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lunedì 10 settembre 2007

Voglio morire. Ho affittato un killer


Aki Kaurismäki è un regista rock. Forse è il regista rock. Fuori e dentro i suoi set, nella vita e sullo schermo alcol a fiumi e sigaretta perenne tra le dita. Un animo nobile, troppo puro per questo mondo. Che canta con disillusione come un moderno Chaplin, con il sorriso sulle labbra, toni così tragici e reali da risultare grotteschi. Il rock lo anima (e la fusione con tutti gli altri generi), tanto nelle incursioni più tremende (la trilogia sulla classe operaia Ombre in paradiso - Varjoja paratiisissa, 1986 -, Ariel - 1988 - e La fiammiferaia - Tulitikkutehtaan tyttö, 1989 -; la ‘trilogia dei perdenti’ composta da Nuvole in viaggio - Kauas pilvet karkaavat, 1996 -, L’uomo senza passato - Mies vailla menneisyyttä, 2002 - e l’ultimo, bellissimo Le luci della sera - Laitakaupungin Valot, 2006 -), quanto in quelle leggere, smaccatamente musicali (il documentario La sindrome del lago Saimaa, Saimaa-ilmiö, 1981; il divertito, divertente e dissacrante Leningrad Cowboys Go America, 1989).


Ho affittato un killer (I Hired a Contract Killer, 1990) unisce queste due anime. È la storia di Henri (un meraviglioso Jean-Pierre Léaud, con la sua espressione pietrificata), triste impiegato francese (appena licenziato), che vive un’esistenza inutile in una Londra livida e indifferente. Un luogo come un altro in fondo, perché parte di un mondo popolato da stronzi (e) arrivisti, dove i puri non hanno posto. Per loro c’è solo il Nulla. Ecco allora l’idea: morire. Difficile realizzarla da codardi. Meglio assoldare un killer. Ma l’attaccamento alla vita è troppo forte, specie dopo una sana sbronza e dopo essersi innamorati di una donna, una venditrice ambulante di rose. Una passione così travolgente che fa rinascere, rivedere un intero ordine di valori. Salvo poi affrontare l’imprevisto che è sempre dietro l’angolo.


Una vicenda che esalta al meglio lo stile di Kaurismäki (che si regala un cameo delizioso, da venditore di occhiali da sole). Un microcosmo di perdenti cronici (dalla vittima al carnefice materiale). Lunghi, dolorosi silenzi. Una regia minimalista eppure ricca di particolari (la cartaccia calpestata dai passeggeri che salgono in tram; un bagaglio da fuga composto di spazzolino, sigarette e qualche spicciolo). Ironia feroce e surreale (gli esilaranti tentativi di suicidio; il biglietto lasciato in casa per il killer). Spazi giganteschi terribilmente soffocanti. Solitudini che si incontrano, destini beffardi che si incrociano. Per ritrovare un senso di solidarietà che sembrava ormai perduto.


Aki Kaurismäki è questo. Dedica il film a Michael Powell, sceglie per le musiche Billie Holyday, Little Willie John e Joe Strummer (che suona di giorno in un locale fumoso), chiude l’opera con un intenso, commovente Serge Reggiani (il gestore del bar Vic). Ho affittato un killer è un film che suona come un viscerale blues, scivola via doloroso come la vita, i giorni che passano e l’attesa di una morte voluta, desiderata, per questo da rimandare il più tardi possibile.

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