find the path

lunedì 19 novembre 2007

Cinque città, cinque macchie gialle, una notte. Night on Earth


Los Angeles. Una ragazza (Winona Ryder, bellissima e sudicia) ha il sogno di fare il meccanico, per ora guida solo un taxi. La sua cliente (Gena Rowlands) le propone di diventare attrice. Lei rifiuta. D’altronde è una che ascolta i Blue Cheer, fuma di brutto, ripara da sola la sua macchina e crede fermamente nella sua vita (insomma, cosa chiedere di meglio da una donna?).
New York. Helmut (Armin Mueller-Stahl) è appena arrivato da Dresda, Germania dell’Est. Faceva il clown, ora si improvvisa driver. Peccato non sappia portare l’auto gialla e la sua conoscenza della Grande Mela sia davvero scarsa. Ci penserà YoYo (Giancarlo Esposito) a dargli una mano, nei limiti delle sue possibilità. Anche perché dietro lo sfavillare delle luci Brooklyn non è così bella come appare…
Parigi. Per la strada c’è un giovane tassista ivoriano (Isaach De Bankolé). È incazzato, perché non tutto gli va come vorrebbe/dovrebbe. Sulla sua vettura sale una ragazza cieca (Béatrice Dalle): ok, non avrà la vista ma della vita ha capito tutto. Tanto da darne una lezione preziosa al suo chauffeur. Per la serie: quando gli altri sensi arrivano dove le apparenze, l’inganno degli occhi smettono di funzionare.
Roma. Gino (un Roberto Benigni versione fiume in piena, quando ancora sapeva travolgerci…) è toscano, guida il suo taxi nella capitale da quindici anni. È un erotomane incallito e racconta le sue perversioni sessuali (zucche, pecore, cognate) al malcapitato cliente di turno, un prete con problemi di salute (Paolo Bonacelli). Malesseri che causano un infarto, causato chissà da cosa…
Helsinki. Mika (Matti Pellonpää) fa due lavori, di notte guida la sua auto per le strade buie e innevate della metropoli finlandese. Raccoglie per strada tre disperati del tutto sbronzi e racconta loro la sua triste storia. Un amore così forte e già perso in partenza che si ha voglia di zittire.


Questo è Night on Earth (Taxisti di notte, 1991), ennesimo spassoso puzzle firmato Jim Jarmusch. Poetico ed ironico. Il bianco e nero pastoso che aveva caratterizzato gli esordi Strager Than Paradise (1984) e Daunbailò (1986) e successivamente Dead Man (1995), seguito dal recente, divertente e divertito Coffee and Cigarettes (2003), si trasforma in una vertigine di luci e tonalità scure, soffuse. Come già accaduto per Myster Train (1989), simile anche come struttura narrativa.
Il viaggio è il leit motiv. Come per quasi tutta l’opera del regista americano. Spostarsi, guardare fuori e dentro noi stessi, muoversi continuamente, senza sosta, in nuovi imprevisti luoghi e tra imprevedibili situazioni e sentimenti. Giochi del destino sempre in agguato, in città multiformi, che cambiano, si sciolgono, diventano misteriose e accoglienti, e minacciose.


Era difficile girare un film in interni. Jarmusch ci riesce, grazie agli attori (il cast è davvero strepitoso), alla sensibilità per i pochi esterni filmati (giocare di sottrazione spesso è la carta vincente), alla fotografia di Frederick Elmes e alle musiche del fidato amico Tom Waits. Un film leggero e profondo, una sorta di commedia tragica che sfrutta un mero espediente narrativo per sfumare sensi e sogni di decine e decine di vite che si incrociano. Non il miglior film del regista, quanto meno un mosaico da vedere e godere per avere uno spaccato delle nostre città. Oltre che delle nostre esistenze.

Nessun commento: