find the path
mercoledì 30 gennaio 2008
Nelle terre selvagge. Into the Wild
A come Alaska. La meta tanto agognata. Una fuga perfetta. Ovvio da cosa si scappa. Soldi, gratificazioni mancate/mancanti, genitoristudiolavoromogliefigli, un intero sistema di valori. Ipocriti. Soprattutto perché pilastro ‘morale’ degli Stati Uniti d’America, il paese che più di ogni altro ha fatto del mito fondativo del deserto e del giardino la propria storia (di fatti, parole, immagini). Un poema affascinate per un viaggio lunghissimo, oltre se stesso e i propri limiti. Un percorso di auto-conoscenza, da esteta del movimento. È questo il tracciato che trasforma Christopher McCandless – brillante studente con un avvenire radioso – in Alex Supertramp, il trampoliere. Mollare tutto il superfluo e vivere secondo natura. Fragilità fisiche ed emotive comprese. Fino alle estreme conseguenze.
Alex è un bravissimo Emile Hirsch e Into the Wild (2007) il canto di Sean Penn alla bellezza primigenia (e smarrita) della sua/nostra terra. Adattando il libro di Jon Krakauer Nelle terre estreme, Penn si mette in moto verso il centro del mondo e dell’uomo. Verso l’essenza stessa del raccontare (per immagini) il senso dell’avventura. E lo fa citando Jack London, Lev Tolstoj, Henry David Thoreau. Concedendosi a spiccioli di umanità che ancora sa amare, credere, condividere – i due freak, la giovane cantante (di una bellezza micidiale Kristen Stewart), la coppia danese, i ruspanti agricoltori del Colorado, il vecchio Ron Franz, reso splendido dagli occhi umidi di Hal Holbrook. Risultando persino elementare e didascalico nella posizione radicale contro il consumismo di massa. Cogliendo però pienamente nel segno quando affonda intelligenza e sensibilità nelle pastoie di quel pacco marcio di doveri imposti, obblighi di fede e ‘sangue’ che viene chiamato famiglia.
Ecco allora i chilometri, la strada, la sopravvivenza, solo il necessario. L’obiettivo della mdp si immerge nella wilderness, ne assorbe il respiro, ne amplifica la distanza smisurata dai finti filmini di celebrazioni, ricorrenze e avvenimenti piuttosto inutili. Eddie Vedder intona la sua Society e di colpo tutto è armonia, pienezza. Alex guarda in macchina, si guarda, ci guarda. Come dire “ecco, questo sono davvero io”. Le cose con il proprio nome.
sabato 26 gennaio 2008
FUORI POST (variazioni sul Tema): datemi un martello, che devo vedere se ste pentole sono buone
Le televendite sono fantastiche. No, non quelle di Giorgio Mastrota, Mike Bongiorno, Patrizia Rossetti o Marco Predolin. Parliamo di quelle che si beccano sulle reti locali, in classici orari da casalinga (11 di mattina, 16 di pomeriggio). Quando sei steso a letto, crogiolandoti nell’ozio, accendi la tv e non c’è nulla. Non che sia una novità, almeno nei suddetti orari. Proprio allora, nel vortice dello zapping, benedici le televendite: sono meglio di un bolso film tv, di una serie stantia o di un tg (ma esiste ancora in Italia qualcosa associabile alla parola telegiornale?). In onda sulle reti locali perché, ovvio, gli spazi pubblicitari costano molto meno. Il riferimento però non è diretto ad anelli, elettrostimolatori, creme per il viso, materassi, rasoi innovativi - che tagliano addirittura i peli del naso e delle orecchie - o sistemi per vincere al lotto. Qui intendiamo soprattutto robacce americane legate a cibo e pulizia/velocità d’esecuzione. È uno spasso vedere questi volti finti e rubicondi, ciccioni buontemponi felici della propria obesità o tipi apparentemente brillanti che si meravigliano di una scopa, di un pennello o di uno sbucciaverdure, venduti a prezzi da sballo.
Il re è senza dubbio lui, lo chef Tony e il suo Miracle Blade serie perfetta. Dei coltelli che sono delle armi spietate. E questo cuoco simbolo di italianità che taglia di tutto, dalle braciole alle lamiere. Tra l’altro sprecando una quantità incredibile di cibo, che poi viene infilata in un buco nero sul suo tavolo che non si sa dove vada a finire, forse in un universo parallelo. Per non parlare degli chef spettatori che rimangono a bocca aperta dinanzi alla sfera di controllo Acugrip e alla cura di Tony nell’affidare la creazione delle sue lame ad una sorta di Hattori Hanzo a stelle e strisce. Il garage/laboratorio di questo splendido artigiano è il punto di fuga dei nostri sogni. Per altro va detto che Miracle Blade non è un precursore perché ha un precedente illustre nei mitici coltelli Shogun, quelli che ti portava a casa un ninja in persona (forse era il ronin Ogami Itto?). Chissà se chi ha ideato questo prodotto ha in salotto o in camera da letto la malvarosa, simbolo del clan Tokugawa. Me lo sono sempre domandato…
Lo chef Tony ha lanciato comunque un trend che ha generato proseliti. In primis il tagliatutto Nicer Dicer (con la cuoca Petra che ti regala anche un prezioso libro di ricette) ed il tritatutto Magic Bullet (da panico il personaggio della zitella scontrosa con sigaretta perenne in bocca, cui sbuca un sorriso solo dopo aver frullato insieme tutte le porcherie possibili e immaginabili). Ora spopola lo scopettone Sweep ‘n Mop (e il suo fratellino, il panno magico Kleen ‘n Dry), cosa ci riserverà il futuro è un piacevole, eccitante mistero. Non prendetemi per pazzo, sarà che sono affezionato a queste cianfrusaglie poiché quando ero piccolo in tv vendevano un pallone che si legava alla vita con un filo elastico in modo da consentirti di eseguire fantastici palleggi aerei. Ruppi così tanto l’anima a mia madre che fu costretta a comprarmelo. Povera donna…
Ah, non dimentichiamoci che in Italia abbiamo l’omino con la barba che vende una console da sfigati con mille giochi che neanche al tempo di Commodore 64 e MSX (mi perdoni ma non conosco il suo nome) e soprattutto Midiri e le sue batterie. Il jingle della sigla è da infarto e le dieci martellate alla pentola di turno lo rendono un novello Jim Duggan tutto spaghetti e mandolino.
giovedì 24 gennaio 2008
Tutto si riflette come in uno specchio. American Gangster
1968, Harlem. Bumpy Johnson è un benefattore dei ghetti, un gangster che pensa alla sua gente, alla gestione del territorio. La parola d'ordine è eliminare gli intermediari. La morte non lo coglie poi così tanto di sorpresa e il suo autista/braccio destro, Frank Lucas (Denzel Washington), ne prende il posto, eseguendone alla lettera pensieri e azioni. Con una piccola differenza: da boss di quartiere diventa il più grande narcotrafficante del paese. Comprando direttamente in Thailandia e sfruttando i voli militari da Bangkok - complice la guerra in Vietnam - per il trasporto.
1968, Essex, New Jersey. Richie Roberts (Russell Crowe) è uno sbirro con un estremo senso del dovere. Studia da avvocato e quando una pista buona lo porta dritto ad un milione di dollari, invece di prenderli li riconsegna al distretto. Corruzione è un termine che non esiste nel suo vocabolario. Si dimostra l'uomo giusto per dare la caccia alla blue magic, l'eroina purissima che circola da qualche tempo in città. Inevitabile che le strade dei due protagonisti (ottimi Crowe e Washington, con lieve predilezione per l'algido umanesimo di quest'ultimo) si incrocino fino a scontrarsi. Dal North Carolina a New York.
Ridley Scott con American Gangster (2007) mette in scena un universo solare e cupo al tempo stesso: Harlem è una esplosione di colori, odori, piacere e miseria; il New Jersey sotto la sua scorza livida e 'tranquilla' cova oscurità e sospetti, anche se permane un senso di legalità (la squadra narcotici creata da Roberts). Tutta questa materia poteva fare da miccia per un grande film. Purtroppo ci ritroviamo con una pellicola tesa e ben realizzata, ma senza lo spessore necessario. Perché dietro la macchina da presa non ci sono Martin Scorsese, Michael Mann, Brian De Palma o Michael Cimino. E i riferimenti ovvi - da Mean Streets (1972) a Heat (1995), passando per Serpico (1973), Scarface (1983), The Year of the Dragon (1985), The Untouchables (1987), Goodfellas (1990), Carlito's Way (1993) - mancano del peso di un autore, dei dovuti approfondimenti.
A Scott non restano che il genere (nudo e crudo, senza tanti fronzoli) e la tecnica, strepitosa come sempre (dalla costante presenza della neve che avvolge cose e persone ai soffocanti ralenti, dal montaggio frenetico di Pietro Scalia alla fotografia ammaliante di Harris Savides). Appena un paio di sottotesti colgono forte nel segno. L'idea di Lucas dello spaccio come azienda (per giunta a conduzione famigliare), come impresa che si mette sul mercato, perché l'american way of life è anche questo. Organizzare un monopolio grazie a prezzi e qualità vantaggiosi e sfruttarne i risultati decidendo autonomamente le regole anti trust.
Frankie però non è un criminale nell'accezione tradizionale del termine (e il suo ambiente 'black' non c'entra nulla). Vediamo un uomo freddo e saggio, con un senso della famiglia esemplare, da vero americano. Pronto a sacrificarsi (e sacrificare) per madre, moglie, fratelli e cugini. Il contrario di Richie, che proietta sull'integrità morale del ruolo sociale i fallimenti del suo essere marito e padre.
Estremi che porteranno i due a ritrovarsi seduti allo stesso tavolo. Per tirar fuori e non tener dentro il marcio che dilaga nei gloriosi Stati Uniti d'America.
domenica 20 gennaio 2008
In the mood for Hell
Appassionati della settima arte non crederete ai vostri occhi da buoni intenditori di cinefilia, se essi oseranno leggere oltre.
Il film di cui qui si parla è quello che tutti (o quasi) ritengono il capolavoro di Wong Kar Wai.
In the Mood for Love (Fa yeung nin wa), girato nel 2000 dal regista di Honk Kong, è una pellicola apprezzatissima.
In concorso al Festival di Cannes finisce per vincere il Prix d'interprétation mascoline, andato a Tony Leung Chiu Wai. Ma non è della bravura dell’attore che qui si vuole discutere. Lasciamola opportunamente indiscussa. Quello di cui intendo dilettarmi è del film nella sua interezza.
“Poetico, struggente, passionale, meraviglioso, capolavoro”, questi gli appellativi con cui esso è solitamente descritto. La mia domanda è una sola: Perché?
Wong Kar Wai non è tra gli autori che prediligo, ma è sicuramente un mio uomo di fiducia. Dopo aver apprezzato Angeli perduti (Duo luo tian shi, 1995) e Hong Kong Express (Chung Hing sam lam - 1994 -, particolare affetto riservo soprattutto a quest’ultimo), mi sono precipitata alla ricerca di In the Mood for Love. Sapevo che al contrario di dei due precedenti lavori, il film godeva di una linearità nella narrazione e nell’uso della MdP. Motivo questo che ha contribuito ad interessarmi e incuriosirmi ulteriormente. La mia ricerca, però, si è rivelata alquanto ardua (ahimé non mi era possibile scaricarlo). E più non riuscivo a impossessarmene, più il film diventava, per me, desiderato e prezioso. Poi, come per magia, l’ho trovato per caso a casa di amici di un’amica. In quel momento mi sono sentita Boris Balkan (quello, per intenderci, di La nona porta, Roman Polanski, 1999) davanti al libro Le Nove Porte del Regno delle Ombre! Purtroppo, però, cari miei, dopo aver visto il film, ho fatto la sua stessa fine: precipitata tra le fiamme dell’inferno!
Il mio, a differenza del povero Balkan, più che un inferno vero e proprio è stato fortunatamente, “solo” un inferno di delusione. E sicuramente sarà perché, come Balkan, non sono in possesso dei requisiti per godere dell’oggetto tanto desiderato. Sarà stato con ogni probabilità questo, visto che le mie considerazioni sul film sembrano differire con tutto e tutti. Dove gli altri hanno visto una fotografia fatta di un’armoniosa melodia di colori, io ci ho visto un accostamento alquanto kitsch di tinte. Tinte che richiamavano in qualche modo alla mia mente quelle prodotte, in una visuale dall’alto, dall’accozzaglia floreale dei cimiteri nel giorno della festa dei morti.
La medesima impressione mi provocavano i vestiti della protagonista (Maggie Cheung) mentre invece avrei dovuto vedervi una garbata e fine eleganza di costumi come pur accadeva “al resto del mondo”. E non parliamo del “meraviglioso” uso del ralenti atto, secondo il buon senso cinematografico, a far indugiare gli occhi dello spettatore su semplici e schietti particolari. Particolari che sovente riempiono la vita degli uomini e a cui, ancor più sovente, non si presta la meritata attenzione. Ebbene - visto che ormai ci siamo - neanche in questo caso sono riuscita a gradire. In realtà ho trovato che più che di uso del ralenti si dovesse parlare piuttosto di abuso. Un abuso talmente ridondante che finiva per spolpare la mia pazienza, quando non alimentava un’inaspettata ilarità. Questo però non vuol dire che non abbia apprezzato e invidiato, complici una decina di ralenti a essa dedicati, la grazia delle proporzioni appartenente al fondoschiena di Maggie Cheung.
Per non parlare poi della splendida estetica delle inquadrature: una successione di quadretti che finiscono per sembrare nature morte anche quando hanno per soggetto uomini vivi. Attenzione particolare è stata dedicata (anche senza ralenti!) a particolari di questo e di quest’altro. Ad esempio il lungo indugiare sul fumo di una sigaretta che sale verso una lampada al neon. Anche in tal caso non sono riuscita a cavarne gradimento, né una spiegazione diversa dall’autocelebrazione del buon gusto dell’autore! A questo punto mi fermo. Non vorrei approfittare ulteriormente della pazienza di chi, al contrario mio, è in possesso di tutti i meritevoli requisiti per amare questa pellicola. Prima però vorrei raccontarvi la trama. Due vicini di casa si accorgono che i rispettivi coniugi hanno una storia tra di loro. I due sfortunati finiscono per innamorarsi l’uno dell’altra ma non si mettono mai insieme. Perché? Non c’è nessun perché.
Ps: quell’anno a Cannes vinse Lars Von Trier con Dancer in the Dark. Vi rendete conto? Lars Von Trier che vince la Palma d’Oro… Ma questa (come dicono in certi film) è un’altra storia!
giovedì 17 gennaio 2008
Se, jie. Lust, Caution
Profumo di gelsomino, odore di sesso, cipria sui cuscini. Lunghe ed estenuanti partite a mahjong, chiacchiere da donne, shopping per le viuzze di Shanghai, pietre preziose, calze pregiate e abiti da sera. Miseria per le strade, razioni di cibo appena sufficienti, beni che scarseggiano, borsa nera. Sono i due volti dell'avamposto cinese durante i terribili anni '40, quelli che erano iniziati con l'occupazione giapponese e portano un carico di insofferenza, difficoltà e delusione con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. È in questo contesto che Ang Lee ambienta Lust, Caution (Se, jie, 2007), passionale, tremenda odissea amorosa mascherata da spy story, Leone d'Oro 2007 alla Mostra di Venezia. La vicenda è tratta dal romanzo di Eileen Chang e vede la giovane Wang Jiazhi, studentessa universitaria che ama il cinematografo, aderire alla resistenza anti nipponica. Con i suoi compagni si finge la distinta signora Mak ed entra nella vita del signor Yee, capo della polizia e spia sovversiva. Saranno quattro anni che le segneranno la vita, perché il suo 'lavoro' diventa prima passione, poi un profondo sentimento di amore e devozione. Fino alle estreme conseguenze.
Ang Lee con Se, jie vira su atmosfere rarefatte e dilatate, con una pulizia visiva sontuosa ma mai estetizzante o fine a sé stessa. Trova in Tony Leung (a scanso di equivoci, uno dei migliori attori in circolazione) e la promettente Tang Wei due corpi che si intrecciano, si allontanano e si ritrovano. Il piacere del sesso (sensuale e raffinato nella sua rappresentazione, non certo eccessivo o volgare) si lega inevitabilmente al dolore, in un corto circuito tra vittima e carnefice che è lo stesso della protagonista nel mischiare/mischiarsi tra realtà e rappresentazione, verità e finzione, paura e fedeltà. L'odore di sangue si mescola a quello dei corpi, il fumo delle sigarette al tè e al rumore degli spari, la cura dei costumi e le musiche ad una fotografia - opera di Rodrigo Prieto - fiammante e voluttuosa.
Le tracce di rossetto sui bicchieri sono graffi che lacerano il corpo, tracce impresse in maniera indelebile nella memoria. Non certo un thriller, un film storico o una pura provocazione, Lust, Caution è 'semplicemente' una storia d'amore e sacrificio che travolge e appassiona. Affascinante ed intensa proprio per questo.
Good morning, you fascists. Electra Glide in Blue
La figura di James William Guercio nel mondo del cinema è davvero strana. Di base Guercio è un produttore e compositore musicale, noto infatti per aver prodotto i primi dischi di Chicago e Blood Sweat & Tears, aver suonato con Frank Zappa nello storico esordio Freak Out! (1966) ed essere il proprietario degli studi Caribou Ranch, dove hanno registrato artisti del calibro di Joe Walsh, Elton John, Billy Joel, Carole King, Rod Stewart, Stephen Stills e i Supertramp. Nel 1973 gli viene data l'opportunità di girare un film, occasione che non si fa scappare e rimarrà anche l'unica della sua carriera. Il risultato è Electra Glide in Blue, tratto da un racconto di Robert Boris e Rupert Hitzig, che produce. La pellicola riscuote un discreto successo, viene premiata a Cannes e scuote per la vicenda affrontata.
John Wintergreen (Robert Blake) è un reduce del Vietnam che si è riciclato come agente della stradale in Arizona. La Electra Gilde è proprio la moto che cavalca come un moderno cowboy. Il suo sogno infatti è quello di entrare a far parte della squadra omicidi, risolvere casi importanti e far valere coraggio, rettitudine, istinto, umanesimo. Il momento giusto gli si presenta quando scopre un cadavere e viene affiancato all'ispettore che conduce le indagini. Non tutto però andrà come sperava, anzi, sarà per lui l'inizio di un cammino disperato che lo condurrà alla morte.
Tra la perdita dell'innocenza e i problemi di reducismo e successivo reinserimento, Guercio rappresenta un mondo opaco e privo di fiducia, che passa dai colori al bianco e nero, dall'entusiasmo alla malinconia. Wintergreen è un ragazzo pieno di fiducia, fa forza su intelligenza e dialogo, sbattendo contro un muro di diffidenza. Riesce ad arginare gli ostacoli con l'ironia (cerca di conquistare due ragazze nonostante la sua altezza 'alla Alan Ladd'), frana quando solitudine, smarrimento, indifferenza diventano i veri, autentici nemici.
Il mito americano è solo un miraggio, è svanito nel vento, nelle valli desertiche dell'Arizona, tra bar fumosi e baracche abbandonate. Guercio gira con semplicità (per non dire semplicismo) risultando comunque genuino, reale. Sfrutta i canovacci del poliziesco e del road movie per imbastire un discorso personale, dimostra anche buone qualità (la cura dei particolari nelle prime sequenze, gli inseguimenti e le sparatorie in ralenti, il lunghissimo carrello della scena finale), cura maniacale per la colonna sonora, ottima attenzione per i personaggi secondari. Il collega di John, Zipper (Billy Green Bush), è un uomo semplice e senza brio, destinato per questo ad una sconfitta (fisica e morale); il detective Harve Poole (Mitch Ryan) è un vecchio, reazionario, represso, che sfoga sugli altri la sua impotenza; la donna del 'saloon' dei poliziotti (Jeannine Riley) è la morte definitiva dei sogni, il tramonto delle passioni. Un quadro spietato e disilluso dunque, che guarda ai grandi maestri del periodo (Arthur Penn, Sam Peckinpah, Monte Hellman) e cita in maniera divertita Easy Rider (una foto di Dennis Hopper e Peter Fonda è utilizzata come bersaglio nel poligono di tiro). Peccato sia rimasto l'unico episodio della filmografia di un musicista/produttore dal gran talento.
mercoledì 16 gennaio 2008
Kim Ki-Duk. Geometria Naturale Coreana
Primavera, Estate, Autunno, Inverno e ancora… Primavera (Bom yeoreum gaeul gyeoul geurigo bom, Kim Ki-Duk, 2003) è un cerchio in mezzo all’acqua. La vita che gira nel suo elemento creatore manifestandosi mediante esistenze concentriche disposte l’una dentro l’altra da una geometria naturale. La circolarità non è solo quella della vita dei due protagonisti. Tutto in quest’opera è circonferenza di qualcosa e contemporaneamente centro di altro. Le linee curve chiuse, perfette dividono la vita in una parte interna ed una esterna che, però, non possono restare separate e finiscono per confluire. Le montagne circondano il lago. Il lago racchiude il piccolo tempio buddista. Il tempio abbraccia le vite del monaco e del discepolo. Le vite dei due uomini compiono il loro ciclo nel tempo e nello spazio. E neanche l’esterno, quello che apparentemente è al di fuori di quell’oasi, neanche la vita mondana (per dirla con le parole del monaco) ne rimane esclusa.
La storia è quella di un maestro buddista e del suo allievo nel corso delle stagioni dell’esistenza.
In primavera il piccolo monaco vive raccogliendo erbe medicinali e facendo di tutto un gioco, mediante l’incoscienza "pura" e pericolosa dei bambini. E come mischia all’erbe curative quelle mortalmente velenose, così trae divertimento e risate scorazzando in giro o seviziando un pesciolino, una rana e un serpente.
In estate il discepolo è divenuto un ragazzo dalla sessualità matura. Conosce il desiderio fisico e l’amore per una donna, arrivata al tempio per essere curata. E proprio questo amore lo condurrà ad abbandonare il mastro e a seguire la ragazza nel mondo al di là del luogo sacro.
In autunno l’allievo si è fatto uomo e, colpevole di un terribile crimine, ritorna dal maestro. Sarà, però, raggiunto dai rappresentanti della legge. In inverno, dopo aver scontato il suo debito, torna nuovamente al tempio. Il luogo sacro è, però, vuoto. Il vecchio maestro ha lasciato al fuoco le sue spoglie di uomo per divenire serpente. Il discepolo ormai uomo, è pronto ad essere a sua volta maestro e ad accogliere un nuovo allievo.
Kim Ki-Duk, come sempre, crea una pellicola impressionante. Un racconto di vite immerse nella vita. Spettacolari a dir poco i paesaggi, illuminati da una splendida fotografia verde e grigia.
Unica pecca è quella di aver stilizzato un po’ troppo in alcuni punti la cultura orientale. E ai più maliziosi potrebbe venire in mente che si tratti di un’operazione tutt’a vantaggio degli occhi dell’Occidente.
Comunque sia Primavera, Estate, Autunno, Inverno e ancora… Primavera è una stupenda fiaba. E come tutte le fiabe cova verità universali dove il bene e il male si mischiano senza fine.
sabato 12 gennaio 2008
Caldo, umido Caramello
Chiudete gli occhi e annusate. L’odore che sentirete è di lacca, smalto, capricci, fragilità e determinazione. E non state li a chiedervi che odore abbiano i capricci, la fragilità e la determinazione, possibile che non abbiate mai respirato la pelle di una donna?
Caramel (Labari, 2007) è questo: un film acqua, un film donna. Sette protagoniste legate tra di loro dai lacci di una solida amicizia, portano nel salone di bellezza “Si Belle” le proprie vicende personali. Storie di ordinaria femminilità, vicende comunissime, semplici e terribili che le fanno traballare nelle fondamenta e alle quali riescono a sopravvivere e a rimanere in piedi solo appoggiandosi l’una all’altra. La proprietaria del salone, Layale, interpretata dalla bellissima regista Nadine Labari, è innamorata di un uomo sposato, che nonostante tutte le speranze di lei, non lascerà mai la moglie perché lui “è un uomo abitudinario a cui non piacciono i cambiamenti”. Nisrine (Yasmine Al Masri) una occidentalizzata giovane donna musulmana che in procinto di sposarsi, è costretta ad un paio di punti di sutura per sopravvivere alla prima notte di nozze con un marito che non è stato il primo.
Rima (Joanna Moukarzel), che mostra allo spettatore come uno shampoo a una cliente estremamente seducente possa diventare un erotico incontro fatto di massaggi alla testa e mani nei capelli. Ma soprattutto, durante quelle sedute, mostra a se stessa la sua omosessuale identità.
E ancora Jamale (Gisèle Aouad) che non riesce ad accettare la maturità del suo corpo presentatasi al posto di una perduta giovinezza. E poi Rose (Siham Haddad) una paziente sarta che sulle soglie dell’età d’oro rinuncia all’amore di un affascinante americano per prendersi cura della sorella maggiore Lili (Aziza Semaan). Quest’ultima, diventata con l’età completamente matta, raccoglie tutte le cartacce per strada, comprese le multe sulle macchine, convinta che siano le lettere d’amore del suo fidanzato immaginario.
«Sono ossessionata dalla natura umana - dice la regista - Cerco sempre di sapere se le persone sono felici, e quello che fanno se invece non lo sono, quali sono i meccanismi che ci fanno fuggire, avanzare, lottare, etc». E con questo film, avvolto da una morbida e sinuosa fotografia, fa, in questo senso, un buon lavoro. Ed è proprio questo che ce lo fa apprezzare nonostante la pellicola, in alcuni punti, scivoli in momenti di gratuita banalità. Brave tutte le protagoniste, che seppur attrici non professioniste, danno vita ad una valida interpretazione.
giovedì 10 gennaio 2008
La nascita del male. Halloween: The Beginning
Dont' Fear (The Reaper) è la canzone che accompagna l'omicidio della sorella di Michael Myers, Judith. E già questa scelta musicale fa scattare l'applauso per Rob Zombie. Un talento cinematografico che sorprende, per altro scoperto solo di recente. L'unico in grado di potersi confrontare in maniera degna con il fondamentale (e ineguagliabile, diciamolo subito) Halloween (1978) del maestro John Carpenter. Scommessa vinta in pieno, perchè era difficile mettersi in gioco con un precedente così 'ingombrante', il capostipite degli slasher movie. Halloween: The Beginning (2007) centra un sottotesto fondamentale: la genesi del male. Michael Myers è un bambino problematico (fantastico volto quello di Daeg Faerch), non ascoltato, cresciuto con una madre affettuosa e assente (bellissima come sempre Sheri Moon Zombie), un patrigno laido e ubriacone (volto da abbattere quello di William 'Cockeye' Forsythe), una sorella che lo ignora e pensa a scopare (Hanna Hall), un paio di bulli a scuola che lo tartassano e verranno ripagati. La prima parte è il cuore di tenebra del film, oscura e penetrante, una immersione nel white trash, come un romanzo di Cormac McCarthy: la provincia americana falsa e puritana che genera mostri e orrori. Le maschere di Michael, i suoi occhi e la maglietta dei Kiss restano impressi nella memoria. Così come l'incontro con il dottor Loomis (Malcolm McDowell nel ruolo che fu di Donald Pleasence) e la 'scintilla' che scatta all'abbandono, l'assassinio dell'infermiera in manicomio: cupo ralenti, grida disperate, un fermo immagine che fa sanguinare.
Il resto della pellicola è invece ordinaria amministrazione, una scorribanda di omicidi e violenze a Haddonfield. Myers (l'ex wrestler Tyler Mane) cerca la sorella Laurie (Scout Taylor-Compton - Jamie Lee Curtis resta però nei nostri cuori), l'unica sopravvissuta al suo macello. Qui siamo nei territori dell'horror ordinario e di maniera, ma Zombie è davvero abile nel farci affondare in un clima marcio, sporco e paludoso. Il finale è un urlo soffocato nel sangue e nella memoria.
Grandi attori (vanno citati Danny 'Machete' Trejo, Udo Kier, lo sceriffo Brad Dourif e il becchino Sid 'Captain Spaulding' Haig), musiche da sballo (oltre i suddetti Blue Oyster Cult e Kiss - e il mitico theme di John Carpenter -, un parterre composto da Nazareth, Peter Frampton, Alice Cooper, Misfits, Rush), un team affiatato (il direttore della fotografia Phil Pharmet, il tecnico degli effetti speciali Wayne Toth, il montatore Glenn Garlandi). Inevitabile pensare che il prossimo progetto di Rob (il cartoon The Hunted World of Superbeasto) sarà un altro gran film.
mercoledì 9 gennaio 2008
I love you Leatherface. The Texas Chainsaw Massacre
Le rivoluzioni partono dal basso, dalle piccole cose, da spunti inaspettati. Tobe Hooper nel 1974 ha 31 anni, tante idee e pochi soldi. Sceglie il cinema per dar corpo ai suoi (nostri) incubi. Il miglior esito del suo percorso è anche il suo esordio The Texas Chainsaw Massacre (Non aprite quella porta), film che segna un punto di non ritorno per l'horror. Cinque ragazzi si mettono in viaggio durante un caldo pomeriggio estivo. Lungo la strada si imbattono in un vecchio mattatoio, luogo non certo piacevole, mai quanto la casa abbandonata nella quale si fermano e nei cui pressi incontrano una 'simpatica' famiglia dedita all'omicidio e al cannibalismo. Sembra un incubo, in realtà è solo l'inizio di una strage. Sarà Sally l'unica a salvarsi, disperata e senza più alcuna speranza.
Nonostante numerosi snodi narrativi a dir poco ingenui e semplicistici (uno su tutti: la scansione temporale giorno/notte), Hooper imprime alla vicenda un ritmo teso e nervoso. Intinge l'atmosfera di malsana, deviata psichedelia, minaccia la (a)normalità del quotidiano, scatena istinti bestiali, gioca con inquadrature sghembe, volti sempre sinistri - anche quando appaiono rassicuranti - e una suspense estrema. I carrelli laterali diventano un marchio di fabbrica, come il volto deforme e la maschera (superfluo citare la motosega, con la quale arriva ad inscenare una macabra danza nella sequenza conclusiva) di Leatherface. Un personaggio cult che resta stampato nella memoria di un genere che da sempre è coscienza 'sporca', rimosso collettivo, tanto da rendere i 'diversi' suoi eroi. Peccato poi Hooper si sia perso nei meandri di produzioni scadenti e progetti sin troppo ambizioni, fatti salvi Eaten Alive (Quel motel vicino alla palude, 1977), Salem's Lot (Le notti di Salem, 1979) e Poltergeist (1982).
The Texas Chainsaw Massacre resta una pietra miliare del cinema horror, punto di riferimento per tanti nuovi autori, tra i quali spicca senza dubbio il talento di Rob Zombie. Il suo debutto House of 1000 Corpses (La casa dei 1000 corpi, 2003) - così come il successivo, bellissimo The Devil's Rejects (La casa del Diavolo, 2005) - ha reso esplicitamente tributo al suo maestro. Otis e Captain Spaulding vivono tra ossa, pelli, brandelli di carne lacerata, tanfo di cadaveri. Uniti tutti in un grande, terribile macello.
domenica 6 gennaio 2008
L'assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford
Robert Ford è un codardo. Ha sparato e ucciso Jesse James alle spalle. In fondo Jesse faceva fuori solo gente cattiva, aveva una moglie e tre figli. E così un gesto che avrebbe dovuto renderlo immortale si trasforma per Bob in onta e disonore. The Assassination of Jesse James by the Coward Robert Ford (L'assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford, 2007) è un potente, sinuoso, magniloquente affresco western sulla creazione (e dissoluzione) di un mito. Se Walter Hill in I cavalieri dalle lunghe ombre (The Long Riders, 1980) ricorda le vicende dei James, Young e Miller con afflato ‘classico’ (tanto da affidare alle famiglie Carradine, Quaid e Keach il compito di totale mimesi), Andrew Dominik – già apprezzato per il sorprendente esordio Chopper (2000) – ammanta la vicenda di inquietudine, sottotesti insinuanti, una sinfonia visiva ammaliante dal ritmo lento e avvolgente.
L’immagine è un campo d’azione che si divide tra quadri sfocati, sporchi (le frequenti soggettive filtrate dai vetri delle finestre), continue scene notturne (fantastica la rapina al Glandale Train) e un respiro epico, dove il vento, i campi di grano e i pensieri diventano assoluti protagonisti. Instabilità fisiche ed emotive che ricordano da vicino lo stile e la poetica di Terence Malick, un riferimento che pare quasi inevitabile per Dominik. Il quale si avvale anche di una notevole fotografia (opera di Roger Deakins), delle suggestive musiche di Warren Ellis e Nick Cave (presente in un gustoso cameo) e di un parco attori che si presta in modo perfetto alle esigenze del regista. Brad Pitt è un Jesse James affascinante, disperato, enigmatico, spietato, reso paranoico da malattie e sospetti ed eterno da espressioni, gesti e movenze. Casey Affleck è un Robert Ford ingenuo e volenteroso, un ragazzino codardo solo per affermare se stesso in un mondo brutale con la distruzione del suo eroe (e l’entrata nell’età adulta). Peccato per Frankie James, un sublime Sam Shepard la cui parte è stata evidentemente mutilata nella versione conclusiva della pellicola (non a caso Dominik ha montato e rimontato il film 32 volte).
Il western è dunque morto? Allora viva il western. Come il Liberty Valance di John Ford, Jesse James è artefice di una saga che scatena la fantasia e alimenta l’allora nascente cultura di massa. Robert Ford è ciò che non sarà mai, resta un vigliacco, capace di ripetere fino a 800 volte in teatro quell’omicidio che gli è valso un mito negativo. Soltanto la morte riesce a metterlo in pari con il suo punto di riferimento Jesse. Perché giunge come un momento di completa, assoluta, definitiva liberazione.
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