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giovedì 24 gennaio 2008

Tutto si riflette come in uno specchio. American Gangster


1968, Harlem. Bumpy Johnson è un benefattore dei ghetti, un gangster che pensa alla sua gente, alla gestione del territorio. La parola d'ordine è eliminare gli intermediari. La morte non lo coglie poi così tanto di sorpresa e il suo autista/braccio destro, Frank Lucas (Denzel Washington), ne prende il posto, eseguendone alla lettera pensieri e azioni. Con una piccola differenza: da boss di quartiere diventa il più grande narcotrafficante del paese. Comprando direttamente in Thailandia e sfruttando i voli militari da Bangkok - complice la guerra in Vietnam - per il trasporto.
1968, Essex, New Jersey. Richie Roberts (Russell Crowe) è uno sbirro con un estremo senso del dovere. Studia da avvocato e quando una pista buona lo porta dritto ad un milione di dollari, invece di prenderli li riconsegna al distretto. Corruzione è un termine che non esiste nel suo vocabolario. Si dimostra l'uomo giusto per dare la caccia alla blue magic, l'eroina purissima che circola da qualche tempo in città. Inevitabile che le strade dei due protagonisti (ottimi Crowe e Washington, con lieve predilezione per l'algido umanesimo di quest'ultimo) si incrocino fino a scontrarsi. Dal North Carolina a New York.


Ridley Scott con American Gangster (2007) mette in scena un universo solare e cupo al tempo stesso: Harlem è una esplosione di colori, odori, piacere e miseria; il New Jersey sotto la sua scorza livida e 'tranquilla' cova oscurità e sospetti, anche se permane un senso di legalità (la squadra narcotici creata da Roberts). Tutta questa materia poteva fare da miccia per un grande film. Purtroppo ci ritroviamo con una pellicola tesa e ben realizzata, ma senza lo spessore necessario. Perché dietro la macchina da presa non ci sono Martin Scorsese, Michael Mann, Brian De Palma o Michael Cimino. E i riferimenti ovvi - da Mean Streets (1972) a Heat (1995), passando per Serpico (1973), Scarface (1983), The Year of the Dragon (1985), The Untouchables (1987), Goodfellas (1990), Carlito's Way (1993) - mancano del peso di un autore, dei dovuti approfondimenti.


A Scott non restano che il genere (nudo e crudo, senza tanti fronzoli) e la tecnica, strepitosa come sempre (dalla costante presenza della neve che avvolge cose e persone ai soffocanti ralenti, dal montaggio frenetico di Pietro Scalia alla fotografia ammaliante di Harris Savides). Appena un paio di sottotesti colgono forte nel segno. L'idea di Lucas dello spaccio come azienda (per giunta a conduzione famigliare), come impresa che si mette sul mercato, perché l'american way of life è anche questo. Organizzare un monopolio grazie a prezzi e qualità vantaggiosi e sfruttarne i risultati decidendo autonomamente le regole anti trust.
Frankie però non è un criminale nell'accezione tradizionale del termine (e il suo ambiente 'black' non c'entra nulla). Vediamo un uomo freddo e saggio, con un senso della famiglia esemplare, da vero americano. Pronto a sacrificarsi (e sacrificare) per madre, moglie, fratelli e cugini. Il contrario di Richie, che proietta sull'integrità morale del ruolo sociale i fallimenti del suo essere marito e padre.
Estremi che porteranno i due a ritrovarsi seduti allo stesso tavolo. Per tirar fuori e non tener dentro il marcio che dilaga nei gloriosi Stati Uniti d'America.

1 commento:

amedeo anfossi ha detto...

è vero poteva essere sicuramente più "ganzo" come film,però niente male.anche se che volete da me denzel washinton mi sta sulle palle,è più forte di me.ciao raga