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La città incantata (Sen to Chihiro no kamikakushi, 2001) di Hayao Miyazaki è un denso film d’animazione. La vivacità e la varietà dei colori, la delicatezza nel disegno e nei movimenti dei personaggi, riempiono e ammaliano gli occhi. Questa forma elegante e morbida contiene il racconto di un passaggio “uno e trino”: quello da un’età a un’altra della protagonista Chihiro, quello dell’Oriente che si va “occidentalizzando” e, in ultima analisi, quello di tutti gli individui, che rischiano di esser resi trasparenti, nella loro singolarità, dalla globalizzazione.
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Il geniale pedagogo dell’animazione, però, non si limita esclusivamente a denunciare l’ingordigia consumistica che, dopo aver completamente infettato il mondo occidentale, sta permeando anche il Paese del Sol Levante a scapito della sua millenaria cultura. A questo proposito sembra emblematica la sequenza in cui i genitori di Chihiro cominciano a mangiare senza riuscire più a fermarsi, fino a diventare dei maiali, che verranno fagocitati a loro volta.
Miyazaki offre anche una via di fuga rispetto alla mostruosa neutralità dei semi-vivi : "solo non dimenticando mai il nostro nome, potremmo tornare a casa", fa dire a uno dei protagonisti. In altre parole, solo alimentando la cura di sé, si può anelare a un libero e soggettivo equilibrio. La politica dei campi di concentramento nazisti non era forse quella di cancellare la soggettività e annullare la personalità dei detenuti per inficiare qualsiasi reazione o pensiero di ribellione e condurli “pacificamente” ai forni?
La Città Incantata racconta così la storia di un “Io”, frutto di una personalissima volontà, la quale sopravvive nonostante le “subliminali” imposizioni esterne. Ed è proprio questa volontà a fare la differenza tra un individuo e una vittima-target della società del consumismo...
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