find the path

venerdì 7 settembre 2007

Un uomo nel mirino. La macchina da presa a mano armata: Umberto Lenzi


La macchina da presa come una Magnum 44. Non quella per ‘Dirty Harry’ Callahan, quella per i commissari Tanzi, Berni, Sarti e Betti o per l’ispettore Grandi. Umberto Lenzi è uno dei migliori registi italiani. Attenzione, non autori. Registi. Uno che dietro la mdp sapeva cosa fare, come muoversi, dove piazzare gli attori, quando sparare, far uscire sangue, colpire allo stomaco, accarezzare lo spettatore. Quello che si dice un artigiano, un artigiano con le palle. Uno che ha studiato il cinema (nel 1956 si è diplomato al Centro Sperimentale di Cinematografia con un corto pasoliniano intitolato I ragazzi di Trastevere), lo ha amato, vissuto, scopato. Uno che si è fatto le ossa e per questo può dirigere di tutto (come solo i grandi di una volta), dal poliziesco all’horror, dal war movie al film d’avventura, dalla commedia al western.


Una vita caratterizzata da soddisfazioni e successi, riconoscimenti (quelli di Quentin Tarantino e Joe Dante sono solo gli ultimi, non certo i più prestigiosi) e lunghe pause. Il tempo del cinema di genere in Italia è ormai finito, il suo ultimo film è infatti Sarajevo inferno di fuoco (1996), per altro uscito solo all’estero. Una barbarie per un regista dal talento cristallino, anarchico, mai domo. Un toscanaccio capace di levarsi mille soddisfazioni e confrontarsi con tutti i campi del nostro immaginario. Affronta l’avventuroso (il suo esordio è con Le avventure di Mary Read, 1961). Passa alla spy story (A 008 Operazione Sterminio, 1965, fa il verso al modello James Bond; Kriminal, 1966, è tratto da un fumetto di successo). Si getta sul film di guerra (Attentato ai tre grandi, 1967, è piuttosto modesto; Il grande attacco, 1978, è un kolossal dalla messa in scena maestosa, anarchico e disilluso). Non si intimorisce di fronte all’esplosione del giallo thriller (il dittico formato da Orgasmo, 1968, e Spasmo, 1974, Così dolce... così perversa, 1969, e Sette orchidee macchiate di rosso, 1971, - devastato dai produttori - sono manna dal cielo per gli amanti delle perversioni sadico psicoanalitiche). Capisce che è tempo di cambiare quando il riflusso degli anni ’80 impone di affrontare il rimosso collettivo con l’horror (e così prendono forma gli incubi e le visioni truculente del cannibal movie con Il paese del sesso selvaggio, 1972, Mangiati vivi!, 1980, e Cannibal Ferox, 1981; Incubo sulla città contaminata, 1980, omaggia Romero, la vicenda però è d’impatto e di sicuro Danny Boyle - 28 Days Later, 2002 - e Robert Rodriguez - Planet Terror, 2007 - ne hanno tratto ispirazione).


Una personalità forte, robusta. Ricca di fermenti insomma. Un talento che si forma con i classici del cinema statunitense (John Ford, Howard Hawks, Raoul Walsh, Robert Siodmak, Don Siegel, Sam Peckinpah, Samuel Fuller, Robert Aldrich), pur cementando una sensibilità tutta italiana che emerge soprattutto nei polizieschi. Perché se Lenzi, come detto, ha fatto tanto in tutti i filoni, è nel poliziesco che ha trovato il suo genere. È in questo campo che ha dato il meglio di sé, rivoluzionando – insieme a gente come Fernando Di Leo, Enzo G. Castellari, Stelvio Massi – l’immaginario di una generazione (i ‘terribili’ anni ’70) con ritmi serrati, tensioni portate allo spasmo, una violenza eccessiva e debordante. Accusato di fascismo per come ha delineato certi suoi personaggi (lo sbirro infame e cinico, il delinquente senza remore, il cittadino che si fa giustizia da solo), in realtà tratteggia un universo fangoso e misero, privo di speranze se non nello slancio individuale del singolo. Totale mancanza di fiducia nelle istituzioni dunque, perché l’uomo è schiacciato dal potere e solo un’azione eccessiva, straordinaria, incredibilmente estrema e libertaria può salvarlo.


Una parabola di vita che ci restituisce soprattutto il clima di tensione dell’epoca: il terrorismo, gli attentati, le rapine a mano armata, gli omicidi, le stragi, inquietudini nascoste portate alla luce con un taglio realista, emozionale e sempre attento a non perdere di vista l’impatto spettacolare. Da Milano Rovente (1973) allo stupendo Da Corleone a Brooklyn (1979) è un continuo susseguirsi di azione, tensione e riflessione. Zoom repentini, tagli di montaggio frenetici, ralenti e camera car frastornanti. La nuova malavita milanese, l’ipocrisia dei salotti pariolini, l’eccessivo garantismo della giustizia, le pastoie della burocrazia, i modi sbrigativi di certi poliziotti che delle regole se ne fottono, la miseria umana che popola le periferie. Basta vedere Napoli violenta (1976), esagerato nei modi e nei toni, diretto con polso fermo, un senso del ritmo incredibile, attori in stato di grazia (la faccia di cemento di Maurizio Merli, la classe di John Saxon e Berry Sullivan).


Il vero capolavoro è Milano odia: la polizia non può sparare (1974). Geniale nella scelta dei personaggi (il volto di gomma di Henry Silva è inaspettatamente associato allo sbirro, Tomas Milian è il criminale Giulio Sacchi, una figura feroce, dominata da paura, alcol, droga, arrivismo sfrenato), si avvale della sapiente sceneggiatura di Ernesto Gastaldi che tratteggia la Milano dell’epoca con occhio attento alle tensioni evidenti e sotterranee. La bestialità umana deborda travolgente, gli istinti bassi e animali finalmente prendono piede. Nessuna giustificazione, la violenza esplode spontanea. Due scene in particolare per capire fin dove osa Lenzi: l’uccisione degli anziani robivecchi che forniscono alla gang le armi e l’irruzione di Sacchi nella casa dei ricchi borghesi annoiati, con annesso stupro e macello. La sinfonia è quella del mitra, il ritmo un 4/4 al quale non si può resistere. Violenza che si congela quando Umberto contamina il suo noir (o polar alla Melville, chiamatelo come vi pare) con la commedia e con Dardano Sacchetti crea il personaggio der Monezza. Il trucido e lo sbirro (1976) è il risultato: altro poliziesco notevole, ricco di inseguimenti, sangue e sparatorie. Con un Henry Silva cattivissimo (Brescianelli popola i nostri incubi peggiori) e una serie di caratteristi da urlo (Robert ‘er cinico’ Hundar, Biagio ‘il calabrese’ Pellagra, Giuseppe ‘Vallelunga’ Castellano, Tano ‘er cravatta’ Cimarosa, Ernesto ‘er roscetto’ Colli). Sarà poi con il valido La banda del Gobbo (1977) e il clamoroso Il cinico, l'infame, il violento (1977) che il regista darà le ultime svolte truci alle sue opere, permeate ancora di pessimismo, ironia, sane volgarità, lotta acerrima al finto perbenismo. Prima che Bruno Corbucci declini il personaggio nelle vesti di Nico Giraldi e finisca una stagione di gloria.

Per favore, non chiamateli poliziotteschi!

Nessun commento: