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venerdì 21 settembre 2007

Umanononumano. Il figlio


Francis è un ragazzo problematico. Ha infatti un passato turbolento, anni rinchiuso in un riformatorio per aver ucciso un bambino durante una rapina. Ha scontato la sua pena e viene avviato al lavoro. Olivier è un falegname, insegna il mestiere proprio a gente che si riaffaccia alla vita. C’è un solo problema: il bambino ammazzato da Francis era suo figlio… Se Le Fils (Il figlio, 2002) fosse stato girato a Hollywood il risultato sarebbe stato di sicuro un film sul topos della vendetta. O quanto meno una (ipocrita?) rinascita (spirituale, morale, magari economico sociale). E invece Jean-Pierre e Luc Dardenne dipingono ancora il volto di una Europa cupa, incapace di adattarsi ai feroci cambiamenti del mondo. Con un’eccezione fondamentale però, tipica del loro cinema: la voglia di uscirne, di darsi una scossa, di smuovere l’individualismo sfrenato che ci governa.


Il loro è un nuovo, toccante umanesimo. Che si concretizza nel finale della vicenda, con l’esplosione fisica di Olivier (sempre bravo e teso Olivier Gourmet, Palma d’Oro a Cannes per questa interpretazione). Cosa ci resta se azzeriamo totalmente l’altro da noi stessi? È impossibile nella società di oggi concepire una parola come perdono? Dove arrivano la rabbia, la solitudine? Sono queste le domande che ci pongono i Dardenne, quesiti esistenziali ai quali è difficile dare una risposta. La loro macchina da presa pedina i personaggi, scende per le strade di una città malinconica, scarna, priva di qualsiasi speranza. Se non nell’ambiente del lavoro (che paradosso), dove Olivier educa i suoi ragazzi ad una nuova esistenza. È una sorta di 'neo neorealismo': macchina a mano, primi piani, lunghi piani sequenza, una fotografia asciutta. Uno stile crudo, spesso minimalista, che rallenta volutamente il ritmo della narrazione per concentrarsi sui mille rivoli nei quali gli animi si perdono, si ritrovano, si smarriscono di nuovo.


Può piacere o meno, risultare fin troppo eccessivo, ma lo sguardo dei Dardenne sul mondo è doloroso e necessario. Sono pochi i registi europei di oggi (ci vengono in mente Ken Loach, Laurent Cantet, Géla Babluani, Cristian Mungiu, Matteo Garrone) ad avere tanto coraggio, rigore e lucidità.

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