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Realtà dislocate. Sismi temporali provocati da scaglioni di zolle cerebrali in perpetuo movimento. Tempo immaginato e tempo vissuto in una dinamica dello scontro che azzera i valori del primo e annulla i paradigmi del secondo. Un viaggio avanti e indietro negli anni e/o un’escursione in circolo nella mente. Qual è la minaccia reale e quale quella indotta/immaginata? E quale la differenza tra le due in termini di psicosi personal-collettiva?
Quando Terry Gilliam gira L’esercito delle dodici scimmie (Twelve Monkeys, 1995), sono gli anni in cui il Cinema made Usa comincia a elaborare il terrore legato allo spauracchio dell’AIDS.
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Nel 2035 l’umanità è stata completamente sterminata da un virus. I pochi sopravvissuti sono costretti a vivere sottoterra. L’eroe, Bruce Willis (e chi altro?), è inviato da un equipe di scienziati nel passato, nel 1996, l’anno in cui è scoppiata l’epidemia letale. La sua missione è di raccogliere informazioni per trovare una cura e permettere agli esseri umani di ripopolare il pianeta. È, però, inviato per sbaglio nel 1992 dove viene rinchiuso in un manicomio.
Certo il film non ha come soggetto principale il celeberrimo virus quanto, piuttosto, è un giro visionario nella terrorizzata mente umana, collocata in una società occidentale che si fustiga rumorosamente per la sua ipocrisia e che, di decennio in decennio, propone nuove paure. Terroristi e pedofili, oggi, l’aids, nei decenni ‘80/’90, il nucleare negli anni ’60/’70. Ventennio, quest’ultimo, de La Jeteé (Chris Marker, 1962) da cui è liberamente tratto L’esercito delle dodici scimmie, film su una catastrofe atomica con rispettivo tentativo di risalire il tempo per evitare la fine del genere umano.
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Dunque sembrano essersi spesso presentati terrori collettivi. Paure prodotte da una società che si è anche assunta il compito di avere cura e difendere tutti. Le guerre si fanno, ormai, in nome dell’esistenza di tutti; si spingono intere popolazioni ad uccidersi reciprocamente in nome della loro necessità di vivere (Michel Foucault).
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E le paure collettive in questi ultimi decenni sembrano essersi fatte uguali per tutti. Non più tante paure differenti di natura locale e limitata, ma una paura unica diffusa in modo capillare in tutta la società occidentale: la paura per la propria sopravvivenza messa a repentaglio da un nemico preciso. L’aids e il terrorismo sono le due forme che questo nemico ha assunto nel corso degli ultimi quarant’anni. Mentre l’atomica era quella degli anni ‘60/’70.
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Il potere di esporre una popolazione ad una morte generale è l’altra faccia del potere di garantire ad un’altra il suo mantenimento nell’esistenza (Foucault).
Così in Twelve Monkeys i futuristici scienziati, che cercano di salvare il mondo, e il personale del manicomio che tengono prigioniero il protagonista, sono gli uni lo specchio degli altri.
Terry Gilliam, però, non dimentica mai la via dell’ironia, della risata, (chiara nella citazione dei fratelli Marx). Critiche reali alla pazzia dilagante messe in bocca ai “matti” carcerati nell’ospedale psichiatrico, raccontano di una follia che in realtà non è altro che una lucida analisi. Un’analisi di un’intera epoca narrata attraverso la storia personale di un eroe senza più nessuna certezza su cosa sia reale e cosa frutto esclusivo della sua immaginazione
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