conferma nella scaletta preparata (e rimasta segreta al regista fino all’ultimo). Si snodano così immagini di repertorio (fantastiche interviste divise tra gli anni ’60 e gli ’80 nelle quali si nota tutta l’ottusità di stampa ed opinione pubblica nei confronti di un fenomeno di costume di tale portata), retroscena intriganti (Keith Richards e Charlie Watts che sorridenti accolgono l’ex presidente Clinton e le trenta persone che si è portato dietro, mamma di Hillary compresa), la preparazione per le riprese dello show. Il concerto è quello che è, Mick Jagger e compagni ormai sono una macchina da soldi che fagocita music business. La loro grandezza però sta proprio nel fregarsene, andare avanti fino all’ultimo, microfono basso chitarre batteria e sigaretta. Sciorinano classici su classici, da Jumpin’ Jack Flash a Start Me Up, da She Was Hot a As Tears Go By, da Sympathy for the Devil a Brown Sugar e (I Can’t Get No) Satisfaction. Compiono anche un paio di comparsate ospiti illustri: Jack White in Loving Cup (duetto piuttosto moscio a dire il vero), Christina Aguilera in Live with Me (una sorpresa considerando il tipo di sound che propone di solito…), Buddy Guy in Champagne and Reefer (uno dei momenti più alti del live).
Scorsese sembra stressarsi e divertirsi, pedina la band in lungo e in largo, diventa parte integrante dello show. Il carrello finale cita divertito l’ingresso nel ristorante di Jimmy (Ray Liotta) e Karen (Lorraine Bracco) in Goodfellas (Quei bravi ragazzi, 1990). La luna che si trasforma nella famosa linguaccia il tocco di classe finale. Unico neo – non attribuibile al film in sé – è la distribuzione italiana (in questo caso la Bim). Nella prima settimana di proiezione la pellicola è arrivata in sette copie, la più a sud a Roma. È ora di darsi una mossa o di andare a vivere in un altro paese?
venerdì 11 aprile 2008
Cara, vecchia Hollywood. Charade
Cara, vecchia Hollywood. Creatrice di meravigliose illusioni, mecca di sfrenate fantasie, madre del nostro immaginario. Quando la fabbrica dei sogni scopriva la ‘quarta dimensione’ con il musical, Stanley Donen ne era uno dei padri. Lavorava sulla sottile linea tra verità e apparenza, fondeva arti visive diverse, trasfigurava la realtà estetizzandola, rendendola spettacolare. Film come On the Town (Un giorno a New York, 1949), Singin’ in the Rain (Cantando sotto la pioggia, 1952), Deep in My Heart (Così parla il cuore, 1954), The Pajama Game (Il gioco del pigiama, 1957) – solo per citarne alcuni – ne sono un vivo esempio. Tuttavia succedeva anche che un autore di questo tipo si prestasse ad altri esperimenti e venisse fuori un’opera incredibile come Charade (Sciarada, 1963). Un po’ come accaduto per il re della commedia Billy Wilder che alle prese con il noir tirava fuori dal cilindro un capolavoro quale Double Indeminity (La fiamma del peccato, 1944).
Charade è tipico cinema hollywoodiano. Ritmo costantemente teso, trama gialla che si contamina con la commedia brillante, dialoghi serrati e scoppiettanti. La vicenda riprende temi classici e vede protagonista Reggie Lambert, una ragazza agiata e oziosa che insoddisfatta del suo matrimonio con Charles, medita il divorzio. È americana ma si trova a Parigi, in vacanza. Il marito scompare in maniera misteriosa. Viene ritrovato morto, gettato da un treno in corsa. Inizia per lei una girandola di incredibili avventure, temibili e pericolose. Ad aiutarla, un uomo brillante che non conferma mai di essere ciò che appare (o dice di essere).
Di una bellezza strepitosa la protagonista Audrey Hepburn, sornione come al solito Cary Grant. Da urlo il resto del cast: su tutti un divertentissimo agente (spia) della CIA (almeno così sembra…) Walter Matthau, l’ispettore francese Jacques Marin e i trucidi antagonisti James Coburn, George Kennedy e Ned Glass. Ciliegina sulla torta le memorabili musiche di Henry Mancini e gli scintillanti, pop, psichedelici titoli di testa di Maurice Binder. Stanley Donen è un maestro, analizza in profondità il rapporto tra vero e falso, tra uomo e donna. Tiene viva la tensione del thriller (merito anche della sceneggiatura di Peter Stone) e ci parla di matrimonio, gioco delle parti, relazioni tra sessi. Con frizzante romanticismo, toni fantastici, un’ironia fuori dal comune, una potenza visiva pulsante. Il duello tra Grant e Kennedy sul tetto dell’American Express proviene dal cuore della settima arte. Mai come in casi del genere, vale la classica affermazione “film del genere non se ne fanno più”. Seppur sia stato egregiamente rifatto da Jonathan Demme nel 2002 (The Truth About Charlie).
mercoledì 9 aprile 2008
Home sweet home. A Good Lawyer's Wife
Un inferno famigliare sullo sfondo di una tremenda contemporaneità. È la Corea del Sud tratteggiata da Im Sang-soo, tra i migliori autori del nuovo cinema asiatico. Baramnan gajok (A Good Lawyer's Wife, La moglie dell’avvocato, 2003) si immerge in una città torbida, fatta di apparenze, (finti) sentimenti, sensazioni ed emozioni represse. Il fulcro della narrazione è una benestante famiglia borghese. L’avvocato del titolo è un uomo rampante e senza sentimenti, schiavo di alcol e sesso per mascherare la propria solitudine. I suoi genitori sono lo spettro di tale risultato, padre alcolizzato prossimo alla morte, madre resa arida dalla vita e ridonata all’esistenza grazie alle gioie di un nuovo compagno. La moglie Ho-jung ha rinunciato a se stessa per il figlio che hanno adottato (un bambino di un candore spaventoso), reprime la curiosità di sapere con chi va a scopare il marito per poi intrecciare una relazione con un giovane studente. Il motivo è semplice, ha smarrito la via del piacere (e del dolore). D’altro canto l’amante dell’avvocato è una ragazza che del sesso ha fatto una religione, per sentirsi libera piuttosto che vuota. Tutto procede secondo gli “schemi”, prima di un evento tragico che segnerà per sempre il loro cammino.
Im Sang-soo dirige con una pulizia magistrale. Il registro è da racconto polifonico, percorsi che si intrecciano tra esplosioni di vitalità e brusche pause. Le mancanze da riempire scatenano ansie e tremende reazioni, in un andirivieni pulsante e teso, piatto - nel ritmo del racconto - soltanto in apparenza. Vengono in mente Happiness (1998) di Todd Solondz e Magnolia (1999) di Paul Thomas Anderson come termini di paragone per comprendere questo tipo di cinema in Occidente. O il realismo torbido di Matteo Garrone. Anche se qualcuno ha accostato l'opera a American Beauty (1999) di Sam Mendes - dunque a The Ice Storm (Tempesta di ghiaccio, 1997) di Ang Lee. Ma sono meri riferimenti perché la Corea non è l’Italia né gli Stati Uniti e anche il passato (i resti di corpi vittime durante la guerra con il Nord ritrovati dopo cinquant’anni) è un elemento fondamentale che torna sempre a galla.
Un invito alla concordia che in realtà è uno strascico di strappi difficili da rimarginare. Una quotidianità fatta di gesti inutili, perché inutile essa stessa. Per ridare un senso è necessario trasgredire, andare oltre le apparenze, rompere quella tela di ragno chiamata famiglia. Sembrerebbe un’elegia del sesso mentre è pura voglia di vivere. Di non sentirsi soli, morti dentro. Nella gioia e nel dramma. Non a caso l’orgasmo ritrovato di Ho-jung che si trasforma in pianto è il momento più alto del film. Attimi mesti e toccanti difficili da dimenticare.
Biùtiful Cauntri, ma porca vacca!!
Biùtiful Cauntri: stiamo sottoterra su una sedia a rotelle telecomandata. Questo il succo del discorso sulla ormai celeberrima annosa questione dei RifiutiinCampania; questa l’analisi ultima che si evince dallo straordinario documentario di Esmeralda Calabria, Andrea D'Ambrosio e Peppe Ruggiero. L’opera, premiata con una menzione speciale all'ultimo Festival di Torino, non ha fronzoli né mezze misure e punta la macchina da presa direttamente nel cuore avvelenato del territorio campano (Acerra, Giuliano, Qualiano e Villaricca) e in faccia ai suoi abitanti (contadini, pastori) costretti a cibarsi e a farci cibare di quel veleno travestito da fragole, pesche, formaggio, mozzarella, acqua.
Una Chernobyl (come viene definita nel film) lenta e terribile messa su da luride giacche e cravatte del nord industriale in concomitanza con logge massoniche deviate, camorra e istituzioni locali e nazionali.
Biutiful Cauntri (2007), prodotto da Lionello Cerri per Lumiere e Co, non è un lamento bensì un documentario sincero che dovrebbe essere proiettato per strada e nelle piazze. È un’opera di denuncia indignata che, lungi da provocare svilimento, indigna. Non si tratta di un film ma piuttosto di un atto contro uno stato di cose, un’azione che fa leva sui sentimenti più che sulla ragione e che per questo riesce ad arrivare oltre la crosta superficiale di chi lo guarda. Dalla proiezione si esce in fila a testa bassa come dietro a un funerale, un funerale rabbioso, però, perché questa volta non è di qualqun’altro ma di tutti i suoi partecipanti.
Il film si conclude con delle eccezionali immagini di una festa patronale; come a dire: non possiamo fare altro che rivolgerci Altrove? Forse no...
giovedì 3 aprile 2008
Altro che baci romantici... My Blueberry Nights
Mai titolo italiano fu più nefasto. Forse i distributori erano sotto acido, chissà… Sta di fatto che mutare il bellissimo My Blueberry Nights (letteralmente, le mie notti al mirtillo) con l’anonimo e scellerato Un bacio romantico è un vero e proprio attentato alla logica del film, all’intelligenza degli spettatori (almeno quelli attenti) e alla poetica di un autore come Wong Kar-wai. Lasciando da parte queste questioni che ci ossessionano da tempo, c’è subito da dire che la prima opera hollywoodiana del regista hongkongese è una delizia per gli occhi, oltre che per il palato. Di sicuro manierista, auto referenziale, dolce oltre livelli inimmaginabili di glucosio. Tuttavia romantico, struggente e impeccabile come solo Wong Kar-wai sa essere. Non ai livelli dei suoi capolavori (Hong Kong Express - Chung hing sam lam, 1994 -, Happy Togheter - 1997 -, In the Mood for Love - Fa yeung nin wa, 2000 -, 2046 - 2004 -), ma dignitoso e soprattutto personale (a differenza di quanto capitato a tanti altri maestri d’Oriente sbarcati in USA, basti pensare agli action caciaroni di John Woo).
My Blueberry Nights si snoda come un road movie sulle intricate passioni dell’animo umano. Un viaggio che vede protagonista Elizabeth (Norah Jones), giovane tradita e allo sbando in una New York notturna e mai così ampia, senza centro. In un ristorante si sfoga con il proprietario Jeremy (Jude Law), il loro è un rapporto che diventa complicità, affinità, passione. I ricordi però fanno male, così Lizzy va a Memphis, per dimenticare lavora giorno e notte tra tavole calde e bar sudici. È qui che incontra Arnie (magnifico David Strathairn), poliziotto alcolizzato che non trova pace dopo l’abbandono della moglie (di una bellezza mozzafiato Rachel Weisz). Sarà la morte a segnare, riaprire la vita. Come quella di Beth, di nuovo in moto verso il Nevada, Las Vegas. Serve drink in un casinò dove incrocia Leslie (Natalie Portman), giocatrice accanita che non riesce in tempo a saldare i rapporti con il padre.
Legami, ricordi, l’amore come ossessione, bisogno, tentazione. Spazi immensi (come non pensare al Wim Wenders di Paris, Texas (1984), complici anche le musiche di Ry Cooder) che si concentrano e si chiudono nei cuori dei protagonisti. Luci soffuse, bagliori improvvisi, destini che si sfiorano e si rimettono in gioco. Questo è Wong Kar-wai. Forse imperfetto, sin troppo ammiccante a certe atmosfere e alla sensibilità del mercato (Law è un sex symbol, Jones una cantante di successo). Unico nel donare quel tocco smooth all’immagine. E nell’affrontare i vuoti, i buchi interiori, le distanze che ci dividono. L’impossibilità di affrontare a viso aperto l’oblio, la necessità di tenere viva la memoria. Per cambiare, per crescere, per diventare altri se stessi.
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