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domenica 16 settembre 2007

La magnificenza oscura. Voglio la testa di Garcia


L'immagine di presentazione scelta da una/o dei due è inequivocabile. Bring Me the Head of Alfredo Garcia (Voglio la testa di Garcia, 1974) di Sam Peckinpah (inchino) è un testo di frontiera. In tutti i sensi del termine. Estetico e fisico. È la fine dei sogni, il termine ultimo del coraggio, una visione dell'esistenza malinconica, estrema, dannatamente vitale. Da ultima sigaretta. Passione, disperazione, tenerezza e terrore si fondono nella vicenda di Elita e Bonnie (un immenso Warren Oates, che vive una mimesi totale mettendo nel suo personaggio Peckinpah stesso). Due perdenti. È bello scriverlo per questi due emarginati. Un puttana che spera (splendida Isela Vega), un pianista fallito che spara. Spara perché c'è un ricco fazendero (El Jefe, Emilio 'El Indio' Fernandez) che darà un mucchio di soldi a chi gli porta la testa di Alfredo Garcia, l'uomo che ha messo in cinta sua figlia. Peccato che il buon Alfredo sia già morto...


È il film più crudo, nero, macabro, definitivo del regista americano. Una di quelle opere che cambiano il corso delle cose. Gli occhiali da sole perennemente sul volto (anche di notte), l’abuso di alcolici quasi a placare rabbia e delusione, il disagio fisico e psicologico, il desiderio di riscatto che si trasforma in totale distruzione. È questo Bonnie. "Una natura perdente", come viene definito in una battuta. Una storia d'amore che si tramuta in esplosivo martirio.

La ricerca e la consegna della testa di Alfredo Garcia assumono i connotati della ricerca del Santo Graal, della ricerca del vello d'oro: tratteggiano una nuova mitologia, oltre ogni logica di genere. Vita e morte si intrecciano incessanti, l'una dietro l'altra, anche se il film continua a darle per separate in modo sardonico e beffardo. I dialoghi grotteschi con la testa mozzata di Garcia (vero motore dell'azione) preludono al caos finale, la sparatoria martirio nella sfarzosa villa di El Jefe. Il tutto connotato con i tratti di un rituale da tragedia (vittime, carnefici, coro di lamenti). L'istinto, le componenti ferine si scatenano. È l'olocausto definitivo dei propri valori, presa di coscienza che si ritorce contro se stessa. La morte è tornata trionfante e immotivata. Oltre la vita non resta che il foro fumante della canna di un fucile. Sublimato dal rabbioso e perverso fermo-immagine "directed by Sam Peckinpah".


Gli spari, il buio. L'oscurità e la rinascita di uno stile. Sam osa e si supera nell'intensità drammatica dei primi piani. Nel ralenti rimesso a nuovo e fatto esplodere in modo acuto in fasi di apparente tranquillità (intensifica il ritmo, altera il tempo per modificare in pieno lo spazio). Nella fusione di generi. Nella velocità della narrazione. Nella creazione di un mondo mostruoso, di un universo (narrativo) parallelo. Che ha mostrato soprattutto il volto vulnerabile dell'uomo. Capolavoro.

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