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lunedì 15 ottobre 2007

Ma che bella famigliola! Happiness


Welcome to New Jersey, the Garden State. Happiness (1998), opera seconda di Todd Solondz dopo l’esordio Welcome to the Dollhouse (Fuga dalla scuola media, 1995), ci prende per mano e ci porta in questa sorta di nuovo paradiso. Colori sgargianti, volti allegri, piccoli e graziosi appartamenti, piscine e donne in bikini. Tutto molto bello, almeno in apparenza. Perché dietro la scorza luminosa, perbene, familiare, si nasconde un universo cupo. Davvero raggelante. Roba da non crederci, proprio perché così ‘vera’. Ritratto di famiglia in un abisso, è questo ciò che verrebbe da dire. C’è una coppia di anziani coniugi. Lui (splendido Ben Gazzara) è arrivato ai sessantacinque anni e ha un solo desiderio: stare solo. Per sempre. Lei va avanti col valium e fa fatica a comprendere cosa passi nella testa del marito.


Hanno tre figlie. Una (Lara Flynn Boyle, intenso volto/corpo lynchiano) scrive dozzinali romanzi erotici, in realtà ha una totale mancanza di sentimenti che la divora. Ed è l’oggetto delle fobie di un vicino laido, un ansimante e sudaticcio impiegato (bravo come sempre Philip Seymour Hoffman). La maggiore pensa di avere tutto, di sapere tutto. Senza notare le proprie di inquietudini e dando la colpa ai cartoni animati giapponesi e alla droga se le cose non vanno bene. La classica donna perfetta della middle class. Ha due figli adorabili e un marito psicanalista (a dir poco alieno il volto di Dylan Baker), con sogni inquietanti e mai sopite passioni sessuali per i bambini (quando con sottofondo musicale struggente ammonisce il piccolo Billy “riuscirai a venire un giorno o l’altro, te l’assicuro!”, si ride di brutto). La terza figlia ha un nome che è un programma: Joy. Scrive pessime canzoni, non ha un lavoro fisso e neppure un uomo. Il suo precedente fidanzato si è suicidato, quello con cui riesce a fare sesso è un immigrato russo che le fotte lo stereo, la chitarra e mille dollari.


Frammenti di vita quotidiana, che Solondz tratteggia con feroce, acida, sana cattiveria. Parlando di sesso, perversioni, omicidi, turbamenti, pedofilia, scossoni emotivi. Come avrebbe fatto Robert Altman se fosse stato legato stretto e imbevuto nell’acido muriatico. Si ride a denti strettissimi, si piange dentro, ci si lacera per i toni e i modi. Schietti, volgari, sinceri. In una sola parola, reali. Più veri del vero. Ma senza dolersene e senza apparire paradossali. Contro il finto, plastificato perbenismo. Perché in una società che ha istituzionalizzato, razionalizzato i sentimenti c’è bisogno soltanto di contatti. Contatti umani. Che siano quelli di un ragazzino, una scopata alla buona, una telefonata da maniaco o dormire sereni, placidi nello stesso letto. Importa davvero poco.

Happiness where are you?

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